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Governance e conflitto sociale nel tempo della pandemia

di CINZIA ARRUZZA e FELICE MOMETTI

da «Viewpoint Magazine», 9 aprile 2020

Scioperare per la propria vita

Lunedì 29 marzo gli operai della General Electric hanno protestato per le migliaia di licenziamenti annunciati dai manager della compagnia, chiedendo invece una riconversione della produzione e ponendo una semplice domanda: «se la GE ci affida l’incarico di costruire, testare e fare la manutenzione di motori per aerei su cui viaggiano milioni di persone, perché non dovrebbero ora affidarci l’incarico di costruire dei semplici ventilatori?»

Questo è stato uno dei tanti scioperi, più o meno legali, che i lavoratori di diversi settori hanno portato avanti nel mondo. Un’ondata di scioperi a marzo ha costretto il governo italiano a interrompere la produzione di beni non essenziali, anche se quella battaglia non è ancora vinta del tutto. I lavoratori di Amazon e di altre aziende della logistica hanno protestato e scioperato in Francia, Italia, Stati Uniti e in molti altri paesi per via delle scarse condizioni sanitarie dei luoghi di lavoro e la mancanza degli standard di protezione personale, mentre i lavoratori dei settori «non essenziali» hanno interrotto la produzione, usato il congedo per malattia o semplicemente hanno smesso di presentarsi a lavoro, rifiutandosi di rischiare la propria vita in nome dei profitti delle varie compagnie. Chris Smalls, uno degli organizzatori della protesta nel magazzino Amazon di Staten Island, poi licenziato come atto di ritorsione da parte dell’azienda, scrive questo in una lettera aperta a Jeff Bezos: «a causa del Covid-19, ci viene detto che i lavoratori di Amazon sono la ‘nuova Croce Rossa’. Il fatto è che i lavoratori non vogliono essere eroi. Siamo persone normali. Io non ho una laurea in medicina. Non sono stato preparato a operazioni di primo soccorso. Nessuno dovrebbe chiederci di mettere a rischio la nostra vita per venire al lavoro. Eppure, ci viene chiesto. E qualcuno deve prendersi la responsabilità di questa cosa. E quella persona è lei». I lavoratori e le lavoratrici del settore sanitario, alimentare, delle pulizie, del commercio al dettaglio e dei trasporti pubblici si stanno opponendo sempre più strenuamente a chi li vuole mandare al macello, mettendo in campo una serie di proteste per ricordare al mondo intero che non bastano le celebrazioni dei nuovi eroi della classe lavoratrice, che non si sentono martiri pronti per essere santificati, vogliono protezioni e condizioni di lavoro e salariali migliori.

I luoghi di lavoro non sono l’unico teatro di conflitti in questi tempi di pandemia. Gli affittuari, molti dei quali hanno perso il proprio reddito e lavoro e vivono in zone sottoposte a vari tipi di obblighi di restare a casa, si stanno organizzando per interrompere i pagamenti degli affitti e opporsi agli sfratti. I detenuti sono in agitazione, dall’Italia all’Iran fino agli Stati Uniti, spaventati dal fatto che le prigioni potrebbero da un momento all’altro trasformarsi in campi di morte per il diffondersi del virus. Organizzazioni di mutuo soccorso stanno nascendo spontaneamente, ricorrendo ai social media per coordinarsi e raggiungere chiunque sia in difficoltà. Mentre alcune di queste lotte e scioperi sono nati e sono stati coordinati all’interno di organizzazioni politiche e sociali preesistenti, molte oltrepassano i confini delle infrastrutture organizzative esistenti per radicarsi nella spontaneità di un comportamento o di un rifiuto, di una resistenza o di una solidarietà, facendo emergere forme di auto-organizzazione dal basso come risposta a una crisi senza precedenti.

Nell’attuale condizione surreale e sospesa sarebbe semplice concentrarsi solamente sulla catastrofe che si dispiega davanti ai nostri occhi, sulle sirene che continuamente infrangono il silenzio delle città svuotate, sulla conta dei morti e dei contagiati e sulla deprimente crisi economica. Eppure, questo tempo pieno di ansie e inquietudini racchiude anche lotte, esperienze di solidarietà e processi di auto-organizzazione e ricomposizione di classe.

