mercoledì , 11 Dicembre 2024

Lo scontro sulla mobilità nell’Europa transnazionale #2: fantasie logistiche, migrazione regolare e contestazione collettiva

di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM

Pubblichiamo la seconda parte di un intervento sulle trasformazioni e sulle lotte in atto che stanno facendo della forza lavoro mobile e migrante un terreno di lotta decisivo all’interno dell’Europa transnazionale. In questo testo ci concentriamo sul modo in cui la proliferazione dei protocolli volti a regolare la mobilità del lavoro, che mirano ad agevolare lo sfruttamento del lavoro migrante, si somma alle dinamiche dell’asilo nel frantumare l’immagine di una condizione migrante comune, nonché sulla necessità di organizzare lotte collettive all’interno dello scontro sulla mobilità.

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Nella prima parte di questo intervento abbiamo sostenuto che l’evidente rafforzamento dei confini esterni dell’UE non corrisponde a un ritorno della Fortezza Europa. Piuttosto, abbiamo messo in luce come la violenza dei confini leghi sempre di più la mobilità dei migranti alle esigenze di un mercato del lavoro altamente differenziato. In questo senso, il nuovo Patto europeo sull’immigrazione limita il diritto di asilo perché ad oggi è l’unico modo che i migranti extra-europei hanno per entrare legalmente in uno Stato dell’UE senza essere già «inchiodati» a un datore di lavoro o a un’agenzia di reclutamento. Come abbiamo già chiarito, questo non impedisce ai migranti di trovare nuove strade per sfidare i confini europei. Ma se, guardando alle discussioni sull’asilo, sembra che l’Europa ambisca a diventare un territorio off-limits per i migranti pagando alcuni Stati vicini per bloccarli prima ancora che possano raggiungere l’area Schengen, la mobilità del lavoro continua a connotare l’Europa transnazionale e fa degli stessi richiedenti asilo una nuova risorsa da sfruttare.

Si possono fare in questo senso gli esempi della Germania e dell’Italia, apparentemente lontani nella loro definizione organizzativa, ma che rivelano una logica analoga di sfruttamento nelle stesse disfunzionalità delle politiche dell’asilo, come ad esempio le lunghe attese a cui sono costretti i richiedenti asilo, dando vita a sperimentazioni di vario tipo, all’interno di condizioni destinate a durare a lungo. In Germania, l’arrivo di circa un milione di profughi dopo l’estate del 2015 ha portato a modificare le limitazioni per l’accesso dei rifugiati nel mercato del lavoro e ad adottare progetti di ‘integrazione’ di nuova forza lavoro richiesta dal sistema produttivo. Al tempo stesso, mentre spingeva per ‘chiudere’ la rotta balcanica, la Germania ha adottato un regolamento sui Balcani occidentali per reclutare lavoratori stagionali dai paesi dell’area. In Italia, i richiedenti asilo, spesso invischiati in attese di anni e costretti a vivere in centri sovraffollati o di fortuna, sono impiegati in lavori informali nelle campagne, o, in misura crescente, presso agenzie di lavoro temporaneo al servizio di imprese, perlopiù del comparto logistico, dietro la promessa non soltanto di un salario, per quanto basso, ma anche di titoli che possano dimostrare la loro ‘integrazione’ nella società. Nel frattempo, fuori dai confini Schengen, coloro che incappano nei programmi di esternalizzazione e cooperazione dell’Unione con Paesi terzi per il controllo dei confini non sono semplicemente ‘bloccati’ nel loro transito verso l’Europa, ma trovano posto all’interno di mercati del lavoro già attraversati da quote crescenti di lavoro migrante.                                                                                                        

Lo scontro sull’asilo va dunque letto all’interno del più ampio scontro sulla mobilità in atto, nel quale la Commissione Europea e gli Stati riconoscono la necessità di forza lavoro per alimentare le varie catene produttive. Mentre le istituzioni europee ambiscono a una centralizzazione capace di avanzare un sistema coerente per l’Europa transnazionale, questo processo avviene nei fatti grazie a un insieme di patti bilaterali, protocolli di reclutamento e di migrazione temporanea, spesso stipulati su base statale e non europea. Questi accordi rappresentano a pieno titolo l’esistenza di canali per la «migrazione regolare», ma rendono anche evidente come questa non vada intesa come maggiore libertà per i migranti. Al contrario, questi accordi hanno come caratteristica comune quella di vincolare uomini e donne migranti a specifici contratti di lavoro e a permessi dalla durata limitata e controllata in misura ampiamente maggiore rispetto ai generici permessi per lavoro, e di prevedere una maggiore cooperazione tra Stati per le espulsioni e le deportazioni, con il beneplacito dell’UE. I protocolli di reclutamento della mobilità nell’Europa transnazionale non compongono un corpus unico, bensì si può notare un’elevata circolazione di pratiche e know-how che coinvolge tanto gli Stati quanto l’Unione in una sorta di dialogo intergovernativo per lo sfruttamento del lavoro migrante. Anche se meno rumoroso e nell’immediato con meno impatto, si tratta nel complesso di un investimento strategico che si accompagna ai piani di riforma strutturale discussi a livello europeo: esso costituisce non solo il contrappunto di quella violenza esercitata contro chi viola i confini dell’Unione senza alcuna autorizzazione, ma anche una componente essenziale della ridefinizione di un mercato del lavoro europeo.

