mercoledì , 24 Aprile 2024

Hong Kong in movimento, ovvero un’insurrezione via Telegram. Un’intervista sull’attuale rivolta

di DEVI SACCHETTO

English

Pubblichiamo l’intervista di Devi Sacchetto a Michael Ma, attivista di una delle più importanti organizzazioni di studenti e docenti di Hong Kong che si batte contro le pratiche di sfruttamento dei lavoratori messe in campo dalle multinazionali. Il racconto di Michael parla di una mobilitazione probabilmente meno radicale – dal punto di vista delle sue rivendicazioni ‒ di quella del 2014, ma che tuttavia sta producendo una politicizzazione di massa e diffusa, e che sta mettendo a frutto dal punto di vista organizzativo quanto appreso dalla repressione che si è abbattuta sul movimento cinque anni fa. La frase della star cinese del kung-fu Bruce Lee ‒ «sii come l’acqua. Senza forma» ‒ si presta perfettamente a descrivere una strategia di mobilitazione fluida e capace di adattarsi alle contingenze, e che allo stesso tempo esprime una diffidenza diffusa verso le strutture esistenti e la loro capacità di rispondere alle istanze di movimento. Questa strategia ha portato, il 1° luglio, a un’occupazione del Parlamento che è riuscita a bloccare, almeno temporaneamente, l’iter di approvazione della proposta di legge sull’estradizione. Nonostante la specifica composizione sociale di questa insurrezione con la sua complessa richiesta di democrazia, la battaglia contro la legge sull’estradizione e contro il governo cinese evidenzia le persistenti tensioni a cui è sottoposto il riassestamento del mondo postcoloniale, la difficoltà di stabilire ambiti sovrani e separati per garantire senza frizioni i diritti dell’accumulazione e del comando statale.  

***

Le proteste a Hong Kong sono state prolungate e di massa. Qual è la posta in gioco della legge sull’estradizione e, di conseguenza, qual è il significato dell’opposizione così massiccia a questa legge?

Il Fugitive Offenders and Mutual Legal Assistance in Criminal Matters Legislation (Amendment) Bill 2019 è un emendamento che consente al governo di Hong Kong l’estradizione dei latitanti in regioni che non hanno accordi con Hong Kong, tra cui la Cina continentale, Macao e Taiwan, ecc. L’emendamento ha scatenato settimane di proteste, compresi due cortei che hanno coinvolto più di un milione di persone ciascuno, ovvero oltre 1/7 della popolazione di Hong Kong. A mio parere, sono due le questioni che hanno innescato un movimento di tale portata: la sfiducia nel sistema giudiziario cinese e quella nei confronti del governo di Hong Kong. Nella Cina continentale l’indipendenza del sistema giudiziario vacilla. Nonostante il tasso di corretta imputazione penale in tribunale sia superiore al 99%, vengono spesso segnalate confessioni forzate e gli arrestati vengono privati del diritto di incontrare gli avvocati, soprattutto quando si tratta di attivisti. Inoltre, la Residential Surveillance at a Designated Location (RSDL), che permette al governo cinese di detenere gli arrestati in luoghi sconosciuti senza alcun contatto con avvocati o familiari, è nota per essere uno strumento di sparizione forzata utilizzato contro gli attivisti. In particolare, le misure RSDL sono misure investigative, e questo significa che le persone arrestate in regime di RSDL non sono nemmeno mai andate in tribunale. La sfiducia è rivolta anche contro il governo di Hong Kong. Poiché il capo dell’esecutivo non è eletto con suffragio universale, molti ritengono che il governo di Hong Kong non risponda al suo popolo ma al governo centrale cinese, che determina chi deve ottenerne la carica. Pertanto, sebbene il governo di Hong Kong abbia ripetutamente rassicurato sul rispetto dei diritti degli estradati, non è riuscito a ottenere la fiducia della maggioranza dei manifestanti. Infatti, nel caso del Causeway Bay Booksellers Disappearance, il governo di Hong Kong non ha letteralmente fatto nulla per proteggere i quattro librai che nel 2015 sono stati estradati in via extragiudiziale nella Cina continentale.

Ci puoi dire qualcosa della composizione del movimento?