Ciò che tutte queste lotte hanno in comune è il puro e semplice rifiuto di morire o veder morire qualcuno per il bene del capitalismo, il rifiuto che esprime ciò che il Marxist Feminist Collective in uno statement sulla pandemia ha chiamato la contraddizione tra il fare-profitto e il fare-vita, una contraddizione che giace al cuore del sistema capitalista.

Rifiutandosi di mettere il profitto prima della vita, queste lotte stanno aprendo almeno due linee di scontro. La prima riguarda la risposta immediata alla pandemia e la sua dimensione di classe, genere e razza; la seconda ha a che fare con trasformazioni sociali sul medio-lungo periodo. In un momento in cui diversi paesi stanno ricorrendo a forme diverse di neo-keynesismo per evitare il collasso dell’economia e i tumulti sociali, la domanda scottante che ci si pone davanti è se queste misure segneranno o meno la fine del neoliberismo e dell’austerità: l’esito dipenderà in larga misura dalla lotta politica e sociale.

Sulla governance della pandemia

La pandemia sta producendo una congiuntura globale a cui stanno rispondendo insorgenze in tutto il mondo. Allo stesso tempo, il suo governo è lungi dall’essere omogeneo attraverso i confini nazionali: le dinamiche della politica nazionale hanno le proprie specificità e danno vita a contesti significativamente diversi che condizionano i processi di lotta e soggettivazione, per quanto tutti avvengano sullo sfondo di un contesto globale che ci unisce.

Da questo punto di vista, uno dei limiti principali del discorso sullo «stato d’eccezione», che si concentra sui rischi della svolta autoritaria connessa alla sospensione della libertà derivante dai lockdown, è che riduce l’enorme complessità della situazione attuale a una notte in cui tutte le vacche sono nere. Inoltre, non coglie la specificità del terreno di lotta in molti paesi oggi.

Per prima cosa, non è vero che i governi si sono precipitati ad adottare misure di emergenza e di sospensione della libertà. Piuttosto, è vero il contrario: in molti casi i governi hanno esitato e inizialmente addirittura rifiutato di sospendere la normalità capitalistica. Questo ritardo sta avendo effetti devastanti in Italia, Spagna, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Svezia, solo per fare alcuni esempi. Quando gli esecutivi hanno infine deciso di iniziare il lockdown, lo hanno fatto sotto la pressione degli esperti sanitari, per paura di un collasso del sistema sanitario (dovuto in buona parte all’indebolimento del settore dopo decenni di privatizzazioni e tagli in nome dell’austerità) e per la pressione dal basso dei lavoratori che si rifiutavano di andare a lavorare. In effetti, l’idea che gli Stati capitalistici possano avere un particolare interesse a tenere le persone in casa è piuttosto bizzarra e materialmente contraddetta dai numerosi tentativi di delineare un rapido ritorno a qualche forma di «normalità» che possa permettere alle persone di andare a lavorare (e consumare).

In questo contesto in effetti la pandemia è stata l’occasione per alcuni governi con tendenze autoritarie per concentrare ancora più potere nel proprio esecutivo, come sta accadendo in Israele, Ungheria e in India. Ma neppure questi sono processi lineari e automatici che si verificano uniformemente in tutti i paesi governati dall’estrema destra. In Brasile, Bolsonaro si sta arroccando su posizioni negazioniste, nonostante ciò lo stia isolando politicamente spostando il potere di rispondere all’emergenza sui governi regionali. Negli Stati Uniti, Trump si è rifiutato di emanare un’ordinanza federale di restare a casa insistendo sull’autonomia dei vari governatori nel decidere in maniera flessibile quali provvedimenti adottare. La Cina è un caso a parte, data l’esistenza pregressa di un apparato di potere autoritario su cui la risposta alla pandemia ha potuto far leva.

