martedì , 19 Marzo 2024

Il golpe che non c’è, ma che c’è sempre stato. Il Brasile ai tempi del coronavirus

Intervista a HOMERO SANTIAGO – Sao Paulo

Negli ultimi giorni sui quotidiani italiani ed europei si sono rincorse le voci di un presunto colpo di Stato in Brasile messo in atto dai militari contro Bolsonaro. La notizia ha assunto toni surreali, dal momento che proprio in Brasile i media non le hanno dato molto spazio, come se si trattasse di un semplice rimpasto di governo o poco più. Ne abbiamo parlato con Homero Santiago, docente all’Università di Sao Paulo e già nostro collaboratore, il quale ci suggerisce di spostare l’attenzione su alcune dinamiche politiche di medio periodo, che riguardano non soltanto il Brasile, ma altri paesi dell’America latina, e che mostrano i limiti e le contraddizioni dei governi reazionari sudamericani, ma anche la difficoltà delle opposizioni – tanto di partito, quanto di movimento – nel riprendere un’iniziativa politica che non sia semplicemente il rifiuto (peraltro sacrosanto) degli attuali governi.

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Nei giorni scorsi si è sparsa la voce di un presunto «colpo di Stato» contro Bolsonaro. Sapresti darci qualche informazione più precisa in merito?

In effetti, la situazione politica brasiliana è molto complicata – come se la pandemia non fosse abbastanza –, ed è per questo che non c’è una spiegazione facile per darvi l’idea del «colpo di stato contro Bolsonaro». Cerco di fornirvi un quadro delle linee di forza in gioco. Fin dalle prime notizie sul coronavirus in Brasile (febbraio e inizio marzo), Bolsonaro ha sottovalutato gli effetti della malattia, che per lui non sarebbe stato altro che una «piccola influenza». In questo ha fedelmente seguito il percorso di Trump. Inoltre, i gruppi bolsonaristi hanno insistito (come insistono tuttora) che il virus era colpa della Cina (cosa che ha creato un «bellissimo» stallo diplomatico) e che sarebbe stato usato dalla sinistra per destabilizzare il governo di Bolsonaro: «comunavirus», è stato definito scherzosamente. Nel frattempo, i casi della malattia sono aumentati, e con essi anche le morti. Governatori e sindaci hanno così deciso di agire da soli, tenendo conto dell’inazione del governo federale. Soprattutto nello stato di San Paolo sono stati emanati il divieto di commercio (tranne quello essenziale), la sospensione delle attività scolastiche e universitarie e il congedo di tutti i lavoratori non fondamentali. A metà marzo Bolsonaro ha fatto una dichiarazione alla nazione accusando i governatori di voler strangolare economicamente il paese e creare un clima di «isteria» per una «piccola influenza»; questi termini sono ricorrenti nel suo discorso.

Quindi l’epidemia ha prodotto delle tensioni all’interno del sistema di governo del paese.

