Le pagine di Facebook si stanno popolando di fotografie sempre più truci e angoscianti. Il problema è che ciò avviene solo in cerchie più o meno ampie, ma comunque limitate, di amici. La guerra in Palestina non buca gli schermi televisivi e non arriva sulle prime pagine dei giornali. A essere raccontato è solo il pericolo che essa potrebbe rappresentare in prospettiva: la preoccupazione geopolitica è il modo per non occuparsi di quanto sta concretamente accadendo. Il problema diventa cioè come potrà influenzare la nostra vita l’ennesima guerra israelo-palestinese. Una volta posto così, i morti diventano un problema relativo che è meglio non esibire.
A noi invece non interessano le trame geopolitiche. Non ci interessa mettere al primo posto come gli equilibri tra gli Stati si scompongono e si ricompongono sulla pelle dei palestinesi, degli ucraini o dei siriani. Ci interessa come quegli uomini e quelle donne siano la dimostrazione vivente della barbarie sempre più evidente di quegli equilibri. Quindi per noi Gaza non è solo una questione umanitaria e nemmeno solo di solidarietà. Non è solo che cos’è Gaza per noi e cosa possiamo essere noi per Gaza. Il problema vero è che Gaza è ormai in noi. Essa esprime la necessità quotidiana di non permettere che la politica degli Stati si chiuda nella più sovrana indifferenza verso gli uomini e le donne che travolge. Gaza mostra un pericolo che ci tocca direttamente, perché non riguarda più un’eccezione regionale, ma il salvacondotto concesso a uno Stato per condurre la sua politica privata. Questa guerra è iniziata nominalmente per vendicare la morte di tre ragazzi israeliani. Non ci interessa seguire le teorie del complotto formulate via internet. Ci sembra che si possa ragionevolmente sostenere, che in realtà questa guerra sia la risposta cinica e violenta all’accordo tra OLP e Hamas per un governo unitario in Palestina. Le migliaia di palestinesi che hanno visto quell’accordo come una speranza sono ora gettati nella disperazione dell’impotenza. Non potendo più funzionare il ricatto del fondamentalismo, si è passati ad altri mezzi, più spicci e meno televisivi. Di fronte a un accordo possibile, di fronte alla crisi della sua sovranità, Israele afferma di essere uno Stato. Non è la prima volta. E non è neppure solo questo. Negli anni la politica degli interventi israeliani in Palestina è diventata uno dei modelli dei possibili interventi contro i cittadini del proprio Stato e di altri Stati. La politica internazionale tollera e legittima i comportamenti dello Stato di Israele, perché in fondo li riconosce come i comportamenti che ogni Stato può adottare nel momento in cui viene messa in discussione la sua sovranità. Gaza è sotto attacco, ma ci mostra l’ombra del pericolo.
Combattere la disperazione dei palestinesi significa per noi riconoscere che loro non sono un’eccezione regionale e storica, così come non lo sono le misure repressive dello Stato d’Israele che, mentre funziona da modello, replica un modello. Riconoscere la condizione delle donne e degli uomini di Gaza ci deve far riconoscere quanto prossime alle loro possono essere le nostre condizioni. Quindi non solo solidarietà a Gaza, non solo pietà per Gaza, ma riconoscere che Gaza è in noi anche se non vogliamo o non sappiamo ammetterlo. Cosa faremmo noi, se fossimo Gaza?