sabato , 27 Luglio 2024

Processo costituente e sciopero femminista in Cile. Un’intervista a Karina Nohales (CF8M)

di CAMILLA DE AMBROGGI

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Pubblichiamo l’intervista a Karina Nohales, portavoce della Coordinadora Feminista 8M (CF8M) e candidata costituente della CF8M in Cile. Karina ci racconta il ruolo centrale che ha avuto il movimento femminista all’interno della rivolta popolare di ottobre 2019, che ha aperto un processo di politicizzazione senza precedenti: questo ha portato al trionfo del “sì” nel referendum del 25 ottobre 2020 per abrogare la costituzione di Pinochet e all’apertura di un processo per scrivere una nuova Costituzione, tramite la prima Assemblea Costituente paritaria della storia e aperta a candidati e candidate indipendenti, ovvero parte di movimenti sociali e non appartenenti a nessun partito. Tuttavia, come dice chiaramente Karina, il processo di politicizzazione aperto con la rivolta non si conclude nella convenzione costituzionale ma, al contrario, può trovare in quella convenzione uno spazio per radicalizzare i termini in cui quella politicizzazione viene contesa. La decisione della CF8M, presa collettivamente e frutto di varie assemblee, di proporre delle candidate indipendenti per la convenzione costituzionale, tra cui Karina, non mira quindi ad assumere ruoli istituzionali né tanto meno vuole ridurre la complessità e l’eterogeneità delle lotte e delle domande sociali esplose nella rivolta a un piano costituzionale che, per sua stessa natura, tende a ridurre le tensioni a un’unità tramite la formalizzazione delle domande sociali. Al contrario, l’obiettivo è quello di mantenere aperto il processo di politicizzazione di massa della rivolta anche all’interno dell’Assemblea Costituente, per poter così affermare il loro potere sociale in maniera autonoma, rifiutando la forma partitica e rappresentativa come monopolio dell’esercizio della politica. Proprio per questo, per Karina il processo dello sciopero femminista rimane centrale e non può essere subordinato alla convenzione costituzionale, perché è quel processo che permette di rendere trasversale il discorso e la pratica femminista nei vari momenti di scontro politico, tra cui quello costituzionale, e di mantenere una lettura generale di problemi che nella scrittura della Costituzione vengono affrontati come particolari. L’intervista è così l’occasione per ripensare la dinamica movimento-istituzioni a favore di un processo che va oltre quella stessa dinamica e apre nodi e questioni fondamentali per i movimenti sociali e femministi del resto del mondo. Questa intervista diventa ancor più rilevante alla luce del panorama latinoamericano delle ultime settimane, in cui la vittoria della destra neoliberale in Ecuador con Guillermo Lasso, la sconfitta del MAS nelle elezioni dipartimentali boliviane in 4 dipartimenti centrali e il passaggio al ballottaggio in Perù di un candidato della sinistra conservatrice – Pedro Castillo – contro una candidata di estrema destra – Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto –, mostrano come vi è ormai un rifiuto diffuso da parte dei movimenti sociali di quel ruolo di mediazione tra il potere politico e i movimenti stessi che i governi progressisti avevano assunto. La dimensione transazionale del processo dello sciopero è stata fondamentale per uscire dall’alternativa che sembrava impossibile per i movimenti tra appoggio critico ai governi progressisti e rifiuto generalizzato di una comunicazione istituzionale, perché la connessione transnazionale di questo processo ha permesso di rendere ineludibile il potere sociale dei vari soggetti che lo attraversano. Per questo, ci dice Karina, è necessario mantenere aperto quel processo per trasformare radicalmente la materialità dell’organizzazione della vita, che non può avvenire se non si considerano le coordinate globali in cui il processo di produzione e riproduzione del capitale si muove, e per mantenere aperto il «carattere inevitabile di uno scontro di classe, in cui il femminismo gioca un ruolo fondamentale, che non si risolve scrivendo una nuova Costituzione».

***

Camilla De Ambroggi: Vorrei iniziare chiedendoti come, dalla Coordinadora Feminista 8M, state affrontando il processo costituente in modo autonomo, qual è il vostro programma e soprattutto come vi state organizzando per fare del processo costituente un momento che riesca davvero ad affermare il potere sociale delle donne, delle persone LGBTQ+, dei popoli indigeni, dei e delle migranti, dei lavoratori e delle lavoratrici che hanno fatto la rivolta di ottobre.