Piuttosto che giustapporre formule astratte su una realtà complessa, sarebbe più utile prestare attenzione alla sperimentazione di diverse forme, vecchie e nuove, di governance della pandemia. Ad esempio, l’attuale concentrazione di potere nelle mani dell’esecutivo in Italia e in Germania sta producendo tensioni con i governatori delle regioni e dei Länder, ed entrambe sono in rapporti sempre più tesi con le istituzioni transnazionali europee. Negli Stati Uniti, non solo non sta avvenendo alcuna redistribuzione di potere tra le istituzioni federali, ma le politiche amministrative degli Stati sono diverse tra di loro ed entrano in tensione, in momenti e per motivi diversi, con l’approccio scostante dell’amministrazione federale. Un esempio piuttosto chiaro è lo scontro tra Trump e il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, che è diventato adesso il vero oppositore di Trump pur non essendo il candidato democratico alla presidenza. Molti Stati europei e gli Stati Uniti stanno adottando forme di governance che includono nei processi decisionali specifici gruppi di interesse: settori della comunità scientifica nazionale, grandi aziende, istituti finanziari e comitati economici nazionali. La pandemia ha dato anche l’occasione alla Cina e agli Stati Uniti di ridefinire le proprie strategie geopolitiche. Per l’amministrazione di Trump si è trasformata in un’occasione per spingere verso un cambio di regime in Venezuela e rafforzare le già abominevoli sanzioni per l’Iran. La Cina, nel frattempo, sta adottando una strategia soft che mira a espandere la propria egemonia su scala internazionale mandando medicinali e personale medico in dozzine di paesi, una strategia che ora gli Stati Uniti desiderano imitare: Trump ha ventilato la possibilità di spedire in Italia medicinali per il valore di 100 milioni di dollari persino in un momento in cui gli Stati Uniti faticano a reperire le mascherine necessarie a proteggere quantomeno chi lavora in prima linea nell’assistenza sanitaria.

Nemmeno questi esperimenti di governance avvengono in maniera liscia; anzi, sono messi alla prova dalla continua antinomia tra normalità ed eccezione: la normalità del funzionamento di un modo di produzione sociale, l’eccezione imposta dalla pandemia sulla riproduzione sociale della vita o sulla normalità della circolazione nei luoghi pubblici – che non possono essere completamente chiusi – e l’eccezione dell’immobilità negli spazi privati. Questi esperimenti di governance si modificano in continuazione, dovendo fronteggiare i limiti degli attuali sistemi di welfare, in primo luogo della sanità, e dovendo destreggiarsi nell’articolazione di poteri locali, nazionali e transnazionali. Un esempio è il modo in cui l’autonomia dei governatori degli Stati statunitensi viene giocata per farsi competizione nell’acquisto dei respiratori. La competizione per le risorse è presente anche tra i governatori delle regioni in Italia. È impossibile prevedere ora come questi esperimenti evolveranno, in quanto le variabili in gioco sono molte, dal conflitto tra diverse istituzioni dello Stato al livello di intensità e di portata del conflitto sociale dal basso.

L’aumento sbalorditivo della disoccupazione, la distruzione e la sconnessione delle catene globali del valore, e la necessità di riorganizzare la riproduzione sociale hanno imposto alle istituzioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea delle misure economiche massicce per evitare non solamente il collasso economico, ma anche l’esplosione del disordine sociale in risposta alla depressione che incombe. Le caratteristiche che queste misure hanno in comune possono essere definite una sorta di keynesismo provvisorio e molto parziale o un «keynesismo con una data di scadenza». Come ha scritto Bue Rübner Hansen: «Queste politiche sono ad-hoc e pensate come misure di breve periodo, come il medico della medicina ippocratica la cui decisione (krino) agiva sul punto di svolta (krisis) della salute del paziente. Tuttavia, con ogni probabilità, il Covid-19 non è uno shock esogeno temporaneo».

