venerdì , 19 Aprile 2024

Argentina 2015: far durare la democrazia

di SEBASTIÁN TORRES

Argentina 2015Spanish

Guardando da questa nostra periferia occidentale, il motivo di interesse delle elezioni argentine di domenica prossima è vedere quale definizione pratica può ancora trovare il nome democrazia in quanto spazio di sovrapposizione e di conflitto tra movimenti e istituzioni, tra neoliberalismo globale e politica dei governati. Il contributo che presentiamo ne discute il significato all’interno del più ampio quadro che si è affermato negli ultimi decenni in America latina. Al di là del giudizio sul kirchnerismo e sulle sue prospettive, emerge una dimensione della crisi della sovranità che attraverso i riferimenti al populismo, alla democrazia, alle politiche sociali ha mostrato la possibilità di opporsi alla violenza delle imposizioni neoliberali. La situazione degli ultimi anni non ha visto in realtà la netta contrapposizione di populismo e neoliberalismo, quanto piuttosto una sorta di battaglia molecolare combattuta giorno per giorno, nella quale il governo del popolo non è stato sempre solo l’argine del neoliberismo. Ciò che rimane interessante in questo contesto non è tanto la specifica sistemazione, che è ben lungi da rappresentare un quadro ideale, quanto gli elementi dinamici di questa radicalizzazione della democrazia che rimette in gioco ogni facile e netta distinzione di ruolo tra movimenti e istituzioni. È facile peraltro constatare che le democrazie populiste non sono solamente assediate dal neoliberalismo globale, ma devono dimostrare di sapersi muovere all’interno delle feconde contraddizioni che hanno contribuito ad aprire. Come già avvenuto in Brasile con il lulismo la scadenza elettorale mette in gioco sia la  riproduzione del sistema politico sia una possibilità non garantita di tenere aperto lo spazio di una politica dei governati.  

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Ogni processo politico guidato dalla virtù di grandi leader fa esperienza della sua temporalità quando essi perdono il potere dello Stato, momentaneamente o definitivamente.  È chiaro che vi è una differenza tra la tragica morte di Hugo Chávez e di Néstor Kirchner e le successioni regolate del rinnovamento democratico attraverso il voto. Tuttavia, nella distanza infinita esistente tra la vita e la morte si svolge la trama della contingenza stessa della politica. Gli pseudo-repubblicani anti-populisti vedono la fragilità dell’ordine politico che si appoggia sui leader «carismatici» e le oppongono la stabilità delle istituzioni, salvo poi valersi della fragilità stessa di ogni istituzione politica per le loro strategie di destabilizzazione che colpiscono le stesse istituzioni democratiche. Il golpe istituzionale che rovesciò Fernando Lugo in Paraguay, oggi esposto a una corruzione dilagante, e i tentativi permanenti di golpe istituzionale e mediatico che devono affrontare Dilma Rousseff in Brasile e Cristina Fernández de Kirchner in Argentina (e tanto più potremmo dire di quelli in Bolivia ed Ecuador) sono il segno più eclatante dei limiti del discorso anti-populista, che sogna la realizzazione di un progetto politico a misura della finitezza di ogni vita singolare, ma poi mira a distruggere le istituzioni democratiche, a partire dalle quali tale progetto si proietta nel futuro, affrontando – come è naturale – il dramma della durata.