Karina Nohales: La Coordinadora Feminista 8 Marzo (CF8M) è nata nel 2018 ed è il frutto di un ciclo politico internazionale che abbiamo chiamato irruzione del femminismo di massa a livello globale. È un’organizzazione sociale che mira a rendere trasversale il femminismo all’interno dei movimenti sociali, ponendo la vita delle donne, delle bambine e delle persone LGBTQ+ come un problema politico e come parte dell’azione politica della classe operaia. L’idea fondamentale era quella di portare il femminismo fuori dalla nozione di particolarità, in modo da renderlo ineludibile in tutti i movimenti sociali e in tutti gli spazi in cui la classe operaia si è organizzata, dal sindacalismo, ovviamente, alla lotta per la casa, ai movimenti di lotta socio-ambientale e così via. Ci siamo riunite con una prospettiva politica che era di indipendenza e autonomia molto forte da tutti i partiti politici che hanno amministrato questi trent’anni di neoliberalismo in Cile, da tutti i leader ecclesiastici e dalle grandi associazioni imprenditoriali. Questa è stata la nostra idea iniziale, ci siamo costituite con l’obiettivo di organizzare lo sciopero generale femminista in Cile, cosa che non era mai successa prima. Pochissimo tempo dopo ha avuto luogo questa rivolta popolare, questo estallido social che ha contestato in maniera generale e trasversale il modo in cui è stata organizzata la vita in Cile durante questi decenni, sfidando il neoliberalismo, naturalmente, e tutte quelle condizioni di precarizzazione della vita che il neoliberalismo impone in modo accelerato e che riproducono e aggravano i fattori economici, culturali, giuridici e materiali che sostengono la violenza patriarcale contro cui ci siamo sollevate. La potenza che noi della CF8M, insieme ad altre organizzazioni, abbiamo manifestato prima dell’estallido social pensiamo che in qualche modo abbia prefigurato il contenuto dell’estallido stesso: abbiamo convocato lo sciopero generale femminista per la prima volta nel 2019 con l’obiettivo di interrompere la normalità neoliberale, una normalità violenta, e l’estallido social poco dopo lancia come slogan generale «la normalità era il problema». Ciò che in un primo momento è emerso dalla rivolta sociale è stato un accordo che ha coinvolto quasi tutti i partiti politici in parlamento e che cercava di cambiare la Costituzione politica di Pinochet del 1980. Abbiamo detto fin dal primo momento che questo accordo – che si chiama Acuerdo Por la Paz Social y la Nueva Constitución – ha due momenti: un momento è quello della «pace sociale», che in termini molto concreti significa che quasi tutti i partiti del Parlamento, compresi quelli dell’opposizione, decidono di fare da scudo e proteggere il governo Piñera – un governo che ha sistematicamente violato i diritti umani –  di evitare la sua caduta e di assumere la sua agenda repressiva a cambio di poter cambiare la Costituzione di Pinochet – e questo sarebbe appunto il secondo momento. Tuttavia, è un accordo che nessuno vuole completamente. I partiti che l’hanno firmato non lo vogliono perché nessuno di loro vuole davvero cambiare la Costituzione, tutti hanno amministrato in modo molto comodo le istituzioni che essa ha stabilito; nemmeno il popolo che si è sollevato in rivolta lo vuole completamente perché, sebbene sia stata sollevata la necessità di un’Assemblea Costituente, l’accordo nei termini che sono stati imposti dai partiti politici in parlamento impone forti limiti alla partecipazione popolare. Così si apre uno scenario che è ancora in discussione e la convenzione costituzionale sarà senza dubbio uno di quei momenti della disputa di classe che si installa in modo molto