Ad esempio, durante il briefing giornaliero di venerdì 3 Aprile, Trump ha dichiarato che l’amministrazione stava progettando di utilizzare i fondi del pacchetto di incentivi economici per pagare i costi dell’ospedalizzazione dei pazienti Covid-19 che non sono coperti dall’assicurazione sanitaria, piuttosto che allargare la copertura assicurativa o riaprire l’iscrizione ai programmi dell’Obamacare. Intanto, la grande maggioranza dell’establishment democratico, incluso il candidato che guida le primarie, Joe Biden, continua a rigettare Medicare for All anche di fronte all’epidemia. I 2000 miliardi di dollari degli incentivi statunitensi e i 750 miliardi di euro allocati dall’Unione Europea con la successiva aggiunta di 100 miliardi di dollari come supplemento ai redditi dei lavoratori sono misure che, nonostante la loro sbalorditiva grandezza, non mettono alla prova l’impalcatura neoliberale. Inoltre, nessuna misura significativa è stata assunta per le vittime degli abusi domestici, per quelle donne per le quali «restare a casa» non è sinonimo di sicurezza; e nemmeno l’aumentato carico del lavoro domestico delle donne è affrontato in alcun modo. Oltretutto, questi interventi sono spesso basati su politiche anti-immigrati e di chiusura dei confini, e nulla è stato fatto per liberare chi è detenuto nei centri di detenzione per migranti e nei campi profughi dove l’accesso alla sanità è vicino allo zero e il virus potrebbe fare centinaia di morti.

Il chiaro obiettivo delle misure è la ricostruzione delle condizioni di riproduzione dei rapporti sociali capitalistici, e certamente non la loro trasformazione radicale. L’intervento sul «Financial Times» dell’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, può essere utilizzato per illustrare la logica sottesa a questo enorme gettito di denaro messo in circolazione negli Stati Uniti e nell’Unione Europea. Secondo Draghi, la crisi attuale non è una crisi ciclica, ma dovuta a fattori esogeni. Perciò, la ricetta che propone è di aumentare i debiti nazionali per dar modo alle grandi imprese private di superare l’emergenza e poi di tornare a fare affari come al solito. E in realtà, la maggior parte dei fondi andranno a imprese private, ma senza la messa in atto di una politica seria per salvare i posti di lavoro ed evitare i licenziamenti, perché l’erronea supposizione è sia che le aziende eviteranno i licenziamenti se ottengono soldi, sia che esse creeranno nuovi posti di lavoro una volta che l’emergenza sarà finita. Questa è anche la logica della temporanea sospensione dell’Eurozone Stability Pact, che il governo tedesco, tra gli altri, non vuol far diventare un precedente per una trasformazione strutturale delle politiche economiche dell’Eurozona verso l’abbandono dell’austerità neoliberale. Se l’obiettivo della ricostruzione delle condizioni della riproduzione del capitale sarà raggiunto o meno dipenderà da una serie di fattori, tra i quali le dinamiche politiche e i rapporti sociali di potere.

Soggettivazione e auto-organizzazione in un tempo dissestato

La congiuntura presente è piena di tensioni e contraddizioni. Il tempo è dissestato, fitto di eventi e sospeso. Contraddizioni e ambivalenza caratterizzano anche le forme della socialità, combinando l’isolamento sociale con un surplus di connettività e comunicazione attraverso una quantità enorme di social media. Non possiamo prevedere ora come la vita sociale sarà trasformata in seguito alla pandemia, ma è perfettamente possibile che le forme di ciò che Foucault avrebbe chiamato «tecnologie del sé», della soggettivazione e della comunicazione saranno ancora più ibride che negli ultimi tempi, nella direzione di una maggiore convergenza tra incontri e linguaggi «reali» e «virtuali».

Queste forme di socialità, nel contesto delle macro-dinamiche in gioco e descritte in precedenza, potrebbero anche avere effetti su una nuova potenziale composizione di classe. Per citare solo alcuni dei fattori salienti: aumento della disoccupazione di massa; paura del contagio nei posti di lavoro e comportamenti spontanei di rifiuto del lavoro; maggiore visibilità e riconoscimento sociale dei lavoratori dei servizi con salario basso, razzializzati e genderizzati; isolamento sociale; il confondersi delle linee di divisione tra produzione e riproduzione per coloro che lavorano da casa e si barcamenano tra un aumentato carico domestico, spazi abitativi angusti, e i tempi e le costrizioni del lavoro salariato.