In questa situazione, paesi quali la Polonia, contraddistinti da una notevole emigrazione di forza lavoro verso i paesi europei più occidentali, diventano dei laboratori per avvicinare la gestione della mobilità ai gradi di efficienza presenti in alcuni paesi asiatici, dove il reclutamento transnazionale e una forza lavoro permanentemente mobile hanno proporzioni di massa. Fanno infatti parte di questo investimento strategico eventi come l’incontro di formazione promosso a Varsavia, appena prima dello scoppio della pandemia, dal servizio di supporto per le riforme strutturali della Commissione Europea, nel quale funzionari del Ministero della Famiglia, del Lavoro e degli Affari Sociali polacchi, insieme ai funzionari del Ministero degli investimenti e dello sviluppo economico, discutevano le buone pratiche in materia di patti bilaterali e di alcune politiche di governo della mobilità per lavoro. All’incontro partecipavano anche esperti dell’ILO, insieme a esponenti di Stati come le Filippine, Israele e Italia per discutere di «Strategie per l’immigrazione per lavoro in Polonia». Al di là della retorica nazionalistica sull’attrarre migranti polacchi di ritorno da altri paesi dell’Unione, la logica principale di queste «strategie» è quella di fare affidamento sull’instabilità politica ed economica dei paesi vicini, come l’Ucraina, per incrementare la migrazione temporanea in Polonia: già oggi questo paese occupa il primo posto tra i paesi dell’OECD per numero di permessi temporanei annuali concessi a lavoratori non UE, oltre un milione. Si tratta di un caso particolare che però fornisce un utile esempio delle tendenze in atto lontano dai riflettori sempre accesi, dal 2015 in avanti, su una permanente ‘crisi dei rifugiati’.

Guardando invece oltre ai confini dell’UE, ma dentro l’Europa transnazionale, vediamo all’opera una logica simile, articolata in base a rapporti specifici tra Stati, che però si intrecciano al rapporto tra i paesi ‘terzi’ coinvolti e l’UE. La limitazione di vie legali alla migrazione dalla Georgia ai paesi Schengen nell’ambito di un rafforzamento dei legami tra il paese e l’Unione Europea, ad esempio, lascia spazio ad accordi di lavoro temporaneo dedicati a specifici settori, come quelli sottoscritti con la Germania per il lavoro agricolo, che coinvolgono decine di migliaia di donne e uomini per contratti di pochi mesi. L’accordo risponde alle esigenze del settore agricolo tedesco alle prese con la scarsità di manodopera in seguito alle limitazioni alla mobilità prodotte dalla pandemia, ma è anche una finestra per molti georgiani per ottenere documenti, seppur temporanei, e salari almeno dieci volte più alti di quelli georgiani. Un accordo simile è stato sottoscritto con Israele per il lavoro di cura. Dall’altra parte dell’Europa, l’uscita del Regno Unito dall’UE ha rafforzato il confine marittimo con la Francia, ma ciò non ha impedito l’aumento degli arrivi irregolari che hanno raggiunto le diverse migliaia nei primi mesi di quest’anno. A questo il governo britannico pensa di fare fronte rilanciando la politica della detenzione ‘offshore’ di migranti e richiedenti asilo e proponendo – come già fatto dalla Danimarca – la costruzione di centri di detenzione in Africa, dove rispedire i migranti indesiderati e trattenere i richiedenti asilo in attesa di risposta. Nel frattempo, però, il governo Johnson è impegnato in un’intensa attività per attivare percorsi di immigrazione regolare e selezionata. Lo sganciamento dai vincoli europei è stato così utilizzato per introdurre un sistema a punti esplicitamente orientato ad attrarre forza lavoro utile, accelerando una tendenza promossa anche da diversi Stati europei e dalla stessa Commissione, esemplificata ad esempio dalla Carta Blu prevista per i lavoratori altamente qualificati. Nel frattempo, nel Regno Unito vengono elaborati nuovi accordi bilaterali per regolare i rapporti con i paesi di maggiore immigrazione: è di poche settimane fa la notizia di un accordo con l’India, paese dal quale proviene un quarto degli studenti internazionali presenti in UK, per favorire lo scambio nella formazione e il lavoro temporaneo e facilitare le espulsioni.