polarizzato oggi in Cile. Abbiamo discusso a lungo e in modo molto sostenuto la possibilità di partecipare a questa convenzione. La CF8M è uno spazio che non ha mai partecipato alle istituzioni, molte di noi non hanno mai votato, incluso me stessa. Io ho 36 anni, posso votare da 18 anni, e non ho mai votato, ho votato solo per il referendum sulla Costituzione l’anno scorso e questa è la realtà per molte di noi. Tuttavia, abbiamo accolto la sfida di scegliere se partecipare a un processo che ha le sue origini nella rivolta sociale, ma la cui traduzione è un processo istituzionale. Abbiamo deciso di farlo, perché abbiamo capito che erano in gioco molte cose. In primo luogo, siamo di fronte a un processo che, essendo istituzionale, è di natura straordinaria e dura per un tempo limitato e quindi noi non miriamo all’amministrazione di ciò che esiste nel quadro istituzionale, ma piuttosto ad avere voce in un processo di brevissima durata in cui però c’è la possibilità di trasformare alcune questioni di quel quadro istituzionale. D’altra parte, abbiamo capito che la rivolta sociale apre un ciclo molto importante di politicizzazione di massa, senza precedenti in Cile, in cui sono fondamentali i termini in cui questa politicizzazione viene contesa. Per esempio, domani potremmo andare alla convenzione costituzionale a discutere della crisi climatica e per noi fa differenza se quel dibattito riguarda le tasse verdi sulle grandi imprese o se riguarda la necessità di trasformare radicalmente la matrice estrattivista della nostra economia. Così abbiamo capito che durante la convenzione avrebbe avuto luogo un momento molto importante di questa politicizzazione di massa, non esclusivamente, ma in modo decisivo, e vogliamo che questa politicizzazione contenga gli elementi più radicali possibili. Abbiamo compreso, d’altra parte, che la possibilità di discutere di tutto – da come è organizzato lo Stato ai diritti sociali – non si è mai data prima, se non forse per l’elezione presidenziale in cui ha vinto Allende, l’ultima volta che il popolo è andato alle urne per votare un programma e non un volto o una figura. Oggi, la possibilità che il popolo possa affermare collettivamente il proprio progetto di società si sta formando, è in costruzione, e il femminismo deve avere un ruolo da protagonista nel progetto che nasce da questo processo. Quindi la convenzione non è separata da questo processo di politicizzazione, per quanto istituzionale possa essere. Tuttavia, allo stesso tempo, è stata una sfida difficile perché i movimenti sociali hanno discusso principalmente di diritti sociali e non abbiamo discusso, per esempio, di come vogliamo che il Parlamento sia organizzato o delle attribuzioni del potere esecutivo e così via. Così il programma che abbiamo, che è un programma costruito da migliaia di donne attraverso gli Encuentros Plurinacionales de las y les que luchan, è un programma centrato principalmente sui diritti sociali, non è un programma che parla di tutto ciò che si discuterà nella convenzione costituzionale. D’altra parte, cominciare a discutere questi e altri problemi di cui prima non parlavamo è parte della politicizzazione in corso di ampi settori popolari collettivi. Così, la Costituzione che abbiamo oggi stabilisce in modo molto esplicito e marcato che ciò che organizza la vita è la domanda e l’offerta, e il modo in cui il mercato regola questa domanda e offerta è il profitto sulla vita. Quello che vogliamo è che questa nuova Costituzione proponga esattamente il contrario, mettere la vita, tutte le forme di vita, non solo quella umana, al di sopra del profitto. Questo è più o meno quello di cui abbiamo discusso.