Sì. Inoltre, un terzo focolaio di tensione si è acceso tra Bolsonaro e il suo Ministro della Salute Luiz Henrique Mandetta, che, pur essendo un bolsonarista della prima ora, è anche un medico e sorprendentemente ha fatto un buon lavoro, riattivando il sistema sanitario pubblico a livello federale e prendendosi in prima persona la responsabilità della decisione dell’isolamento sociale, seguendo le raccomandazioni dell’OMS. Per questo Bolsonaro lo ha già minacciato pubblicamente di dimissioni. Infine, in campo economico, con gli stati del sud-est del paese a un punto morto, tutto è bloccato. Il ministro dell’economia Paulo Guedes (un «Chicago boy») ha insistito molto sul fatto che, anche nella pandemia, gli impegni fiscali dovevano essere mantenuti. In un’alleanza senza precedenti tra l’opposizione di sinistra e l’ala centrista nel Parlamento, anche sotto una forte pressione popolare (i panelaços giornalieri durano ormai da quasi un mese), è stata approvata la garanzia di un reddito minimo: aiuti finanziari per i lavoratori informali, diritto di richiedere l’assicurazione o la cassa integrazione contro la disoccupazione per i lavoratori formali in congedo temporaneo (la legge consentiva alle piccole e medie imprese di sospendere il contratto di lavoro), mantenimento della bolsa família, oltre ai generosi crediti alle imprese minacciate di fallimento. In breve, nel bel mezzo della pandemia, è scoppiata la guerra politica: il nucleo bolsonarista (dopo molte defezioni) si è chiuso e sostiene l’idea che si stia preparando un colpo di Stato; i più esaltati, come uno dei figli del presidente, affermano che «stiamo andando nella direzione di un paese socialista», perché ormai tutti dipenderanno dall’aiuto dello Stato. Pressocché tutte le altre forze politiche, invece di chiedere l’impeachment di Bolsonaro (cosa che, tra l’altro, sarebbe positiva per lui, tenendo conto dei lunghi tempi del processo), oggi chiedono le dimissioni del presidente, che è ritenuto non più in grado di governare. I tre ex candidati delle presidenziali dell’anno scorso hanno firmato un manifesto domandando le sue immediate dimissioni. Infine, rimane la questione dei militari. Hanno cercato di «calmare» Bolsonaro (che sta dimostrando una terribile negligenza politica) e, infine, lo hanno costretto ad accettare il generale Braga Netto come capo della «Casa Civil» (una sorta di ministero dell’Interno) per coordinare le azioni del governo. Tuttavia, data l’insistenza di Bolsonaro sulla debolezza della pandemia, diversi generali hanno insistito sulla necessità di affrontare con forza «la più grande sfida della nostra generazione», contraddicendo esplicitamente il presidente. Poiché il vicepresidente è un generale, si pensa che lo scopo sia una sorta di «colpo di Stato bianco» che costringa Bolsonaro a dimettersi.

Si tratta quindi di una contraddizione tutta interna alle forze governative. Che conseguenze ci saranno per il paese, in particolare per le classi subalterne?

È certo che per Bolsonaro non ci sono più le condizioni per governare; d’altra parte, nessuno sa davvero che cosa fare. Lui non segue più nemmeno Trump, e cerca piuttosto di tracciare un percorso simile a quello dell’Ungheria, chiedendo la libertà di governare per decreti e di imporre una sorta di «stato d’assedio» che dovrebbe, a suo dire, facilitare la lotta contro il virus. Tuttavia, il parlamento ha rifiutato questa proposta e la corte federale ha annullato molte delle sue azioni, tra cui quella con cui voleva imporre la riapertura del commercio. La situazione ha raggiunto un punto tale di follia che il bolsonarismo, con il sostegno esplicito del presidente, ha promosso per domenica 5/5 un «digiuno nazionale» contro il virus. Sembra di ritornare al Medioevo. Viviamo una telenovela, comica nei suoi piccoli eventi quotidiani, e allo stesso tempo terrificante perché vengono annunciati i prossimi capitoli: la diffusione del virus e le morti in crudele combinazione con la miseria strutturale del paese, perché anche se un piccolo reddito aiuta i più poveri, è difficile restare a casa, in isolamento, nelle favelas, con alloggi precari e senza servizi igienico-sanitari di base; inoltre, senza lavoro e scuole, c’è la minaccia della fame per molte famiglie. Lo sconvolgimento sociale, inoltre, è una preoccupazione dei militari (l’esempio cileno ricorre spesso), al punto che io mi azzarderei a dire che loro vorrebbero sentirsi chiamati a tornare al potere. È stato molto significativo che lo scorso 31 marzo, in occasione dell’anniversario del colpo di Stato militare del 1964, Bolsonaro, il vicepresidente e vari generali all’unisono abbiano dichiarato che si trattava di una data per ricordare l’importanza della «difesa della libertà». Sebbene la spavalderia sia sempre stata più o meno presente nei loro discorsi, un appello autoritario così esplicito non era mai stato fatto. Questa è tutta l’ambiguità di un «colpo di Stato contro Bolsonaro». Tutti vogliono vederlo andarsene; tuttavia, a seconda degli attori in gioco e del modo in cui questa cacciata verrà eseguita, il significato del colpo cambia. Ci sono almeno due visioni principali: un bolsonarista intende il «colpo di Stato contro Bolsonaro» come un colpo di Stato effettuato dalla sinistra, con l’aiuto dei media, attraverso lo strangolamento economico e la creazione di un’ampia rete sociale dipendente dallo Stato; a sinistra, «colpo di Stato contro Bolsonaro» può significare il dispiegamento della forza militare per imporre un generale come presidente. Certo, non è esclusa la possibilità di un golpe bianco effettuato da Bolsonaro sullo stile ungherese o come è successo in passato con Fujimori in Peru.