Queste tendenze mostrano come gli Stati, anche se non possono mai controllare interamente il mercato del lavoro, sono impegnati in operazioni di controllo dei differenziali salariali attraverso la gestione di forme diverse di mobilità in uscita e in entrata. A questo si aggiunge la ricerca di forme di welfare che possano sostenere, sempre momentaneamente, disoccupati disponibili a lavorare «a chiamata». Si tratta di una caratteristica che accomuna tanto i paesi membri, quanto quelli ai confini di questa Europa transnazionale nel combinare una maggiore rigidità dei confini con la produzione di forme di differenziazione e gerarchizzazione del lavoro migrante, cercando di perseguire l’obiettivo di una migrazione pienamente organizzata. Ribadendo un concetto ormai utilizzato da molti governi, la cancelliera Merkel ha recentemente sostenuto, a margine di un incontro con il presidente del consiglio italiano Draghi, che ha confermato il criminale patto con la Turchia, che «bisogna iniziare dai paesi di provenienza dell’immigrazione illegale che deve essere sostituita dall’immigrazione legale. Dobbiamo creare dei canali legali per dare a queste persone la possibilità di fare formazione, di imparare un mestiere». Mentre non sono certo in grado di controllare la mobilità nel suo complesso, i diversi interventi degli Stati e dell’Unione influenzano complessivamente le condizioni e il movimento del lavoro migrante nell’Europa transnazionale. La spinta crescente verso la digitalizzazione del confine, che crea una sorta di identità digitale parallela, aggiunge un ulteriore elemento di tracciabilità non solo della mobilità, ma dell’intera performance sociale dei migranti. L’identità digitale è infatti uno strumento che renderà più semplice inserire i migranti all’interno di politiche future ed eseguire la loro espulsione una volta che saranno considerati non più utili.

Bisogna tuttavia ribadire che non ci troviamo di fronte a una semplice organizzazione o governo dall’alto della mobilità e delle forme della sua differenziazione: come per le politiche dell’asilo, è infatti in atto uno scontro tra il lavoro migrante e il tentativo di incanalarlo dentro percorsi governabili e più facilmente leggibili dalla fantasia logistica del governo della mobilità. Il costante rifiuto da parte dei migranti stessi di sottostare alle strategie del capitale cercando di costruirsi propri percorsi di vita e di lavoro si scontra oggi con un tentativo di centralizzazione che vede impegnate attivamente le istituzioni europee come agenti di coordinamento e indirizzo. Ma se idealmente questo tentativo di centralizzare il progetto logistico di una migrazione temporanea, nei fatti caratterizzato dalle limitazioni alla libertà di movimento, continua ad essere perseguito, si scontrerà inevitabile con il movimento dei migranti, producendo una serie di conseguenze inattese. Si determina cioè l’apparente scollamento tra la visione tecnocratica di una migrazione pienamente controllata e la produzione di instabilità e irregolarità di massa, dentro, a ridosso e fuori dai confini europei. Questo processo, piuttosto che indicare semplicemente un limite delle politiche migratorie, definisce il contesto che riproduce le condizioni dello sfruttamento del lavoro migrante: una differenziazione e segmentazione del mercato del lavoro che si nutre delle differenze e dei passaggi di status prodotti dall’insieme di queste politiche temporalmente sconnesse, ma animate da una logica comune.

Per spiegarci: troviamo migranti al lavoro sebbene si trovino nel limbo delle richieste di asilo, migranti di lungo periodo che devono mantenere un contratto di lavoro per rinnovare i loro documenti, migranti temporanei legati a doppia mandata alle logiche del reclutamento transnazionale organizzato tramite agenzie, regolamenti, accordi bilaterali e il ruolo attivo di specifiche catene produttive e della cura, migranti provenienti da paesi extra-Schengen la cui esistenza è governata da permessi di soggiorno, domande di asilo, progetti di integrazione o stagionalità dei contratti. Insieme a questi ci sono migranti irregolari per le più svariate ragioni e costretti a lavorare in nero. Infine, troviamo un numero quasi equivalente di cosiddetti “migranti interni”: cittadine e cittadini europei che si muovono con qualche grado di maggiore libertà, sebbene non siano esenti dal razzismo istituzionale. Questi ultimi sono occupati spesso negli stessi settori e nelle medesime mansioni di chi giunge da paesi non dell’UE, sebbene sovente vengano collocati un gradino sopra i secondi. Tra di essi, i lavoratori in distacco – i posted workers – vivono la condizione specifica di essere di fatto migranti temporanei, soggetti a condizioni di lavoro che valgono solo per loro. Si tratta di lavoratori di un paese membro dell’UE che possono spostarsi per lavoro in un altro paese membro in virtù della libertà di movimento dei servizi che prestano, e non della loro.

