venerdì , 29 Marzo 2024

Dagli Appennini alle vanghe. In margine a una proposta per risolvere l’annoso problema dei migranti

Dagli appennini alle vangheUna rosa di dieci «scriventi», alcuni dei quali guidano oggi la speranza di una grande coalizione sociale, si è fatta promotrice sulle pagine del «Manifesto» del 29 settembre 2015 di una proposta che ambisce a risolvere in un colpo solo un insieme di problemi epocali: l’immigrazione, lo spopolamento di vaste aree geografiche, l’invecchiamento della popolazione. La proposta consiste nel fare del primo problema la soluzione degli altri due, con costi sostanzialmente irrisori e un lieto fine assicurato. Vale quindi la pena vederla nel dettaglio.

La descrizione dei problemi è chiara: ci sono uomini, donne e bambini che arrivano sulle «nostre terre» e che quando va bene possono aspettarsi solo solidarietà e temporaneo soccorso, quando va male la politica della paura e dell’odio. Ci sono le aree interne e l’osso dell’appennino, soprattutto al Sud, che sono abitate da poco più del 30% della popolazione, con esiti piuttosto gravi visto che lo spopolamento disincentiva la costruzione di argini contro disastri naturali. Ci sono, infine, le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, che pare si facciano sentire soprattutto nell’incuria delle terre fertili, nell’inselvatichimento dei boschi, nel declino del patrimonio edilizio, delle infrastrutture e dei servizi.

La soluzione è semplice: in questi luoghi ormai quasi disabitati, in queste terre lasciate a se stesse, sulle rigogliose e selvagge pareti appenniniche, portiamoci i migranti! No, non come argini contro frane, smottamenti e inondazioni (certi pensieri, suvvia, lasciamoli a Salvini!), ma come «popolazione, energie, voglia di vivere, lavoro umano» che possa valorizzare la biodiversità, creare reddito con nuove forme di allevamento, rimettere in sesto il patrimonio abitativo e, perché no, creare borghi in cui «anche i nostri giovani» possano sfuggire alla frenesia della vita moderna prima di darsi all’alcol. Certo che deve girare roba buona tra gli «scriventi» per pensare che l’agricoltura sia questo mondo fiabesco, in cui si torna in contatto con la vera essenza delle cose. Oppure, più probabilmente, gli «scriventi» non hanno mai sollevato una vanga in vita loro. Quanto ai «nostri giovani» è forse meglio che tutti quei Neet vadano a zappare, piuttosto che domandarsi perché mai ci siano tutti questi precari a zonzo per le città.

Altrettanto semplici sono i mezzi per perseguire questo fine. Primo, cancellare la Bossi-Fini. Finalmente un punto politico centrale! Finalmente qualcuno ascolta i migranti, che lo ripetono da anni, che da anni subiscono il ricatto del permesso di soggiorno e sono stati, loro malgrado, il laboratorio della precarietà! I dieci probi viri della sinistra, però, usano argomenti diversi. Dicono infatti che i giovani senegalesi o eritrei non devono fare gli schiavi nella raccolta di arance e pomodori, ma lavorare «in agricoltura, nell’edilizia, nella selvicoltura, nei servizi connessi a tali settori e nel piccolo artigianato». Ecco che, nell’epoca in cui i movimenti di centinaia di migliaia di uomini e donne hanno messo in scacco ogni speranza di governare le migrazioni con «quote» e «flussi», questa avveniristica proposta li rimette in ballo, con una straordinaria selezione della domanda di lavoro legittima per i migranti che però, attenzione, non è condotta in nome del profitto, ma di un romantico ideale bucolico! Secondo, ma non meno importante: mettere insieme un movimento di sindaci che facciano una mappatura dei terreni e del patrimonio edilizio e abitativo disponibile, coinvolgendo poi nella progettazione sindacati, Coldiretti, associazioni e volontari locali e perché no, le Cooperative, che anche loro potrebbero tornare al loro glorioso passato solidaristico (e poi, perché non dare voce a chi, in questi anni, è stato in prima fila nello sfruttamento del lavoro migrante…). Mentre in Spagna si discute di una rete di comuni solidali, mentre a Berlino si propone di mettere a disposizione dei migranti le case di lusso disabitate, qui si valorizzano le esperienze di quei comuni che hanno messo i migranti a lavorare «volontariamente» per servizi di pubblica utilità. Non c’è di che stupirsi, in un’epoca in cui «servizi di pubblica utilità» come Expo fanno profitti sul lavoro gratuito di migliaia di «volontari». E infatti già altre Regioni – come l’Emilia Romagna – hanno fiutato l’affare, suscitando la reazione sdegnata di Lega Coop che teme che il lavoro gratuito sia sostituito a quello delle coop sociali e di perdere così i suoi profitti. Il terzo strumento, infine, sono i favolosi fondi strutturali europei 2016-2020. Certo, mentre nel mezzo della tempesta scatenata dai migranti l’Europa è impegnata a pianificare un sistema di «solidarietà» basato in larga misura sulla domanda di lavoro dei singoli Stati, gestito in piena compatibilità con le misure d’austerity e di generale precarizzazione di tutto il lavoro, perché aspettarsi dai dieci probi viri, tra cui il segretario del più grande sindacato di categoria italiano (forse rapito dalle performance casearie dei migranti già oggi impiegati nell’industria del Parmigiano Reggiano) qualcosa di diverso? Perché aspettarsi che si riconosca la sfida lanciata da questa immensa mobilità, perché domandarsi come cominciare a organizzare oggi queste immense masse proletarizzate che trasformeranno – e hanno già in grande misura trasformato – l’organizzazione del lavoro su scala europea? La soluzione è ben più semplice. Contro le politiche dell’odio e della paura, i migranti li mettiamo in quei luoghi ormai disabitati dove nessuno li può vedere.

Parlando solo dei migranti in arrivo, gli «scriventi» sembrano dimenticarsi di quelli già presenti in Italia, e con ciò si tolgono di dosso il fastidio delle lotte salariali nella logistica, di quelle dei braccianti in Puglia e della memoria lunga dello sciopero politico contro la legge Bossi-Fini (che, in effetti, uno dei dieci «scriventi» aveva prontamente definito «sciopero etnico»). Dopo tutto, qui non si parla di migranti che lottano ma di migranti che, come il buon selvaggio, apprezzeranno senz’altro che sia concesso loro di godere del profumo dello sterco, della dura fatica ripagata dalla natura, dell’affetto delle bestie… evidentemente, però, gli «scriventi» ignorano anche che i migranti in arrivo sono stati protagonisti delle primavere arabe, del movimento di Piazza Tahrir, della lotta siriana contro il regime di Assad, che stanno mettendo in scacco ogni tentativo delle istituzioni europee di governare la mobilità e i confini, che stanno praticamente costringendo i singoli Stati ad aprire varchi in ogni nuovo muro costruito. Dopo tutto, parliamo del sogno di una sinistra che vuole «gettare le fondamenta di un consenso ideale, ampio e duraturo» e che, per farlo, non attinge al bagaglio delle lotte di cui lavoratori e lavoratrici migranti sono stati protagonisti, attraverso e contro i confini, ma coltiva un ideale bucolico del tutto indifferente al travolgente movimento dei tempi. In effetti, sarebbe una buona idea che qualcuno si ritirasse in campagna. Però non dovrebbero essere i migranti.

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