In questa situazione, come si sta comportando la sinistra istituzionale? E come i movimenti sociali? Delle diverse proteste e scioperi, che cosa rimane adesso?

È un dato di fatto che la sinistra istituzionale non si è ancora ripresa dalle ultime sconfitte e non è riuscita a elaborare una opposizione coerente al governo di Bolsonaro. Nemmeno il PT (Partido dos Trabalhadores), dal quale ci si aspettava molto di più; dopo tutto, il partito ha preso quasi il 45% dei voti nel secondo turno delle elezioni presidenziali, un importante capitale politico. La difficoltà di dialogo tra partiti, movimenti sociali e gruppi organizzati a sinistra persiste. L’ultima volta che tutti si sono trovati dalla stessa parte era nelle manifestazioni contro Bolsonaro; ma significativamente il motto unificante era negativo, un rifiuto: «ele não», «chiunque ma non lui». A che cosa invece dire di sì? Il compito più difficile è concepire un contenuto positivo che vada oltre l’antibolsonarismo, che non è più solo una questione di sinistra, come dimostrano i panelaços quotidiani – una forma di protesta, usata a destra e a sinistra, tipica delle classi medie. Ciò che rimane degli ultimi movimenti, scioperi e proteste che hanno scosso il paese con una certa regolarità (e con effetti diversi) dal 2013, è solo un modo di vedere le cose. Il paese si è molto politicizzato e negli ultimi anni non c’è stato praticamente nessun argomento che non sia stato ricondotto a un tema politico che si possa attribuire o meno alla destra o alla sinistra. Le tonalità sono tantissime, ma la polarizzazione è certamente un impoverimento del discorso. Qualcosa cambierà? È una speranza: riempire il vuoto implicito nel rifiuto emblematico «ele não», che adesso è amplificato. È qualcosa da scoprire e da riformulare. La mia speranza è che la pandemia possa cambiare, magari anche solo un po’, il corso della discussione: parlare meno dell’austerità fiscale e delle riforme e pensare al tema dei diritti sociali, agli obblighi dello Stato, agli auspici di una società. La metafora della guerra è usata continuamente: la «guerra» contro il virus; se fosse vera, ammettiamolo, avremmo una guerra mondiale. Questo non potrà fornire una nuova percezione politica, un’attenzione ad alcuni aspetti che nel corso degli anni sono stati esclusi? Faccio un esempio: dopo la pandemia, per un candidato alla presidenza sarà molto difficile vedere la salute pubblica solo come una spesa fra le altre. Mentre Boris Johnson parla sempre da un pulpito con le parole «Stay home, protect the NHS», il Ministro Mandetta parla ogni giorno al paese con il nome del nostro SUS (Sistema unificato di Salute) scritto sul suo giubbotto e sullo sfondo. In un momento di emergenza, non è il mercato che ci salverà. Qualcuno sarà ancora disposto a distruggere un sistema sanitario pubblico, gratuito e universale che, nonostante i suoi problemi, è l’unico meccanismo di difesa rimastoci in una situazione di emergenza sanitaria? Ne dubito, e penso che, mutatis mutandis, questo ragionamento sarebbe valido anche per pensare alla questione del reddito di base e dell’intera rete di protezione sociale per i cittadini, due elementi essenziali in questo momento. La discussione politica dovrà essere diversa dopo la pandemia.

 

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