venerdì , 19 Aprile 2024

Sciopero, sollevazione e rivolta in Ecuador. Contro il saccheggio neoliberale

di ALEJANDRA SANTILLANA ORTIZ e ALESSANDRA SPANO

Pubblichiamo un’intervista ad Alejandra Santillana Ortiz ‒ attivista in Ruda Colectiva Feminista, nella Coalición Interuniversitaria contra el Acoso Sexual e nella Marea Verde in Ecuador ‒ sulla recente sollevazione popolare in Ecuador, scoppiata in seguito all’annuncio, da parte del governo Moreno, di un piano di aggiustamento strutturale in seguito agli accordi presi con il Fondo Monetario Internazionale. Il piano – noto come paquetazo ‒ prevede misure fiscali e riforme del lavoro di stampo ferocemente neoliberale: il decreto 883, con effetto immediato, che sancisce un taglio dei sussidi statali per il carburante e dunque in un aumento dei prezzi complessivo di tutti i beni, giustificato in nome della necessità di tutelare l’ambiente e gli interessi d’impresa; ma anche tagli salariali importanti per i dipendenti pubblici e l’abolizione delle tasse sull’importazione di tecnologia (come telefoni cellulari e computer) e automobili. Il 3 ottobre, a due giorni dalla presentazione del paquetazo, uno sciopero di tassisti e autotrasportatori ha paralizzato la capitale. In seguito, lo sciopero è dilagato, nonostante i sindacati di categoria abbiano fatto un passo indietro dopo aver raggiunto un accordo con il governo sull’aumento dei prezzi dei carburanti. Le donne protagoniste dello sciopero dell’8 marzo, gli studenti e le studentesse, i movimenti indigeni hanno radicalizzato la protesta estendendola all’intera società. Dopo aver dichiarato lo stato di eccezione e il coprifuoco, il governo Moreno ha autorizzato la repressione violenta e orchestrato la sua copertura da parte dei media nazionali. Ciò non ha impedito che la rivolta continuasse, fino all’occupazione dell’Assemblea nazionale e alla grande manifestazione guidata dagli indigeni del 9 ottobre. Dopo 12 giorni, Moreno è stato costretto a ritirare il decreto 833, mentre restano ancora in piedi gli accordi con il FMI. La partita è quindi tutta da giocare, a partire dalla mobilitazione chiamata dal Fronte Unitario dei Lavoratori per il 30 ottobre allo scopo di sostenere il precario tavolo di trattativa aperto tra il governo e il CONAIE (la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador). Nello scenario continentale di insurrezione contro il neoliberalismo e la violenza politica che lo sostiene ‒ che si estende al Cile e ad Haiti ‒ la sollevazione ecuadoriana si inserisce dunque in un movimento complessivo che sta mettendo radicalmente in questione l’ineluttabilità delle politiche neoliberali a partire dalla complessa articolazione politica di una moltitudine di soggetti che non sono più disposti ad accettare sfruttamento e oppressione.

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Poco più di due settimane fa in Ecuador è scoppiata la rivolta contro gli accordi stipulati dal governo con il Fondo Monetario Internazionale e le conseguenti misure di stampo ferocemente neoliberale attuate dal presidente Moreno. La rivolta è cominciata con uno sciopero di tassisti e autotrasportatori ed è montata nonostante i sindacati di categoria abbiano fatto rientrare l’agitazione. Di fatto, lo sciopero è dilagato proprio perché ha rotto i confini di categoria e ha investito l’intera società, coinvolgendo una moltitudine di soggetti e in particolare le donne e i movimenti indigeni. In che modo i provvedimenti governativi avrebbero impattato sulla compagine sociale? Come si è trasformata la rabbia in azione diretta? Che ruolo hanno svolto i sindacati dentro questa mobilitazione?