Da quello che ho visto, la maggior parte dei manifestanti, specialmente di quelli che hanno partecipato all’occupazione e agli accerchiamenti, sono cittadini sotto i 25 anni. Questo gruppo è composto per lo più da studenti che hanno una bilanciata composizione di genere. Tra quelli che hanno più di 25 anni, direi che molti sono più vicini alla classe media locale istruita. Questo gruppo è anche il principale bacino di voti dei «partiti pan-democratici» ‒ i partiti antigovernativi ‒ nelle elezioni del Consiglio Legislativo di Hong Kong. Non a caso, molti dei discorsi e delle pubblicazioni dei manifestanti suggeriscono che quelli che sostengono l’emendamento sono meno istruiti, di vedute ristrette e non «veri hongkonghesi». Da questo si potrebbe cogliere qualche indizio sul modo in cui si posizionano molti dei manifestanti.

Qual è il ruolo delle ONG, dei media, delle università nelle proteste?

Si tratta un movimento fortemente decentrato. Singole ONG hanno operato su piccola scala lanciando piccole azioni e fornendo supporto con piccole assemblee, monitorando gli abusi della polizia, sostenendo emotivamente gli attivisti, permettendo il deposito dei materiali, offrendo spazi di riposo, ecc. Hanno partecipato anche alcuni gruppi di professionisti, come i giornalisti e i medici, che hanno denunciato e diffuso le violazioni del governo o della polizia. Per esempio, un gruppo di medici ha tenuto una conferenza stampa in cui ha rivelato gli accessi anomali da parte della polizia ai dati sensibili dei pazienti, volti a identificare quelli feriti durante le manifestazioni e quindi coinvolti nel movimento. Queste informazioni, provenienti da diversi settori, hanno avuto un ruolo importante per monitorare il comportamento del governo. Per quanto riguarda i media, nonostante diano regolarmente notizia del movimento, le loro telecamere sono state anche un modo efficace per far sì che la polizia esitasse ad usare violenza eccessiva durante gli scontri. Tuttavia, ci sono stati anche scontri tra attivisti e giornalisti in prima linea. A causa degli arresti di massa che si sono verificati nel 2014 e nel 2016, molti attivisti indossano consapevolmente delle maschere per evitare di essere riconosciuti, soprattutto quando sono in prima linea negli scontri. Sono quindi molto preoccupati dalle telecamere, che potrebbero essere una fonte di filmati utilizzabili dal governo per identificarli. Sulle università, direi che sono ancora molto conservatrici. Soltanto l’e-mail interna dell’HKUSPACE (un community college) ha dichiarato: «Comprendiamo che, quando un governo delude il suo popolo, le persone pensino di avere il diritto di ricorrere a metodi più decisi per assicurare che le loro voci siano ascoltate». Nonostante ciò, nessuna università ha esplicitamente supportato il movimento o espresso la sua disapprovazione nei confronti dell’azione del governo.

E il ruolo della classe operaia di Hong Kong?

Per essere onesti, mi sembra che la solidarietà della classe operaia non abbia molto potere in questo movimento. Ancora una volta, e purtroppo, la maggior parte del movimento è composta dagli studenti e dalla classe media istruita. Il linguaggio della mobilitazione, inoltre, non si rivolge alla classe operaia. L’immaginario del movimento è ancora molto limitato all’idea della «società civile contro il regime cinese». Ci sono stati sindacati che hanno sollecitato scioperi dei lavoratori per opporsi alla legge, ma il numero di partecipanti è stato molto limitato. Non è una sorpresa, dato che, per la verità, l’organizzazione della classe operaia di Hong Kong non è mai stata forte.

I lavoratori migranti partecipano a questo movimento? Qual è la loro posizione? C’è la paura di essere deportati?

So che alcuni migranti cinesi si sono organizzati e partecipano al movimento. Tuttavia, non si è notata particolarmente la partecipazione di uomini e donne migranti impiegati nei lavori domestici, delle minoranze etniche impiegate nella gig economy o di altri gruppi di migranti. Direi che si tratta di un movimento locale, di Hong Kong. Il 99,9% del linguaggio utilizzato nelle mobilitazioni è rivolto ai soli hongkonghesi, senza preoccuparsi dei migranti.

Le proteste si stanno radicando, cioè stanno portando persone a riunirsi in qualche gruppo politico?