Le elezioni presidenziali in Argentina, che concludono il secondo mandato non più rinnovabile di Cristina Kirchner con un indice di popolarità maggiore di qualsiasi altro presidente del paese, costituiscono lo scenario nel quale ogni genere di operazione di destabilizzazione manifesta l’impazienza di quei settori politici ed economici, nazionali e internazionali, che vedono sgretolarsi le teorie dei cicli vitali populisti (cicli la cui scientificità è sempre stata dettata dalle interruzioni prodotte dai colpi di Stato militari, avvallati dalle forze liberali). Con il ritorno della democrazia, i teorici liberali del costituzionalismo ascetico hanno fatto ricorso al discorso dell’alternanza dei partiti come indice della salute del regime democratico. La crisi del sistema dei partiti, accelerata dall’evidenza perfino grossolana della realtà della loro rappresentanza di poteri economici nazionali e transnazionali piuttosto che da una crisi della rappresentanza in quanto tale, getta tuttavia a mare la teoria dei cicli e fa luce su uno scenario di antagonismi. Oggi il sistema elettorale, storicamente criticato dalla sinistra come una forma di delega del potere, non mette in gioco solo la scelta di chi deve governare per un tempo determinato, né la presunta buona salute di un regime pluralista dell’alternanza, bensì il potere stesso della sovranità del popolo come forza istituente e legittimante ogni democrazia. Le elezioni oggi non riguardano gli accordi presi attorno a un tavolo dai gruppi economici, bensì la durata della frattura che il kirchnerismo ha introdotto nel discorso postmoderno della morte della politica. Per questo motivo i periodi elettorali si sono trasformati in momenti specifici per tentare – finora senza esito, però con una pericolosità sempre maggiore – diverse modalità di golpismo internazionale, che non si dirigono soltanto alla figura del «leader», bensì al sistema elettorale in quanto tale e, per estensione, a impugnare la stessa legittimità della volontà popolare. Questo è ciò che mostra lo scenario elettorale in Argentina e tendenzialmente la situazione in America Latina. Per riassumere, è diventato chiaro che il problema di fondo per l’anti-populismo è la democrazia, la quale permette che chiunque decida dei destini politici di un paese e di una regione: poveri, indios, ignoranti, gruppi sociali pieni di speranza, che non conoscono la verità che il secolo XXI ha decretato per la umanità. I limiti che incontra l’ideologia neoliberista negli Stati sorti a partire dalla presa di parola delle classi popolari hanno provocato – dopo un breve e superficiale flirt dell’opposizione con le garanzie di una certa continuità nelle politiche sociali – un ritorno della destra al secolo XIX: l’accusa di clientelismo politico alle politiche di ampliamento dei diritti e la vergognosa difesa di un ritorno al voto differenziato.

La situazione potrebbe essere diversa, al di là di un logorio fisiologico del progetto politico che governa da dodici anni. Tuttavia in questa situazione di prevedibili alti e bassi non è pensabile un’altra via. A una settimana dalle elezioni il candidato presidenziale del Frente para la Victoria, Daniel Scioli, mantiene un considerevole vantaggio nei confronti degli altri candidati (anche se ovviamente le anticipazioni dei sondaggi non permettono festeggiamenti affrettati). Certo è che, sommando le preferenze dei due fronti di opposizione, quasi il 60% degli argentini non appoggiano il FPV, il che esprime sia la verità della politica, per cui i molti non sono necessariamente una maggioranza quantificabile, sia la verità della democrazia, secondo la quale è la «minoranza più ampia» – come piace sostenere ai liberali – che deve caricarsi sulle spalle il peso delle lotte popolari e parlare a nome dei «tutti». Ciò avviene non solo grazie all’accumulo di un sapere popolare che i discorsi della Kirchner insistono a coltivare con esercizi continui di raziocinio e di memoria (potremmo dire: di realismo popolare gramsciano), ma anche perché, contro ogni manuale elettorale che suggerisce di adottare un profilo più conservatore, conciliante ed economicamente austero, durante tutto il 2015 il governo ha radicalizzato le sue politiche progressiste per rafforzare le condizioni strutturali del «progetto nazionale e popolare». Il profilo di Scioli (ex sportivo, entrato in politica negli anni ’90, quando le celebrità del paese partecipavano alla festa neoliberista, poi vice-presidente di Nestor Kirchner durante il periodo di transizione e infine governatore di successo della provincia di Buenos Aires, che ha il più alto numero di elettori di tutto il paese) è quello più conservatore, più austero nel rivolgersi al popolo, il profilo di un buon amministratore; tuttavia non è stato questo il profilo dominante della campagna elettorale, nonostante quello che immaginavano gli analisti politici, secondo i quali tale profilo sarebbe stato la chiave per rompere il muro anti-kirchnerista costruito dai mezzi di comunicazione e conquistare così il voto che scommetteva sulla stabilità, indipendentemente dalle fedeltà ideologiche consolidate. Scioli non era il candidato del «kirchnerismo», però era senza dubbio il candidato più forte del FPV, e dunque la campagna ha avuto una duplice impronta, complessa e realista al tempo stesso.

