mercoledì , 11 Dicembre 2024

I Forconi e qualcosa di più?

Blocchi, saracinesche abbassate e scontri di piazza. È stato questo il 9 dicembre dei Forconi? Si era detto che si trattava di fascisti e in molti hanno continuato a ripeterlo mentre Piazza Castello a Torino si popolava (ma neanche così tanto come i media hanno fatto credere) di bandiere italiane e saluti romani. Altri hanno preferito una lettura diversa dei fatti, affascinati dall’insorgenza spontanea o apparentemente tale, dalla presenza del (sotto)proletariato di periferia, dalle pietre che volavano libere verso il Palazzo della Regione. Metti insieme l’evocazione dei «provocatori fascisti», da un lato, e l’esplosione spontanea della rabbia, dall’altro, ci aggiungi l’ambientazione tra gli eleganti palazzi del centro di Torino ed ecco che scatta l’automatismo di movimento: ci siamo, dunque, anche la nostra generazione ha la sua piazza Statuto che non ha saputo prevedere. E che soprattutto non ha saputo ascoltare, alla ricerca di una classe esplosiva che non c’è perché sarebbe rintanata nelle periferie, dove si nutre di un odio di casta che alla lunga non potrà che rivelarsi produttivo. Ma siamo sicuri che il 9 dicembre in piazza Castello ci fosse la «razza pagana» del Terzo Millennio? La brama di meticciato può produrre spettri e sviste.

La composizione della giornata di ieri era più complessa di quella che si è vista a Torino, ma proprio la sua toponomastica può darcene un indizio. A separare «quella piazza» Statuto dall’«attuale piazza» Castello c’è via Garibaldi, la via del centro adibita allo shopping cheap, e non troppo distante c’è Porta Palazzo, storica sede del mercato torinese. In effetti, sembra che il grosso delle proteste sia stato portato avanti da commercianti, spesso piccoli, talvolta ambulanti, stanchi di pagare le tasse e desiderosi di sottrarsi alla morsa fiscale dell’Europa. Bisogna proprio essere di sinistra per pensare che esista una connessione necessaria tra Stato fiscale e Stato sociale. I due Stati invece possono seguire percorsi paralleli che non si incrociano mai. Sarebbe però bene tenere a mente che, come non tutti sono uguali davanti a Equitalia, nemmeno tutte le contestazioni a Equitalia sono uguali. La critica commerciante allo Stato fiscale esprime soprattutto l’immediata esigenza di non condividere con nessuno i propri profitti, che certo si sono ridotti ma sussistono come profitti estorti al lavoro vivo.

D’altronde, l’inno di Mameli e gli slogan nazionalistici intonati ripetutamente non sono solo un canto di corteggiamento verso le forze dell’ordine, che ieri come non mai sembravano in vena di effusioni. Sono l’espressione di un’idea di sovranità territoriale e monetaria che appartiene a un popolo indistinto, che proprio per questo le distinzioni le sa fare quando si tratta di migranti. Qualche resoconto ha parlato di una presenza di migranti, approfittando anche della confusione con il presidio dei rifugiati per ottenere la residenza dal comune, che prosegue da settimane. La piazza però è sembrata un po’ troppo «biancuccia», per dirla con un compagno senegalese. Nulla di cui stupirsi, così come non ci stupiamo che la difesa dell’italianità si traduca in slogan contro migranti, che nella fantasia malata di costoro sarebbero i «privilegiati» della spesa sociale. E poi, in fondo, cosa dovremmo farcene noi di un popolo indistinto di cui sarebbero portavoce i commercianti, i camionisti e i padroncini? Basta l’incipiente (ma quanto incipiente?) proletarizzazione a fargli «saltare il fosso», a produrre dinamiche ricompositive di cui si avverte un’ansia che spesso produce delle inquietanti sconnessioni con il reale? Non c’è dubbio che esista una componente proletaria che condivide con questi personaggi uno stesso odio verso la casta. E certo neanche noi non pensiamo che Forza Nuova o altre organizzazioni fasciste dispongano di un potenziale di mobilitazione così alto tra queste fasce sociali. E bastano i Drughi, componente storica e di estrema destra della tifoseria juventina, a spiegare la presenza di proletari in piazza? Forse no e certo per questo quella presenza ci obbliga a delle domande. Domande su una certa fascinazione verso un cognitariato di facciata, in realtà taylorizzato e parcellizzato come tutti gli altri settori lavorativi. Domande sulla seduzione per un sociale indistinto, di cui a volta si azzarda l’accostamento allo sciopero, per provare da un lato a uscire dalla dimensione del lavoro troppo complessa da aggredire e, dall’altro, per provare a saltare le contraddizioni del sindacato senza affrontarle di petto. Ancora una volta l’ambivalenza ingoia la contraddizione, risolve il problema in partenza, libera dalla necessità di distinguere, vieta di fare domande, perché, si sa, solo quei pantofolai degli intellettuali in poltrona si fanno domande quando la lotta infuria. Domande, magari, su cosa abbiamo da offrire a quei soggetti in cui qualcuno ha visto una scintilla rivoluzionaria: se cioè reddito e casa possano costituire percorsi di soggettivazione reale, oppure siano la via più breve per concludere i cicli di lotta in salotto. Domande, infine, su come sostituire la narrazione della casta con quella della classe, perché in fondo quella presenza ci inchioda ai nostri limiti nel pensare la classe come qualcosa di dato e non da costruire quotidianamente. Domande, niente di più.

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