In questo contesto, vari processi di lotta e di radicalizzazione politica si stanno dispiegando. Ma non ci sono ricette facili da offrire su come sfruttare queste potenzialità aperte dalla nuova congiuntura. Le stesse misure di lockdown pongono nuove sfide ai processi di organizzazione e richiedono la capacità di reinventare modi per organizzarsi, protestare ed essere efficaci: come possiamo rendere visibile la protesta sociale in un momento in cui le modalità tradizionali per farlo – manifestazioni di massa, i raduni, etc. – sono fuori discussione? Come possiamo collegare la nuova ondata di scioperi legali e spontanei ad altre forme di resistenza e conflitto, come gli scioperi dagli affitti e l’organizzazione di aiuti reciproci e forme alternative di riproduzione sociale? Come queste lotte sociali possono politicizzarsi sempre più, alzando il livello della sfida attuale, che vuol dire fronteggiare il potere dello Stato e delle istituzioni transnazionali?

Indagare i nuovi processi di potenziale soggettivazione e lotta sarebbe il primo passo per provare a rispondere alle questioni scottanti ed evitare la riproposizione meccanica di vecchi modelli di organizzazione e strategie politiche che non prendono in considerazione le discontinuità e le variabili storiche. L’indagine qui deve essere intesa non solamente come un’analisi sociologica, ma come un processo di conoscenza di sé, auto-organizzazione, politicizzazione, e creazione comune di una nuova comprensione condivisa di chi siamo, di perché e come stiamo lottando.

Questo è un compito urgente per affrontare entrambi i fronti delle lotte menzionate precedentemente, ovvero l’immediata gestione della pandemia e la trasformazione sul lungo periodo delle relazioni sociali della produzione. Come hanno sostenuto Rob Walles e altri, la realizzazione dei modelli di propagazione del virus e le previsioni relative alla durata delle misure di contenimento, come il report dell’Imperial College – che è diventato il punto di riferimento per gli Stati Uniti e il Regno Unito – si basano sull’implicito assunto che la struttura neoliberale non può essere messa in dubbio. Essi scrivono: «i modelli come quello dello studio dell’Imperial limitano esplicitamente la portata dell’analisi a domande costruite in modo semplicistico, inserite all’interno dell’ordine sociale dominante. Per come sono costruite, non riescono a tenere conto delle più ampie forze del mercato che guidano gli scoppi dell’epidemia e le decisioni politiche che sono alla base degli interventi. Consapevolmente o no, le proiezioni che ne risultano mettono al secondo posto la difesa della sanità per tutti, tra i quali molte centinaia di persone più vulnerabili che morirebbero se un paese dovesse oscillare tra il controllo della malattia e l’economia». Però, è precisamente questa la cornice da superare, con due obiettivi: limitare il più possibile il numero di vite che verranno prese dal virus, e opporsi alla strategia del «keynesismo con una data di scadenza», combattendo invece per la fine dell’austerità neoliberale e per trasformare completamente il rapporto capitalistico tra produzione e riproduzione sociale, che subordina le vite delle persone all’accumulazione dei profitti.

Uno dei post virali che circolavano sui social media italiani durante le lunghe settimane del lockdown diceva: «Andrà tutto bene». Anche se questo è un augurio comprensibile, non è niente di più. Inoltre, questo augurio presenta lo status quo precedente la pandemia come la normalità alla quale dovremmo aspirare a fare ritorno. Siamo onesti: non c’è nessuna certezza che andrà tutto bene, e il modo in cui vivevamo prima della pandemia non era né bello, né per nulla «normale», dato che la crisi attuale è una conseguenza del capitalismo come forma dell’organizzazione sociale e della vita.

Eppure, potremmo finire per stare bene. Ma questo dipenderà da noi, dalla nostra capacità di evitare il ritorno al business as usual. Se questa sfida suona spaventosa, e lo è, potremmo ricordarci che non siamo completamente inermi. Come ha detto in modo assolutamente chiaro Chris Smalls: «Il mio messaggio per Mr Bezos è semplice. Non me ne frega niente del tuo potere. Pensi di essere potente? Siamo noi quelli che hanno il potere. Senza noi che lavoriamo, cosa farai? Non avrai più soldi. Noi abbiamo il potere. Noi facciamo i soldi per te. Non dimenticarlo mai».

 

 

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