C.D.A.: A partire da quello che dici in merito al rapporto tra la convenzione costituzionale e questo processo di politicizzazione, consideravo che anche il processo dello sciopero femminista è stato un processo di politicizzazione molto forte capace di creare una connessione tra vari soggetti e varie lotte, bloccando l’organizzazione patriarcale, neoliberale e razzista della società globale e mostrando il carattere politico e sistemico della violenza. Quindi volevo chiederti cosa sta succedendo ora con lo sciopero nel processo costituente, soprattutto dopo questo anno in cui la precarizzazione e la violenza sulle nostre vite è aumentata molto. Pensi che il processo dello sciopero femminista abbia ancora una sua specifica vitalità e mantenga un carattere processuale o – anche se hai già risposto in parte a questa domanda – pensi che il movimento dello sciopero corra il rischio di esaurire questo momento di politicizzazione aspettando la formalizzazione costituzionale di alcune delle sue richieste? 

K.N.: Credo che la prima cosa sia proprio affermare il suo carattere di processo. Lo sciopero non è una pietra miliare, non è un momento, è un esercizio di immaginazione politica molto radicale in un paese dove, per esempio, non ci sono stati scioperi generali per quasi 50 anni. Nel contesto molto particolare della rivolta sociale, nel 2019, viene convocato il primo sciopero generale che non è femminista in Cile, e lo commenterò più tardi. Ma è il femminismo che per primo ha ripristinato il concetto di sciopero generale, e non lo ha fatto replicando quelli che nel nostro immaginario erano gli scioperi generali degli anni ’70, ma significando che cosa vuol dire uno sciopero femminista. Questo significa inserire, direi, una lettura generale e femminista, che è stata assente in Cile, rispetto a come è organizzata la vita, come è organizzato il lavoro. Questo è stato molto importante, è stato una parte fondamentale del processo di politicizzazione che si sta aprendo in Cile, che precede la rivolta sociale e che poi occupa un posto proprio nella rivolta. Il processo di cui vi sto parlando è ancora aperto, lo sciopero generale femminista continua a occupare un posto molto importante in questo processo che è in corso e non si è esaurito. Tuttavia, il femminismo prima della rivolta aveva un po’… non voglio dire un monopolio, ma aveva un posto estremamente rilevante nella mobilitazione di massa. Quando molti altri settori non attivati dal femminismo sono esplosi in rivolta, il femminismo è passato in secondo piano: dall’essere la cosa più rilevante nella mobilitazione è stato messo in ombra quando è scoppiata la rivolta sociale e l’iniziativa è passata in mano a settori in cui il femminismo era ovviamente inserito, ma che non erano strettamente femministi, come le grandi organizzazioni sindacali con cui il processo dello sciopero femminista aveva un rapporto molto difficile. I sindacati, pochi giorni dopo l’inizio della rivolta, hanno indetto uno sciopero generale: questo non era mai successo prima, sono riusciti a riunire settori sindacali che non comunicavano da anni per indire questo sciopero che non era femminista – cioè, non lo caratterizzavano come femminista – e hanno escluso le femministe, che erano le uniche che avevano aperto un processo di sciopero generale. Penso insomma che questo mostri molto chiaramente fino a che punto il processo dello sciopero generale femminista è ancora necessario e valido, e le due cose non possono escludersi deliberatamente. Voi [il movimento di Non Una Di Meno] in Italia non siete sindacaliste, e lo sciopero è proprio del sindacalismo, state addirittura cercando di oltraggiare il senso storico dello sciopero, sfrattandolo da dove dovrebbe essere. Noi ci siamo trovate nel mezzo di una rivolta e dovevamo anche combattere in questi dibattiti che erano politici per affermare che il femminismo è una forma di azione politica della classe operaia, contestando i contorni di ciò che è stato classicamente inteso come classe operaia. Abbiamo dovuto situare il sindacalismo e la sua attività come una specificità all’interno della classe operaia e non il contrario. Questa disputa è ancora aperta e fa parte della politicizzazione che ci interessa espandere in settori sociali più ampi e vasti. Pensiamo per esempio che i settori formalmente salariati, e che quindi hanno diritto di sciopero in Cile, sono il 60% della popolazione economicamente attiva; il 40% è lavoro informale salariato, che coinvolge persone che non hanno diritto di sciopero o non possono sindacalizzarsi, e poi abbiamo tutto il lavoro non retribuito che nemmeno ha diritti. Quindi quello che abbiamo sempre cercato di fare è trovare un modo in cui la classe operaia possa organizzarsi in maniera sempre meno settoriale e particolare – e per noi il sindacalismo è una particolarità – per arrivare a creare uno schieramento di massa che sia efficace. Sentiamo che intrappolato in questa lettura conservatrice della dignità della classe operaia c’è un gigantesco spreco di forze che esistono, che vogliono mobilitarsi. Continuo a credere che questa sia una caratteristica del femminismo, del suo potere e degli altri settori della classe operaia che hanno queste letture femministe. Quindi il processo dello sciopero femminista è ancora all’ordine del giorno, è ancora assolutamente necessario e non può essere subordinato o ridotto al processo costituzionale che avrà luogo nel paese. Quello che è certo è che non siamo mai state coinvolte in un processo elettorale. Il livello di energia che questo consuma è importante e sposta le centralità di altri compiti che hanno anche a che fare con l’organizzazione del processo dello sciopero e immagino che questa sia una situazione in cui si trova qualsiasi organizzazione sociale politica, di qualsiasi natura, quando è coinvolta in un processo elettorale. Questo è quello che stiamo vivendo, è anche un’esperienza che è stata molto importante perché è stata molto politicizzante anche per noi, in un modo diverso da quello precedente.

C.D.A.: Penso che sia molto importante quello che hai detto sul fatto che il processo dello sciopero è fondamentale per rendere visibile tutto il lavoro informale e il lavoro non retribuito che noi donne facciamo, così come quello che dicevi prima sulla trasversalità della prospettiva femminista, che è una conquista che il movimento dello sciopero femminista ha avuto negli ultimi anni. Collegandomi a questo so che, come CF8M, avete candidate indipendenti ma che c’è anche una lista che riunisce vari candidati e candidate dei movimenti sociali. Volevo chiederti se puoi spiegare come vi state organizzando collettivamente anche con altre organizzazioni sociali verso la convenzione costituzionale.