Come in ogni momento politico, lo scenario mostra un duplice aspetto, analogo a quello del centauro machiavelliano, che non può risolversi in una sintesi, bensì va gestito con una prudenza in grado di produrre incontri non scontati. Il primo aspetto, che pretende di garantire il trionfo fin dal primo turno del FPV (il candidato a vice-presidente Carlos Zannini, quadro politico di prima linea del kirchnerismo, ha garantito il livello di entusiasmo necessario per la gioventù militante e i settori più progressisti) è il momento del leone, della forza democratica, della mobilitazione popolare, del tutto o nulla che lascerà sul campo vincitori e vinti. Il secondo aspetto è quello del lucido realismo della volpe, della coscienza storica e dell’esperienza del tempo presente, della memoria e del futuro, nonché della grammatica politica consapevole della battaglia «culturale» che attraversa il linguaggio nazionale, latino-americano e internazionale (anche internazionale, come testimonia la lotta condotta dall’Argentina che portò alla approvazione da parte dell’Onu della proposta per regolamentare i debiti nei confronti dei «fondi avvoltoi» – gli holdouts –, contro la miriade sconfinata degli Stati che credono ancora di essere l’incarnazione storica dell’universalismo, a fronte delle alternative localiste di questo lontano cono sud del continente americano), delle passioni complesse che tengono insieme i drammi sociali e la felicità pubblica, intraducibile negli indici della prosperità economica. Questo secondo aspetto è quello più difficile da cogliere nel profilo di Scioli, quello che non appare nelle occasioni dei suoi discorsi e che dovrebbe accendere, polarizzare, toccare la fibra viva del corpo sociale, aprendo una breccia nel fronte omogeneo del disincanto per far avanzare, come riuscirono a fare sia Néstor che Cristina Kirchner, ogni forma sociale nella sua singolarità, assegnando però allo Stato l’intelligenza di diventare la punta di lancia delle conquiste sociali in rappresentanza del popolo.

La «nuova agenda» è quasi esclusivamente economica, con strategie differenti e tuttavia orientata alle stesse finalità che i coniugi Kirchner hanno individuato come possibilità nel contesto di un’economia-mondo: inversione dell’azione statale, sviluppo scientifico-tecnologico e dell’industria nazionale, consumo interno, esportazioni ad alto valore aggiunto per accumulare divisa straniera, ecc. Quello che viene offerto è dunque la continuità, la sicurezza nella stabilità, che non è poco a fronte dei movimenti sempre più bruschi e netti del capitalismo destituente. Quello che manca, di cui si sente la mancanza, è un immaginario di grande politica, di quell’evento che oggi ci permette di guardare al recente passato come a un momento storico irripetibile. Tuttavia non vi è nell’ambiente kircnherista nessun ripiegamento pessimista, ma al contrario agisce un’immaginazione che sorge da quella stessa indeterminatezza e contingenza della politica che ha reso possibile cambiare il corso degli eventi predeterminati all’inizio del nuovo millennio. Qualcosa come una forma di saudade, per prendere in prestito un termine dei fratelli brasiliani, nella quale entra in gioco una memoria attiva e collettiva, che dovrà imparare con lucidità – come ha saputo fare il kirchnerismo con la tradizione peronista – che un’eredità dura solo nella misura in cui è reinventata in permanenza, quando viene fatta propria dalle nuove generazioni.

E i pericoli che seguiranno il successo – sperato – sono quelli di sempre: da una parte, che i momenti di crisi e di alta conflittualità portino a credere che è possibile negoziare con la destra neoliberista (poiché occorre dirlo una volta per tutte: nulla permane di un liberalismo dei diritti nello scenario mondiale contemporaneo, una mancanza che si sente particolarmente nella politica argentina, al di là delle note critiche a questa tradizione); dall’altra, che il peronismo abbandoni il suo legame con la conflittualità sociale, per adottare la strategia hobbesiana della neutralizzazione, invece di trovare sostegno nel momento machiavelliano latinoamericano, la cui contingenza e fragilità ha costituito la condizione di possibilità per immaginare un’altra storia. In entrambi i casi, si tratta del rischio che la risposta al problema della durata sia quella di un realismo conservatore e non di un realismo dell’azione, il solo che ha mostrato come, per durare, occorra provocare l’esistente per ampliare i confini del possibile. Certo è che nulla è sicuro e che il 2016 si apre a una storia che dovrà essere ancora una volta rimessa in gioco. Per ora, non è privo di interesse il fatto che lo sguardo di tutti – dei kirchneristi come degli oppositori – continui a volgersi a Cristina e alla sua esperienza innovativa, in cui la titolarità dello Stato e la «titolarità della politica» non vanno a coincidere: un’esperienza tanto necessaria in quanto si tratta di un modo di riconoscere il carattere strutturalmente instabile di ogni sovranità, figura emergente di una verità il cui nome non è altro che la cifra nascosta del demos.

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