Le misure adottate dal governo di Moreno il primo ottobre fanno parte di un progetto politico che articola la difesa sia degli interessi di classe dell’élite ecuadoriana nel suo complesso, a scapito dei settori popolari, sia degli interessi delle élite globali attraverso il Fondo Monetario Internazionale e l’agenda imperialista securitaria degli Stati Uniti nella regione. È importante ricordare che, dopo una prima ‘apertura democratica’ del governo Moreno, il regime ha firmato un accordo con il FMI per 4200 milioni di dollari e così ha aperto le porte a un maggiore indebitamento con le organizzazioni internazionali. Allo stesso tempo, ha condonato all’imprenditoria ecuadoriana la bellezza di 4295 milioni di dollari, importo che corrisponde al debito fiscale con lo Stato. Il discorso neoliberale ha il compito di presentarci il deficit fiscale come unico problema dell’economia, quando, nel caso dell’Ecuador, i principali problemi sorti dopo l’adozione del dollaro come valuta nazionale, avvenuta nel 2000, riguardano la bilancia commerciale e la bilancia dei pagamenti. In altre parole, importiamo più di quanto esportiamo e c’è un deflusso di moneta nel paese molto superiore all’afflusso. Questa situazione di squilibrio dimostra quanto sia costoso produrre in Ecuador, sia per l’assenza di politiche globali di riattivazione della produzione (le campagne e la produzione agricola sono esempi di abbandono dello Stato), sia per la rigidità di un’economia dollarizzata. Il Decreto 883 emanato da Moreno il primo ottobre ha dichiarato il deficit fiscale come responsabilità del governo precedente e ha indicato le misure necessarie per sanare lo squilibrio dell’economia ecuadoriana. In primo luogo, l’eliminazione dei sussidi statali sull’acquisto di benzina e gasolio, utilizzati principalmente dai settori popolari e da parte della classe media del paese, dal trasporto pubblico e dalla piccola e media produzione. La liberalizzazione avrebbe prodotto nel lungo periodo un aumento dei prezzi del carburante e un aumento dell’inflazione tra il 10 e il 15%. Il decreto prevedeva poi la riduzione dei diritti e tutele degli impiegati pubblici: circa 600 mila lavoratori del settore pubblico avrebbero dovuto rinunciare a un giorno al mese del proprio stipendio e vedere le proprie ferie ridotte da 30 a 15 giorni all’anno. A questo si sarebbe aggiunta la riduzione del 20% del salario in tutti i contratti occasionali rinnovati. Infine, l’eliminazione dei dazi sull’importazione di automobili e telefoni cellulari e la riduzione delle tasse sulle esportazioni. L’aumento generalizzato dei prezzi è destinato a influire non solo sul consumo e sulla sopravvivenza di gran parte della popolazione, ma anche sui costi della produzione. Se è già estremamente costoso produrre in Ecuador e quindi difficile competere nell’economia regionale, le misure del governo non farebbero che peggiorare la situazione, eliminando il principale elemento di competitività della dollarizzazione. D’altra parte, i provvedimenti che riguardano i lavoratori del settore pubblico annunciano in parte la riforma del lavoro in preparazione da parte dell’esecutivo e allo stesso tempo definiscono le condizioni di lavoro nel settore privato. Il saccheggio della classe operaia è al centro di queste misure. L’obiettivo non è solo quello di sottrarre una parte del salario alle ecuadoriane e agli ecuadoriani, ma anche fare in modo che il plusvalore estratto dal loro lavoro sia destinato al pagamento del debito estero. Infine, i benefici sulle importazioni e sui deflussi di moneta riflettono l’accordo del governo con i settori della borghesia legati alle importazioni. Gli interessi delle élite vengono imposti a tutto il popolo ecuadoriano come ciò che deve essere tutelato per uscire dalla crisi. Le assurdità dell’attuale governo sono talmente gravi che, invece di generare un piano integrale per la produzione nazionale, si promuovono le importazioni e si incoraggia il massiccio deflusso di moneta. In effetti, a vantaggio delle élite, il governo poteva scegliere tra l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto, l’IVA, o l’applicazione del decreto 883. Per evitare che la piccola borghesia si unisse alle proteste dopo lo sciopero il governo ha scelto di non aumentare l’IVA, il che è solo un’ulteriore dimostrazione del carattere di classe di questa lotta nel paese. Dopo l’annuncio del pacchetto neoliberale, il Fronte Unitario dei Lavoratori (FUT), la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) e il Collettivo Nazionale Unitario dei Lavoratori, Indigeni, Organizzazioni Sociali e Popolari, hanno convocato lo sciopero per chiedere l’abrogazione del Decreto 883. A questa chiamata rispondono presto il resto delle organizzazioni, collettivi e movimenti si piegano prima della chiamata allo sciopero. Lo sciopero è stato sostenuto nei primi giorni soprattutto dalle federazioni di studenti universitari e delle scuole secondarie, dai collettivi e dagli abitanti di Quito che sono scesi in strada. Allo sciopero si sono uniti tutti i sindacati che fanno parte del FUT, provocando perdite relative per il capitale, ma certamente dando vita a un’iniziativa simbolicamente rilevante.