Il movimento è molto decentrato. La gente, in generale, non ha fiducia nei gruppi politici tradizionali ed è convinta che questi gruppi non abbiano conseguito alcun risultato negli ultimi 30 anni. Molti credono che si preoccupino più dei loro seggi nel Consiglio che del movimento stesso, per cui, sebbene molti gruppi politici partecipino al movimento, non hanno affatto un ruolo guida.

Che rivendicazioni porta in piazza questo grande movimento?

Ci sono state 4 richieste molto chiare da parte della folla: 1. il ritiro completo dell’emendamento sull’estradizione; 2. investigazioni sugli abusi della polizia; 3. il riconoscimento completo delle rivendicazioni della manifestazione del 12 giugno; 4. la liberazione dei manifestanti arrestati e caduta di ogni accusa contro di loro.

Ci sono richieste relative alle condizioni abitative a Hong Kong? E alle condizioni lavorative?

Non sono emerse nella protesta, ma molti ritengono che il problema degli alloggi sia una ragione di vecchia data della collera dei giovani a Hong Kong. Per quel che riguarda le condizioni di lavoro, ripeto che purtroppo non mi sembra siano al centro di questo movimento.

Quali sono le tecniche di protesta? E come ci si difende dall’attacco della polizia? Da un punto di vista organizzativo le manifestazioni del 2014 vi hanno insegnato strategie diverse?

Rispetto al 2014, il movimento è davvero decentrato. Questo ha permesso agli attivisti di agire in modo molto più flessibile e dal basso. Nonostante i due giganteschi cortei che sono stati chiamati da una piattaforma politica tradizionale, la maggior parte delle altre occupazioni, degli accerchiamenti e delle azioni è stata convocata dai manifestanti attraverso il forum online «LIHKG» o attraverso decine di gruppi Telegram, in assenza di leader significativi. Le persone hanno discusso online di idee e strategie con persone che non avevano mai incontrato, riunendosi ai punti di ritrovo concordati per l’azione. Inoltre, le azioni possono essere annullate in qualsiasi istante se troppo rischiose perché poco partecipate. I gruppi Telegram forniscono anche mappe in tempo reale con aggiornamenti sul numero e sugli spostamenti dei manifestanti e della polizia nei momenti di scontro, raccogliendo le informazioni riportate dai manifestanti. Questa pratica si è dimostrata di estrema importanza per il processo decisionale degli attivisti durante i disordini. È stata utilizzata molto spesso una frase di Bruce Lee, star del kung fu di Hong Kong: «sii come l’acqua, amico mio. Senza forma». Penso che colga con precisione lo spirito del movimento.

Quali sono le differenze con il movimento del 2014 dal punto di vista politico e organizzativo? Quali sono la continuità/discontinuità (composizione, pratiche nelle strade, organizzazione…)?

Direi che nel 2014, quando i manifestanti chiedevano il suffragio universale, l’obiettivo del movimento era più offensivo. La gente puntava a un miglioramento del sistema politico. Nel 2019, invece, è più difensivo. Si manifesta chiedendo al governo di non peggiorare la situazione dell’attuale sistema giuridico. La richiesta di un cambiamento radicale del sistema politico finora non è stata avanzata, anche se non bisogna dimenticare che il movimento è ancora in corso. È chiaro però che il 2014 ha permesso di accumulare capacità di mobilitazione e di lavoro. Direi che questa è una chiave del successo del modello di attivismo decentrato. Si sono viste persone senza un’esperienza politica significativa operare in ruoli diversi e in modo molto consapevole. Le persone si sono coordinate autonomamente e hanno lavorato molto bene, dalle retrovie alla prima linea. Per esempio, gruppi di persone che non si erano mai conosciute prima hanno gestito in maniera ottimale la catalogazione, l’acquisto, lo stoccaggio, il trasporto e l’uso dei materiali e delle attrezzature. Lo stesso è successo anche con tanti altri lavori decentrati, come piccole azioni, discussioni off-line, promozione delle manifestazioni. Non si tratta soltanto di attivisti di vecchia data, abituati a lavorare sul campo, ma di persone molto diverse. Il fatto che sia diffuso il senso di necessità di un movimento e di fiducia tra gli attivisti è sicuramente il risultato del processo di accumulazione di forze avviato nel 2014.

