martedì , 19 Marzo 2024

Dalla farsa alla realtà. Le illusioni politiche della democrazia statunitense

di FELICE MOMETTI

Il rito propiziato dall’apprendista stregone della Casa Bianca è andato fuori controllo. Forzando la mano e annebbiando il cervello, per due mesi, sulle “elezioni rubate” alle decine di milioni di followers su Twitter e Facebook, il mondo virtuale delle sette religiose, degli oppositori al Deep State di Soros e Bill Gates, ai complotti di Chavez e Xi e ai pedosatanisti da pizzeria si è improvvisamente tramutato nell’invasione del campo da gioco di Capitol Hill. Ora le definizioni si sprecano. Colpo di Stato da operetta, insurrezione dell’America profonda, fascisti a Washington, polarizzazione sociale, culturale e geografica. Tutto vero ma, allo stesso tempo, spesso fuorviante. Pare che sfugga il punto di innesco di quello che è accaduto. A prescindere dalle reali motivazioni che hanno indotto Trump a costruire la narrazione delle “elezioni rubate” – il timore di incriminazioni per corruzione, evasione fiscale e bancarotta – e anche dalle patologie evidenti del personaggio, ciò che salta agli occhi sono le palesi ambiguità e procedure antidemocratiche della Costituzione americana. Una Costituzione, varata nel 1787 da 55 uomini bianchi in gran parte ricchi e proprietari di schiavi, che in ultima istanza non prevede il voto popolare per eleggere il Presidente e per un centinaio di anni non lo prevedeva nemmeno per il Senato, frutto di quella che Howard Zinn ebbe a definire “una specie di rivoluzione”.  Biden non vince le elezioni perché ha preso 7 milioni di voti più di Trump, ma perché ne ha presi 76 mila in più distribuiti su quattro Stati: Arizona, Georgia, Nevada e Winsconsin. Questo gli ha permesso di ottenere i 43 grandi elettori decisivi per la vittoria. Quindi, probabilmente ha pensato l’apprendista stregone, se si delegittima il voto in uno di questi Stati l’intero processo elettorale cade come un castello di carte. D’altra parte, non sarebbe la prima volta che si gioca sporco alle elezioni. In fondo anche l’icona John Fitzgerald Kennedy ha trafficato in Texas e alle Hawaii per vincere per qualche decina di migliaia di volti. Ma il gioco è permesso fino a quando non si mettono in discussione, anche virtualmente, le basi del potere dell’establishment bipartisan – una volta si sarebbe detto della formazione economico-sociale – che comanda a Washington. Trump, in questi mesi, ha ignorato gli avvisi arrivati da due lettere aperte di centinaia di manager di grandi multinazionali, dalla presa di posizione – promossa da Dick Cheney (sì, proprio lui) – di una decina di ex Segretari di Stato e i “pizzini” del Pentagono recapitati per vie traverse. Ma il variegato mondo del trumpismo non si è comportato come il pubblico di The Apprentice che guarda lo spettacolo. Dopo due inconcludenti manifestazioni a Washington, piuttosto modeste a dire il vero, contro i presunti brogli elettorali fino alla terza – più grossa ma per nulla oceanica come nelle intenzioni – ecco che circa 3/4 mila manifestanti, con un misto di complicità e improvvisazione da parte della polizia non certo in assetto di guerra come durante le proteste di Black Lives Matter, arrivano alle scale del Campidoglio. Alcune decine riescono a entrare da una porta e da una finestra laterali incustodite. Entrano alcuni miliziani dei Proud Boys e dei Three Percenters, ma anche casalinghe della Florida, giovani del Midwest che si fanno i selfie seduti sulle poltrone di Mike Pence e Nancy Pelosi, simil sciamani avvolti da pelli di bufalo e  Ashli Babbitt, veterana del Air Force, che si prende una pallottola  per aver provato a scavalcare una porta rotta.  Lo sfregio, seppur simbolico, di quello che viene considerato il tempio della democrazia americana ha imposto al Congresso di stringere i tempi e certificare velocemente la vittoria di Biden. Intanto Trump si è dichiarato disponibile a una “transizione ordinata” dei poteri ma rimane aperta la guerra, dagli esiti ad oggi imprevedibili, interna al partito repubblicano. Invertendo una celebre citazione si potrebbe dire: dalla farsa alla tragedia. Ma il punto ora è: cosa viene dopo? Il destino di Trump pare segnato, non lo stesso per quell’aggregato di pulsioni autoritarie, suprematiste, ultra-liberiste, misogine che semplificando molto si definisce trumpismo. È il sistema politico-istituzionale della prima potenza mondiale che non è più in grado di rispondere secondo i principi della democrazia liberale ai sommovimenti della società. Lo si è visto anche la scorsa estate, con il dispiegamento in varie forme, spesso violente, del razzismo istituzionale. Una cosa è certa: non sarà certo Biden a cambiare la situazione.

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