K.N.: Il processo costituzionale in Cile è nuovo, non c’è mai stato un processo di questo tipo prima. È anche un processo paritario, il che significa che i candidati devono essere lo stesso numero di uomini e di donne e che anche la convenzione costituzionale sarà formata per metà da uomini e per metà da donne e, insieme a questo, sono incorporati i seggi riservati ai popoli indigeni, e anche questa è una novità. Il modo in cui vengono eletti i membri della costituente è lo stesso in cui vengono eletti i deputati. Questa è la legge che regola l’elezione, ma con una particolarità: i candidati indipendenti non possono formare liste quando si tratta di elezioni parlamentari, ma per la convenzione costituzionale sì. Così abbiamo deciso di formare liste indipendenti dei movimenti sociali per la convenzione. Qual è l’altro modo in cui gli indipendenti possono partecipare? Attraverso un partito politico, ovvero partecipare come indipendenti nella lista di un partito o di un gruppo di partiti politici. Abbiamo deciso di formare questa lista con la consapevolezza che essere indipendenti non era il punto centrale, ma che il punto centrale, ancora una volta, era affermare che il monopolio dell’esercizio della politica non è contenuto esclusivamente nella forma partito e che l’attività dei movimenti sociali è un’attività politica, anche se non prende la forma di un partito. Se pensiamo ai partiti più o meno di sinistra in Cile, i programmi politici che difendono verso la convenzione sono incentrati sugli elementi che i movimenti sociali hanno imposto alla scena politica. Quindi potremmo addirittura dire che il contenuto politico fondamentale in disputa è stato posto dai movimenti e non dai partiti stessi e che quindi la voce dei movimenti sociali in questo processo non solo è fondamentale, ma anche non delegabile. Cioè, non vogliamo produrre una politica in cui siano altri indirettamente e non noi in prima persona a portare il nostro programma, siamo capaci di portarlo noi stesse. Non c’è garanzia che qualcuno possa difendere quel programma meglio di coloro che lo hanno affermato e difeso nelle strade a costo di gas lacrimogeni, di detenzioni, di abusi, per molti, molti anni. Questo non è andato giù ai partiti, compresi quelli di sinistra più progressisti. Infatti, non riconoscono e mettono in una posizione inferiore la capacità di iniziativa politica del movimento sociale. Arrivano persino a dire che solo i partiti possono produrre un programma generale e che il movimento sociale può solo riprodurre prospettive particolari. Credo che, almeno per quanto riguarda il movimento femminista, niente potrebbe essere più lontano dalla verità: se c’è una caratteristica che il femminismo ha avuto a livello globale durante questo periodo è che è stato in grado di articolare una lettura generale di una serie di domande sociali che erano presentate come separate e particolari. Abbiamo deciso di formare queste liste e non è stato facile, perché noi avevamo molta fiducia nelle nostre capacità, ma altri movimenti sociali non ne avevano altrettanta e pensavano che, a causa degli infiniti requisiti che gli indipendenti dovevano soddisfare per costituire le liste – requisiti che i partiti non erano tenuti a soddisfare – non saremmo stati in grado di formare le liste. Così molti movimenti sociali stavano iniziando a cercare di ottenere quote all’interno dei partiti e noi abbiamo dovuto convincere, con molto lavoro, molte altre organizzazioni sociali che era possibile raggiungere tutti i requisiti per formare la lista, e ci siamo riuscite. E l’abbiamo fatto, direi, con un vantaggio, perché c’è stato un periodo, prima dell’inizio della campagna elettorale, in cui i e le candidate indipendenti dovevano raccogliere le firme per registrare le loro liste; in quel periodo avevamo anche il monopolio di alcune forme di attività politica perché i partiti non potevano ancora fare campagna, ma gli indipendenti stavano già raccogliendo le firme e questo di per sé ha significato un dispiegamento di una campagna elettorale molto grande. Nel caso, per esempio, del mio distretto – che è il distretto più conteso del Cile, prodotto della centralizzazione del paese qui a Santiago, che ha un livello di esposizione mediatica superiore a qualsiasi altra parte del paese e che ha un significato simbolico molto importante – la lista che abbiamo costituito è stata la lista indipendente con più patrocini e firme a livello nazionale. Questo è importantissimo e, immagina, in Cile c’erano circa 700 candidature indipendenti che hanno dovuto raccogliere le firme, e in questo caso, la mia, che è quella della CF8M, è stata la candidatura indipendente con più firme anche a livello nazionale, e questo è curioso perché la CF8M ha sempre avuto come politica quella di non avere figure individuali. Infatti, quelle di noi che sono stati portavoce della CF8M hanno avuto come regola quella di non rispondere mai a domande personali alla stampa; per esempio, questo succede sempre poco prima dell’8 marzo, quando i giornali cercano di costruire un profilo della figura femminista, i giornalisti chiedono cosa ci piace fare nella vita e cose così, a queste domande non si risponde. Bene, la decisione di eleggere candidate è stata anche quella di modificare un criterio che avevamo avuto fino ad ora, dato che avremmo dovuto promuovere figure individuali. Ma abbiamo raggiunto questo livello di patrocini senza che nessuno ci conoscesse a livello individuale, e penso che la nostra enfasi sulla costruzione collettiva abbia mostrato il suo potenziale. Ci sono altri movimenti sociali in Cile che sono stati molto importanti negli ultimi anni e che hanno figure individuali molto forti in termini di comunicazione, che non hanno raggiunto nemmeno la metà del livello di patrocini che abbiamo avuto noi. Tuttavia, quando è iniziato il periodo di campagna elettorale vera e propria, lì si è vista la differenza gigantesca nella copertura mediatica e nel denaro che i partiti politici hanno perché hanno il controllo totale della televisione. In questo senso sta diventando molto difficile e disuguale, così come pensavamo che sarebbe stato.