Nello sciopero emerge il carattere politico di questo forza di massa: le richieste avanzate non ammettono mediazioni, si rifiuta la contrattazione con le istituzioni, chiedendo il ritiro senza condizioni del cosiddetto paquetazo. Che ruolo ha avuto lo sciopero nell’innescare processi di organizzazione e quali pratiche di lotta sono state sperimentate da quando è iniziato?

Con il passare dei giorni, la dimensione di massa delle proteste e la diffusione della lotta nelle strade di diverse città del paese hanno radicalizzato le posizioni dei loro leader che non solo hanno proposto una mobilitazione a tempo indeterminato, ma hanno anche chiamato allo sciopero e alla rivolta per il 9 ottobre. Forse è importante spiegare a lettrici e lettori di altri paesi il significato di ogni forma adottata dalla protesta popolare ecuadoriana nel suo complesso. Si propone lo sciopero in quanto espressione della coscienza della classe operaia, che attraverso l’interruzione del lavoro punta a danneggiare l’impresa colpendo i profitti, ma anche come possibilità di espandere la lotta includendo settori della popolazione che paralizzano le proprie attività e prendono possesso dello spazio pubblico. Lo sciopero si unisce alla rivolta, alla sollevazione, che costituisce la forma di lotta adottata dal movimento indigeno e che esprime la convergenza di popoli e nazionalità diverse che bloccano le strade, escono dalle loro comunità e arrivano alla presa simbolica della città di Quito. Il governo di Moreno ha risposto con una brutale repressione e poche ore dopo aver iniziato lo sciopero del 3 ottobre, ha dichiarato lo stato di eccezione in tutto il territorio nazionale, il che ha permesso alle forze armate e alla polizia di essere gli unici «garanti» dell’ordine e della sicurezza in Ecuador, limitando e sospendendo il diritto di associazione. È stato inoltre imposto il coprifuoco temporaneo tra le otto di sera e le cinque del mattino nelle aree adiacenti ai palazzi di Stato a Quito e in tutti gli spazi indicati da forze armate e polizia. Il pacchetto neoliberale e la politica di repressione e coercizione dello Stato ecuadoriano hanno gettato benzina sul fuoco della protesta. Ricordiamo che in Ecuador la memoria della lotta anti-neoliberale è l’espressione di un popolo insubordinato e ribelle che, dopo 12 anni di Revolución Ciudadana [progetto politico di coalizione fra diverse forze di sinistra in Ecuador, di cui massimo interprete è stato Rafael Correa] e di apparente consenso, è sceso in piazza nonostante la repressione statale. Di fronte allo stato di eccezione si è risposto con una mobilitazione generalizzata, la chiusura delle autostrade, l’occupazione dell’Assemblea Legislativa, il conflitto con i militari e la polizia; contro le azioni razziste, classiste e repressive delle élite e dello Stato, sono state create presso le università zone di rifugio umanitario e centri di raccolta sostenuti da ampie reti di solidarietà. I media alternativi si sono attivati per denunciare e diffondere informazioni contro il circo mediatico delle grandi società di comunicazione. Le donne hanno manifestato contro la violenza e il tradimento del governo. Contro il coprifuoco e la militarizzazione di Quito, è stato lanciato l’appello per un cacerolazo che ha riempito tutta la città di suoni metallici, barricate e slogan contro il governo e per la cessazione della violenza. Di fronte al tentativo di rompere l’articolazione tra le diverse organizzazioni che portano avanti la protesta, i loro leader hanno dichiarato che non avrebbero fatto alcun accordo con il governo se il paquetazo non fosse prima stato abrogato. Alle accuse di infiltrazioni da parte dei sostenitori di Correa – l’oppositore di Moreno – e progetti golpisti, risponde la manifesta dignità del popolo ecuadoriano, che non ha smesso nemmeno per un momento di sorprendere il mondo per il suo impegno e la sua solidarietà.