Come già rilevato nel caso dei richiedenti asilo, anche qui la frammentazione che si produce segue linee che non sono solo di status, bensì costruiscono geografie differenziate nell’Europa transnazionale. I dati sulle principali nazionalità di lavoratori migranti nei diversi paesi europei mostrano in questo senso un’elevata differenziazione, basata sia su fattori storico-geografici, come il retaggio delle reti coloniali e imperiali, la prossimità, l’affinità linguistica che incidono sulla stesura di accordi bilaterali, sia sull’interazione tra questi fattori e una struttura produttiva e del mercato del lavoro mediata dal proliferare di status giuridici, gerarchie sessuali, barriere e manifestazioni più o meno visibili del confine. A questo si aggiunge il fatto che l’accorciamento di alcune catene del valore che si è prodotto durante la pandemia di fatto si adegua a un movimento di «armonizzazione» delle filiere produttive, già da tempo praticato dalle industrie tedesche in Ungheria come in Repubblica Ceca e negli Stati della periferia orientale d’Europa. Questo non corrisponde certo a una ri-localizzazione, bensì a una diversa organizzazione spaziale delle catene della produzione, in cui il governo della mobilità giocherà un ruolo ancora più centrale.

La proliferazione di protocolli di regolazione della mobilità del lavoro si somma dunque alle dinamiche dell’asilo nel frantumare l’immagine di una condizione migrante comune, rendendo più difficile mettere in comunicazione le diverse condizioni in cui si trova oggi il lavoro mobile.  Questa frantumazione, tuttavia, non intacca il legame ferreo tra la mobilità e l’autorizzazione dello Stato e del capitale attraverso le diverse tipologie di permesso di soggiorno. Anzi, attraverso la moltiplicazione delle forme per governare questa mobilità, questo legame si intensifica e la possibilità di una sua contestazione collettiva diventa sempre più complicata. Ad esso in ogni modo si oppongono i comportamenti e le lotte portati avanti dai migranti: dalla sfida diretta ai confini fisici dell’Unione, alle proteste nei centri d’accoglienza e nei campi di detenzione, agli scioperi nei magazzini della logistica, nelle campagne e nelle fabbriche dell’Est Europa, dei riders nelle metropoli europee, i lavoratori e le lavoratrici mobili pongono in tensione continua la loro riduzione a lavoro vivo. È questo un campo di tensione che definisce lo scontro tra lavoro migrante e capitale a livello globale e nell’Europa transnazionale. Che si tratti di uno scontro la cui posta in gioco è la stessa pretesa di libertà che si esprime nella mobilità lo si comprende dalla vastità e dalla circolazione delle risorse e conoscenze messe in campo per cercare soluzioni di un governo efficace. La condizione di ulteriore precarietà che emerge dallo scontro sull’asilo non è quindi che un tassello della logistica complessiva della mobilità del lavoro in Europa.

Alla luce di quanto detto, di fronte a una frammentazione che produce l’isolamento politico del e nel lavoro migrante e alle diverse pratiche di resistenza e scontro messe in atto dai migranti, risultano ugualmente limitate le prospettive che ripropongano una generica opposizione ai confini o uno sguardo umanitario sulla migrazione. Allo svuotamento politico dell’asilo nel nome della fantasia logistica di una mobilità puramente funzionale al mercato del lavoro corrisponde infatti la proliferazione di condizioni e fratture, che finiscono per rendere sempre più difficile una contestazione collettiva. Inoltre, gli accessi differenziati ai sistemi di welfare nazionale e livelli salariali e contributivi gerarchicamente strutturati mostrano come anche la tanto sbandierata libertà di movimento interna all’UE sia tale quando si tratta di libertà di circolazione dei servizi, ma si trasformi in un’esternalizzazione dei costi della riproduzione e nella libertà di sfruttamento da parte dei datori di lavoro quando si tratta di lavoratori e lavoratrici migranti. Come dimostra la polemica sui «turisti del welfare» questa tendenza, esemplificata dai lavoratori in distacco menzionati in precedenza, coinvolge in realtà l’insieme dei migranti interni che attraversano l’Europa transnazionale. 

Questo non significa che organizzare una contestazione collettiva all’interno dello scontro sulla mobilità non sia una delle principali poste in gioco per contrastare l’integrazione nello sfruttamento nel mondo post pandemico: non ci si deve nascondere dietro le difficoltà imposte da questa eterogeneità delle condizioni. Ma questa azione deve attivamente fare i conti con le gerarchie della migrazione e della mobilità costruite attivamente da governi, istituzioni e padroni, dove incidono differenze di sesso e di provenienza. Essa deve saper cogliere l’esistenza di comportamenti analoghi tra migranti di diversa condizione e status per produrre connessioni, anche parziali, che sappiano produrre una politicizzazione collettiva di alcune linee di differenza, senza aver la pretesa di trovare la formula della ricomposizione totale del lavoro mobile.

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