C.D.A.: Certo, ho anche visto che Piñera ha bloccato la campagna elettorale fino alla fine di aprile e immagino che anche questo ponga i candidati e le candidate indipendenti in svantaggio rispetto ai partiti politici

K.N.: Certo, perché siamo anche in quarantena totale in quasi tutto il paese e in questo contesto l’unica cosa che rimane è la televisione, i media egemonici. Perché anche se i media comunque hanno sempre favorito la campagna dei partiti, almeno prima avevamo la strada, potevamo andare nelle fiere, nei quartieri, agli angoli delle strade, e ora non resta che questa impossibile battaglia di comunicazione. 

C.D.A.: Volevo anche parlare del carattere transnazionale del movimento dello sciopero femminista, e di come questo carattere ha prodotto una comunicazione e una connessione politica che non ha portato a una omogeneizzazione delle lotte ma piuttosto a un processo di politicizzazione espansivo. Mi sembra che in questo ultimo anno di pandemia il carattere transnazionale del movimento, e anche gli sforzi che sono stati fatti per dare un momento organizzativo a questo carattere, siano stati importantissimi per rompere il forte isolamento che abbiamo sentito nelle nostre vite. Chiaramente il processo costituzionale è qualcosa di inevitabilmente nazionale e così mi chiedo come il carattere transnazionale del movimento femminista possa combinarsi con il processo costituzionale cileno, pensando anche un po’ al panorama generale latinoamericano che sta vivendo una crisi dei governi progressisti – che chiaramente non è qualcosa di nuovo – ma che penso stia portando a un rifiuto totale del ruolo di mediazione che i governi progressisti avevano tra il potere politico e i movimenti sociali. Mi sembra che il caso cileno, con liste indipendenti che riescono a imporre le domande sociali sorte nelle piazze, come hai detto, senza essere sotto la rappresentanza dei partiti, sia un caso che mostra delle controtendenze. Da qui la domanda è come coniugare la dimensione nazionale del processo costituente con una dimensione più transnazionale che continua a essere necessaria?