Moreno ha tentato di attribuire la responsabilità della mobilitazione proprio al suo avversario Correa. Ma la risposta dei manifestanti non ha tardato a farsi attendere, negando qualsiasi legame con l’ex presidente. È possibile affermare che la rivolta ha sottolineato piuttosto la continuità delle due esperienze di governo?

Enver Aguirre, leader della Gioventù Rivoluzionaria dell’Ecuador, ha detto pochi giorni fa «questa è la più importante espressione di resistenza degli ultimi 12 anni per il grado di mobilitazione, solidarietà e per la centralità che attribuisce agli interessi popolari nella formulazione di proposte per affrontare la crisi». Nonostante gli sforzi e i tentativi delle élite e dell’apparato statale di ridurre il conflitto a un’opposizione tra correismo/anticorreismo, vediamo chiaramente la capacità della campagna popolare che durante l’intera Revolución Ciudadana ha insistito per scendere in piazza e rivelare il carattere autoritario e capitalista del governo di Correa; contro le misure neoliberali che colpiscono i settori popolari e di classe media, ha mostrato lo sciopero come espressione della lotta di classe. Quello che il paese ha vissuto è stato un momento di insurrezione popolare e l’abrogazione del decreto 883 è stato una vittoria centrale per le organizzazioni e i movimenti del Paese.

La dichiarazione quasi immediata dello stato di eccezione, insieme al coprifuoco, ha consentito la sospensione anche sul piano formale dello stato di diritto. La violenza di Stato ha raggiunto livelli di incredibile ferocia e, dopo l’occupazione dell’Assemblea Nacional e dei pozzi petroliferi, il Ministro della Difesa, Oswaldo Jarrín, ha annunciato un ulteriore ‘uso radicale della forza’, anche con l’utilizzo di armi letali. Abbiamo assistito a scene di guerra, con esplosivi lanciati sui manifestanti disarmati. La Corte Costituzionale, dopo la richiesta di invalidare lo stato di eccezione anche a seguito delle gravi violazioni dei diritti umani, si è pronunciata affermandone il carattere perfettamente compatibile con la costituzione. A partire dal ruolo giocato dal FMI e dagli Stati Uniti di Trump, e considerando sul piano globale il susseguirsi delle reazioni brutali dello Stato di fronte a chi lo contesta radicalmente, in che modo questo sciopero e la sua repressione ci indicano una trasformazione su un piano transnazionale?