Questo movimento è più politicizzato di quello del 2014?

Si e no. Non lo è nella misura in cui, come ho detto, manca la rivendicazione significativa di un radicale cambiamento politico – e non c’è bisogno di menzionare l’assenza di rivendicazioni per quanto riguarda la politica di classe. Ma lo è se si considera la coscienza dei manifestanti rispetto alla natura della polizia come macchina statale e alla mancanza di indipendenza del governo di Hong Kong. Anche quando le persone devono impegnarsi in un’intensa discussione strategica ‒ visto il modello decentrato, in cui non ci sono leader ‒ hanno molte più opportunità di rivedere criticamente le strategie del movimento, le relazioni tra attivisti e altri cittadini, ecc. Credo che sarà un momento cruciale per accumulare forze anche per il movimento futuro.

Che cosa significa la richiesta di democrazia?

È una domanda molto complicata. All’interno del movimento ci sono opinioni differenti. Alcuni la intendono come un sistema politico migliore capace di rappresentare gli interessi locali di Hong Kong, altri come un passo per avvicinarsi al «sistema occidentale civilizzato», altri ancora credono che la democrazia sia la principale differenza da rimarcare tra Hong Kong e la Cina. Io e molti miei amici crediamo che la richiesta di democrazia vada ben oltre il sistema elettorale. Significa un’uguaglianza, concettuale e pratica, tra persone con capacità, risorse e nazionalità diverse. Si tratta anche della consapevolezza che le persone sono direttamente responsabili del proprio benessere, e non le multinazionali o i governi. Ci tengo a sottolineare ancora una volta che tutto ciò non può essere realizzato da un sistema elettorale, soprattutto da un sistema elettorale che produce esclusioni a seconda dell’identità riportata sul passaporto.

Cosa c’è dietro alla domanda di autonomia dalla Cina?

Questa è un’altra domanda molto complicata. Per me e i miei amici significa la costruzione di uno spazio relativamente libero e sicuro per gli attivisti internazionali che si occupano delle questioni della classe operaia cinese. È anche uno spazio per sostenere e supportare gli attivisti, sindacali e non, in Cina, e per produrre un discorso contro le politiche del governo cinese, che si avviano verso il capitalismo.

Cosa significa il fatto che in molti rivendichino che è un movimento senza leader? Ci sono molti leader o non ce ne sono affatto? È una strategia per evitare la repressione?

La interpreto come una situazione in cui nessuno nel movimento ne controlla la direzione secondo la propria volontà. Ci possono essere «leader» che giocano un ruolo di primo piano in diverse azioni casuali, ma è chiaro che la loro legittimità dipende da quanto la loro guida è vicina al pensiero della folla. Poiché la maggior parte dei manifestanti non è legata ad alcuna organizzazione politica, non ha l’obbligo di seguire specifici leader. Se le piccole azioni non si adattano a come le persone immaginano il movimento, esse perdono immediatamente il consenso dei manifestanti e viceversa. Credo che questo sia dovuto da un lato alla diffidenza nutrita verso i leader politici tradizionali, e dall’altra sia un modo per gli attivisti più partecipi di proteggersi, così da non essere facilmente identificabili e quindi vittime di repressione.

Come sono viste nella Cina continentale queste proteste? C’è un sostegno diretto o indiretto?

Prima di tutto, la maggior parte delle informazioni sul movimento sono censurate dal Great Firewall, quindi gran parte della popolazione della Cina continentale non ne è a conoscenza. Gli attivisti, specialmente quelli che hanno notato il precedente sostegno da parte di Hong Kong, sono molto solidali. Molti di loro hanno chiesto di «salvare l’ultimo pezzo di Cina con qualche libertà». Anche se non possono fare molto per sostenere la lotta, questo dimostra una solidarietà transnazionale che è estremamente significativa se si considera che molte delle retoriche del movimento alludono a un isolamento totale tra la Cina continentale e Hong Kong.

Print Friendly, PDF & Email

leggi anche...

Da Torino al Tennessee: i dolori dell’auto elettrica tra dismissioni e transizioni

di MATTEO ROSSI Venerdì 12 aprile in piazza a Torino a protestare contro la crisi …