K.N.: Ci sono diversi livelli in questa domanda. Penso che un livello molto importante sia quello regionale. L’America Latina, in particolare l’America del Sud, è stata attraversata da un ciclo progressista in diversi dei suoi paesi alcuni decenni fa e da questo ciclo sono emersi molti processi costituenti, quello che si chiama il neo-costituzionalismo latino-americano. A volte si legge dall’esterno che in Cile potrebbe esserci una sorta di processo tardivo di quello stesso fenomeno. A me sembra che vi siano molte differenze, ma ne citerò solo due. Questi processi costituenti in Bolivia, Ecuador, Venezuela, eccetera, sono andati di pari passo con i governi progressisti, si potrebbero caratterizzare questi governi in meglio o in peggio, ma in Cile quello che sta succedendo è che abbiamo la possibilità di porre fine alla Costituzione di Pinochet sotto il mandato del governo più reazionario dopo la dittatura, in un contesto che abbiamo chiamato di terrorismo di Stato, di violazione sistematica dei diritti umani e in cui sia il governo che il sistema dei partiti in generale, compreso il parlamento, hanno un consenso pari a zero – quando il parlamento ha firmato l’Accordo per la Pace Sociale e la Nuova Costituzione, godeva solo del 3% di consenso nei sondaggi e il governo del 6% circa. Quindi penso che questa sia la prima grande differenza, lo scenario politico in cui questo processo avrà luogo. La seconda grande differenza è l’esistenza di questo femminismo globale, di massa, che non era presente quando questo ciclo progressista latino-americano ha avuto luogo e che invece è presente oggi. Uno degli impatti più evidenti di questo ciclo di mobilitazioni femministe è che la convenzione costituzionale è paritaria: questa la percepiamo come una conquista transnazionale, cioè, lo è stata naturalmente perché ci siamo mobilitate qui ed eravamo in milioni ed è stato molto potente, ma quello che stavamo facendo era inserito in uno scenario globale che era impossibile da ignorare. Così abbiamo sempre detto che la possibilità di poter scrivere in maniera paritaria la nuova Costituzione è stata data grazie ad ogni compagna che è scesa in strada in qualsiasi parte del mondo, ovunque, e ci piace pensare che questo sarà un primo passo per le compagne di qualsiasi altro paese in qualsiasi processo costituente a venire. In secondo luogo, il posto che il neoliberalismo e la sua critica hanno occupato nei movimenti femministi di questo periodo è stato molto importante in tutti i paesi, non è una particolarità del Cile e, al di là del neoliberalismo caratterizzato come modello, quelle che sono le coordinate con cui il capitale si muove oggi hanno fatto parte dei movimenti in tutte le parti del mondo. Oggi ci troviamo di fronte alla sfida di porre fine a questo modello, che è il primo compito politico del processo costituente. Pensiamo che sarà molto importante per le compagne di qualsiasi paese riuscire a farlo in un paese come il Cile, nelle condizioni in cui lo stiamo facendo, perché sappiamo anche che il Cile è uno dei primi paesi in cui questo modello si installa in modo molto aggressivo. Così in quella frase della rivolta, «il neoliberalismo nasce e muore in Cile», che suona così bella, alberga una speranza per molti popoli. La questione è smantellare il neoliberalismo per fare cosa? Per riprodurre quello che poteva essere il ciclo progressista? No, per niente! Penso che il femminismo giochi un ruolo fondamentale in questo esercizio di immaginazione politica, che quello che cerca non è mai una restaurazione. È sempre quella che noi chiamiamo la «memoria del futuro»: facciamo nostre tutte quelle lotte, sapendo che il posto che occupavamo in quelle lotte, che facciamo nostro, non è il posto che vogliamo occupare. Il posto che le nostre vite occupavano in quelle lotte e in quei processi precedenti, non importa quanto fossero popolari, non è il posto in cui vogliamo essere. Dove ci collochiamo allora in questi processi che verranno e che sono in corso in Cile? Credo che qui dovremmo attingere a questa nostra capacità di pensare insieme. Per noi è molto importante poterci convocare transnazionalmente, a prescindere da quale delle nostre compagne parteciperà alla convenzione, non solo per raccogliere le esperienze delle compagne latinoamericane – molte di loro hanno fatto parte dei processi costituenti nei loro paesi – ma anche per parlare con le compagne dove questi processi non hanno avuto luogo, per dire bene allora come proponiamo quello che dobbiamo proporre lì, come risolviamo e quale posizione adottiamo in ognuno dei grandi problemi che possiamo discutere in questo spazio costituente. Credo che questo debba essere pensato collettivamente a livello transnazionale. Ora, senza dubbio, le esperienze sono molto diverse: per esempio, molte compagne in Ecuador hanno chiamato a votare scheda bianca [alle elezioni presidenziali dell’11 aprile], perché già hanno rotto con la politica di appoggio critico a questi governi progressisti che hanno sempre lasciato all’ultimo posto le lotte socio-ambientali, delle donne e dei popoli indigeni; mentre in Perù, dove non c’è stato nessun ciclo progressista, le compagne chiedono un appoggio critico a una sinistra che è molto conservatrice [quella di Pedro Castillo] e che in realtà non assume queste lotte, che i movimenti progressisti latinoamericani non hanno mai assunto. Quindi penso che questa discordanza temporale dell’esperienza sia molto importante per noi che non abbiamo vissuto né l’una né l’altra: il Cile non ha avuto un ciclo progressista e non ci sono settori che vogliono riprodurre un ciclo del genere. Tuttavia, sarà anche un anno di elezioni e l’attuale governo, essendo di una destra molto aggressiva, costituisce un pericolo immediato per la vita, per la salute della popolazione e per qualsiasi nozione minima di democrazia. Quindi dovremo anche posizionarci nel dibattito presidenziale che avrà luogo a novembre, e avremo bisogno di molta forza per discutere insieme alle compagne di paesi come Perù ed Ecuador, per attingere alle loro esperienze.

