mercoledì , 11 Dicembre 2024

Il Pride, le divise e il demone dell’inclusività. Uno sguardo strabico contro la tradizione

di MALOCCHIO MOODY

Seguo con qualche interesse il dibattito sulla partecipazione dell’associazione di poliziotti arcobaleno al Pride bolognese, che però mi sembra mancare il punto. Politicamente non condivido la posizione racchiusa nello slogan «il Pride è di tutt*» ma al tempo stesso è veramente difficile non registrare che le cose stiano poi effettivamente così. Mi viene in mente quando non troppi anni fa un rifugiato intervenne dal palco del Pride nella democratica Bologna e fu contestato dalle prime file del pubblico al grido «tornatene a casa tua». In quell’occasione, anche i manifestanti spudoratamente razzisti sentirono che il Pride era invece casa loro, perché se il Pride è di tutt*, allora deve essere proprio di tutt*. È il demone dell’inclusività, che poi non è altro che ideologia liberale accompagnata da gattini.

Dopo lo sconveniente episodio si cominciò un ragionamento collettivo sul senso e l’attualità di questa manifestazione, il cui esito mi sembra in realtà poco promettente. Tornando all’oggi mi chiedo infatti: come può un Pride che dice di essere «rivolta», con tanto di accurati riferimenti storici di cui dirò più avanti, finire per essere frequentato e rivendicato dalle divise anche se tinteggiate di rainbow? Certo, i fraintendimenti sono sempre possibili, ma in questo caso è tutto molto limpido: vengo anch’io! No tu no! Vengo anch’io! No tu no! Se esiste un documento politico, scritto in maniera chiara e intellegibile, che indica le rivendicazioni, le posizioni e gli obiettivi che chi partecipa alla manifestazione più o meno dovrebbe sottoscrivere, che male c’è se addirittura le forze dell’ordine decidono di dedicarsi alla sovversione dell’ordine esistente? Il sospetto è che il fraintendimento sia ben più profondo, e che nella lotta contro l’autorità della tradizione si sia finito per adottare la stessa strategia dell’avversario, così che il Pride sia diventato anch’esso poco più di una tradizione.

Certo, una tradizione polemica e a suo modo oltraggiosa, un po’ come la tv negli anni ’90 che oggi fa tanta nostalgia. Ma appunto, si tratta di una tradizione: è difficile mettersi d’accordo sul perché seguirla (la risposta è: proprio perché è una tradizione), mentre tutti sanno più o meno cosa si deve fare. In questo senso il Pride è di tutt*, perché a nessun* è concesso di determinarne puntualmente i contenuti. Non è un caso che negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare del racconto di storie e miti fondativi per legittimare la possibilità di una qualsiasi presa di parola nel presente: Stone Wall raccontata in tutte le salse, immagini di Sylvia Rivera che fanno capolino un po’ ovunque, ardite citazioni di Mieli, incontri con madrine e padrini d’eccezione, libri, film, mostre e via ad andare. Quando un movimento decide di farsi storia magari vuol dire che ha già detto tutto?

Ci sono però delle domande che quest’anno penso sarebbe stato opportuno porsi all’altezza del Pride e che avrebbero magari spostato il dibattito rendendolo certamente non risolutivo, ma quantomeno più interessante. Mi chiedo per esempio cosa ha da dire il movimento lgbtq+ su questa guerra? In che modo intende stare attivamente dalla parte delle donne trans che vengono bloccate al confine ucraino per colpa dei documenti non rettificati? Come intende opporsi all’intensificazione dell’autoritarismo patriarcale che cerca di reprimere la libertà sessuale di tutte e tutti? Cosa ha da dire rispetto all’Unione Europea che ai paesi candidati all’ingresso nell’UE richiede di garantire la tutela delle minoranze, mentre chiude tutti e due gli occhi sugli attacchi sistematici alle condizioni di vita di lavoratrici e lavoratori di ogni genere? Infine, come pensa di risolvere la contraddizione tra la richiesta di veder riconosciuto il desiderio di genitorialità legalizzando la GPA e la solidarietà femminista transnazionale con le donne povere che in Ucraina e Georgia soddisfano quel desiderio per pochi spicci? Queste sono alcune delle domande che ci si sarebbe potuti porre per tentare di rinunciare alla tradizione e cominciare a parlare al presente.

In allegato, la foto del Tweet della marina statunitense per celebrare il Pride. Non sono necessari ulteriori commenti.

 

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