sabato , 27 Aprile 2024

Il super martedì, la guerra e le crisi di egemonia

di FELICE MOMETTI

Jeff Kowalsky/AFP via Getty Images

A un primo sguardo si può dire che anche il super martedì delle primarie americane ha confermato, in entrambi gli schieramenti, ciò che già si sapeva. I due candidati alla presidenza, Biden e Trump, non hanno avversari in grado di impensierirli nella corsa alla nomination. Senza avversari se non la debolezza di entrambi nei confronti del proprio elettorato, rispetto a quattro anni fa, il «federatore» Biden e il «populista» Trump non riescono a interpretare né tantomeno a governare le tensioni che attraversano la società americana. La formula che alcuni analisti usano per descrivere la posizione degli Usa nello scenario globale, un egemone in crisi di egemonia, sembra che riguardi anche i due contendenti nei rispettivi campi politici. Biden, presidente dimezzato dai sondaggi sulla sua popolarità, dall’età e da performance imbarazzanti, racchiude in sé la contraddizione di un’amministrazione che, con una compattezza interna non usuale, ha supportato e in parte governato la transizione in atto del capitalismo contemporaneo americano senza raccoglierne i frutti politici. Le infrastrutture di governance, consolidatesi nei quattro anni di presidenza nell’economia, nella finanza e più in generale nelle catene globali del valore, non hanno generato un chiaro consenso sociale nonostante abbiano tenuto – seppur con difficoltà – i livelli di reddito nello strato maggioritario della popolazione. La Bidenomics, l’economia politica di Biden, si è attestata sul finanziamento dei processi di valorizzazione dei settori più avanzati e dinamici del capitale prefigurando una sorta di trickle down, di sgocciolamento, verso i settori più tradizionali. Non è andata così.

Il quadro è ancora più scosso dalla guerra in Ucraina, dal massacro in atto a Gaza e dalle continue tensioni nell’Indo-Pacifico. Il vecchio adagio della politica americana che le elezioni si vincono sui temi di politica interna non è più così vero, se mai lo è stato. Le evidenti crepe emerse nelle primarie democratiche della settimana scorsa in Michigan e quelle in Minnesota di questo super martedì stanno a dimostrare che la protesta contro il sostegno al governo israeliano non riguarda solo le comunità arabo-americane dei sobborghi di Detroit o di un quartiere di New York. Ci sono strati significativi che attraversano bianchi, afroamericani e latini, di una generazione giovane che sono diventati i protagonisti, in questi mesi, delle migliaia di mobilitazioni per l’immediato cessate il fuoco a Gaza e il blocco totale dei finanziamenti e dell’invio di armi al governo israeliano. Come del resto sono stati e sono i soggetti più attivi delle lotte sui posti di lavoro e nelle università. È un processo di politicizzazione in atto, pur discontinuo, con contraddizioni, ma difficile da normalizzare. A questo contribuiscono le linee di frattura presenti nella società americana, che in parte si esprimono con una polarizzazione politica, che hanno continuato ad agire in profondità, a riguardare l’intero sistema politico-istituzionale investendo la stessa architettura federale dello Stato, anche dando nuova linfa a un razzismo istituzionale forse meno evidente ma più pervasivo. Oggi, con Biden, il governatore repubblicano del Texas militarizza il confine con il Messico estendendo la caccia ai migranti sulla base di un’interpretazione orientata di un articolo della Costituzione. Come ieri, durante la presidenza Trump, i governatori democratici dello stato di New York, del Massachusetts e del Connecticut diedero vita a un coordinamento politico, economico e istituzionale dei tre Stati contro il governo federale.

Alle conclamate difficoltà di Biden, Trump rappresenta una vera alternativa? Stando alla larga delle poco interessanti discussioni sulle evidenti differenze tra i due per i 91 capi di imputazione in quattro processi del Donald arancione, e sul suo ruolo nell’assedio di Capitol Hill di tre anni fa – che non spostano di centimetro il presente stato delle cose –, la risposta alla domanda è no. Al netto del fatto che per Trump diventare il prossimo presidente è anche una questione che può riguardare la sua libertà di circolare e fare affari, non è portatore di un progetto politico all’altezza delle fratture della società americana. Al di là delle spacconate sulla Nato, sulla fine della guerra in Ucraina, sui muri di 4 mila km con il Messico, la maggiore pericolosità di Trump risiede nell’idea che i rapporti di forza sociali e finanche quelli tra Stati siano una questione di affari e di furbizie di un giocatore di risiko. Andando al nocciolo dei problemi la sua campagna in queste primarie repubblicane è fatta di vaghe promesse di riduzione delle tasse, aumento degli stipendi e un salvifico reshoring per far ridiventare gli Usa la prima potenza manifatturiera. Accanto c’è la narrazione edulcorata e quindi infondata di quattro anni di presidenza che in realtà hanno visto il più alto turn–over (85%) dei Segretari (i ministri) dei Dipartimenti esecutivi del governo. Detto con un paradosso: Trump è più il prodotto amplificato del trumpismo che non il contrario. È vero che in questa campagna per le primarie sono riapparse figure inquietanti che hanno in mente un progetto politico autoritario, come Steve Bannon, ma anche Nikki Haley che ha eroso il consenso a Trump in nome di una rifondazione del partito Repubblicano. In questa situazione gli otto mesi che separano dal voto di novembre possono essere molto lunghi e densi, senza escludere delle sorprese. Non solo per gli scenari di guerra, ma anche per l’acuirsi delle contraddizioni che si manifestano in larghe parti della società americana che non trovano rappresentanza nei due partiti e nei due candidati alla presidenza.

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