La repressione di questi giorni rende visibile il mandato imposto dal FMI e la reazione violenta delle classi dominanti pur di mantenere i propri interessi; e nelle parole di Miriam Cisneros, presidente del popolo Sarayacu, parte della CONAIE, si rivela a sua volta il carattere coloniale e di classe dello Stato: «Noi siamo lo Stato, ma non veniamo consultati. Quando dicono che noi, popolazioni indigene e campesine, siamo i poveri, [la verità è che] noi ariamo, coltiviamo, diamo da mangiare alla città, e tuttavia loro ci trattano come poveri». Il bilancio dei primi 12 giorni di repressione statale è stato di 8 morti, 1340 feriti e 1192 arresti, di cui il 76% completamente arbitrari e illegali, che hanno coinvolto donne e uomini di età compresa tra i 15 e i 24 anni. Oltre alla richiesta di verità, giustizia e riparazione, c’è la richiesta di garanzie per esercitare il nostro diritto di protestare e le dimissioni della Ministra dell’Interno María Paula Romo e del Ministro della Difesa Oswaldo Jarrín. Al contempo abbiamo la dignità del popolo ecuadoriano, la stessa dignità che Miriam ha dimostrato quando, al tavolo di dialogo, ha detto al Presidente Moreno, guardandolo negli occhi: «i caduti e i morti ammazzati restano sulla tua coscienza». E ci rimane l’urgenza di persistere nell’organizzazione, nella presenza della classe operaia nelle strade per fermare la riforma del lavoro, nella costruzione di un programma di alternative popolari, plurinazionali, ecologiche e femministe per il paese. Ora che la lotta di classe mostra che lo stato di cose presente non ha niente di inevitabile e rende evidente il progetto di classe delle élite nazionali e globali, c’è urgente bisogno di una visione strategica e politica per combattere non solo le politiche neoliberali e capitalistiche, ma anche la dimensione ideologica, razzista e misogina della classe dominante nel suo complesso. Questo è solo l’inizio ed è al contempo continuità e memoria di ciò che è accaduto nei tempi bui. Ma questi giorni di protesta rivelano anche il progetto securitario e poliziesco dell’attuale governo. Un progetto che si basa sulla riforma istituzionale e giuridica dello Stato orchestrata da Correa (il Codice penale organico integrale ne è un esempio), l’equipaggiamento, la professionalizzazione e specializzazione delle forze armate e della polizia, il carattere ordinario delle violazioni dei diritti umani nell’ultimo decennio, la pratica di giuridicizzazione e criminalizzazione della protesta come politica sistematica del correismo. A tutto questo si aggiungono gli accordi diretti tra il governo degli Stati Uniti e le istituzioni dello Stato ecuadoriano (Procura e Forze armate). Questo sciopero ci mostra una destra politica e delle élite unite, che lasciano poco spazio a spaccature e alle dispute interne, e rendono lo scenario della lotta delle organizzazioni uno spazio diverso dallo stadio neoliberale degli anni precedenti.

Lo sciopero sociale e politico, la sollevazione popolare ha imposto l’abrogazione del decreto 883. Tuttavia, gli accordi con il FMI restano in essere. Come valuti questo esito? Quale scenario potrebbe schiudersi a partire da questo?

L’abrogazione del decreto 883 è una vittoria della campagna popolare ecuadoriana che mostra alcuni elementi: l’importanza dell’organizzazione e della mobilitazione, la riaffermazione che le strade sono uno spazio storico e necessario per le organizzazioni popolari, di sinistra e indigene; l’urgenza di costruire uno spazio di articolazione plurale delle organizzazioni e dei movimenti sociali. È una vittoria, anche se relativa e parziale. Perché relativa e parziale? Perché lo scenario che stabilisce è quello della giuridicizzazione e criminalizzazione della protesta sociale, della repressione e di una narrazione delle élite anti-movimento che legittima l’accordo con il FMI come possibile via d’uscita dalla crisi. È parziale perché, nonostante l’abrogazione del decreto 883, viene istituito un tavolo di dialogo tra il governo e il CONAIE per poter stabilire un nuovo decreto. Allo stesso tempo, il Fronte unito dei lavoratori dovrebbe avere anche un tavolo con il governo, ma questo tavolo non è stato avviato. Da un lato, il FUT chiama alla mobilitazione il 30 ottobre e dall’altro il governo dichiara che non dialogherà se la mobilitazione non verrà revocata. Pertanto, se da un lato dobbiamo esercitare pressioni nel dialogo delle organizzazioni con il governo, dall’altro non dobbiamo lasciare le strade perché non c’è ancora una politica economica in grado di risolvere i problemi dei settori popolari. L’accordo con l’FMI è ancora in vigore: dobbiamo continuare a lottare per l’eliminazione dei debiti e per porre fine all’accordo.

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