C.D.A.: Sì, penso che questo carattere transnazionale del femminismo sia proprio quello che ha permesso di imporre alle istituzioni le rivendicazioni sociali emerse nelle piazze, anche senza una comunicazione istituzionale diretta, e penso che sia molto importante quanto dici su come state cercando di mantenere questa capacità anche all’interno del processo costituente. Bene, per concludere volevo sapere se vuoi aggiungere qualcosa che non ti ho chiesto e che pensi sia importante dire. 

K.N.: Sì, che tutta l’esperienza regionale, e internazionale in generale, è stata molto importante per noi, per essere quello che siamo ora, qui in Cile, come movimento. Abbiamo deciso di chiamare lo sciopero guardando all’esperienza della Spagna, dell’Italia, che è ciò che ci ha ispirato in primo luogo, cioè, è lì che dobbiamo puntare la nostra attività. In secondo luogo, quando stavamo già dando impulso al processo dello sciopero generale femminista in Cile, è avvenuta l’elezione di Bolsonaro in Brasile; anche questo è stato molto importante per noi, perché da lì sono emerse una serie di caratterizzazioni della nostra prospettiva politica. Siamo a un bivio storico – questa è la parola che usiamo – tra le condizioni di decomposizione della vita che il neoliberalismo accelera e che portano al neofascismo, o la possibilità di sollevare dai popoli un’altra via, in cui il femminismo ha un ruolo e un posto di primo piano e centrale. Questo è fondamentalmente quello che abbiamo cercato di fare: produrre quest’alternativa. Quindi la nostra partecipazione al processo costituzionale è, diciamo, una partecipazione contingente, comprendendo che la possibilità di produrre quest’altra alternativa è in corso. Quest’alternativa non passa per il quadro istituzionale, ma ciò che succede nel quadro istituzionale non è indifferente alla possibilità di costituire questa alternativa, soprattutto in un processo costituzionale che sarà una battaglia programmatica e ideologica, che avrà portata nazionale, in cui tutto il paese starà a guardare ciò che si discute. Tuttavia, è un momento di un processo che non si apre né si conclude in questo ambito costituzionale. Al contrario, la prima cosa che abbiamo fatto quando è iniziata la rivolta sociale è stata dire che siamo entrate in un processo costituente che non ha a che vedere con la redazione di una nuova Costituzione, ma con la classe operaia che si costituisce come tale. Quello per cui ci battiamo è il contenuto di questa costituzione di classe, che è un processo vitale: questo è il luogo in cui ci troviamo, speriamo che il femminismo giochi un ruolo fondamentale in questo processo di formazione di classe, e lo sciopero per noi è inseparabile dal disputare come la classe si costituisce come tale e che cosa afferma. Così, quando diciamo di mettere la vita al centro, stiamo parlando di tutto questo, di ciò che abbiamo sempre affermato: dei lavori che sostengono la vita – che sono invisibili, che non sono considerati lavori –, delle condizioni con cui relazionarci alla natura, compreso il problema della proprietà, dei beni comuni naturali. Oggi abbiamo la possibilità di discuterne non solo tra di noi, ma anche in un dibattito nazionale che sta cercando di elaborare una nuova Costituzione. Tuttavia, non abbiamo molte aspettative sulla Costituzione che risulterà da questo processo: ci sembra estremamente difficile che raccolga le aspirazioni popolari che sono state sollevate negli ultimi anni e, anche se lo facesse, sarebbe una cosa molto buona, ma non sarebbe qualcosa di così decisivo. Infine, qualunque cosa le Costituzioni dichiarino, è assolutamente necessario trasformare radicalmente la materialità dell’organizzazione della vita, a partire dalla proprietà, per esempio. Quindi questo è il mio contributo, per far capire che non partecipiamo alla convenzione per ingenuità o con qualche illusione che non tiene conto del carattere inevitabile di uno scontro di classe, che non si risolve scrivendo una nuova Costituzione.

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