mercoledì , 11 Dicembre 2024

UK: il più grande sciopero di sempre (nella storia dell’Istruzione superiore) – Parte II

di GABRIELLA ALBERTI

Qui la prima parte

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…Un altro punto discusso dalle donne durante lo sciopero è stato, com’era prevedibile, quello della crescente precarizzazione nel settore dell’Istruzione superiore: mentre molti lavoratori precari divisi tra ricercatori pagati a ore, con contratti a tempo determinato, oppure professori a contratto e professori associati hanno partecipato attivamente ai picchetti, alle assemblee e ad altre iniziative, molti altri si sono comprensibilmente chiesti se le lotte per la pensione dei colleghi con più anzianità, meglio pagati e con un contratto stabile sarebbero sfociate in una forma di solidarietà diretta verso di loro in quanto lavoratori precari. Le pensioni non riguardano solo le categorie protette o chi sta per ritirarsi dall’attività lavorativa; al contrario, chi ha più da perdere dalle attuali riforme pensionistiche sono proprio quelli che ancora non riescono a versarsi i fondi per la pensione. Le pensioni riguardano il futuro di tutti e il diritto a essere tutelati quando si raggiunge un’età avanzata, ovvero la fase in cui si è più fragili in assoluto nella vita, quella precaria nel vero senso della parola. Mentre abbiamo visto molti lavoratori precari coinvolti per lo più sulla base di un principio di solidarietà e lo sciopero funzionare come un’opportunità e un trampolino per sviluppare e organizzare la voce della forza lavoro precaria delle università, in varie forme, questi lavoratori non hanno ancora percepito abbastanza supporto dai leader dei sindacati. La cassa di solidarietà per lo sciopero organizzata a Leeds ha, al contrario, lanciato un messaggio chiaro di sostegno a questi lavoratori oltre che di riconoscimento della loro condizione di grande vulnerabilità. Sfortunatamente, non è stato possibile proteggere altre ‘categorie’ dall’attacco al loro diritto di partecipare alla lotta, questa volta per via del loro status di migranti nel Regno Unito.

… e i migranti

È proprio nel campo della mobilità e delle migrazioni che, arrivati alla fine della prima fase della vertenza, emerge una delle contraddizioni più evidenti di questo sciopero. Solo negli ultimi giorni di questo sciopero il personale internazionale con permesso di soggiorno per lavoro di tutte le università britanniche coinvolte nella contesa è stato messo al corrente dai sindacati o dal dipartimento di Risorse Umane delle rispettive università che il loro diritto a prendere parte a ulteriori azioni avrebbe potuto essere ostacolato dal fatto che il loro sponsor e il permesso di lavoro dipendono dal non superamento di un tetto di giorni di «assenza non autorizzata», dopo i quali il datore di lavoro è tenuto a segnalare all’ufficio di Affari interni i giorni di assenza non retribuita (la direttiva afferma: «Il personale con un permesso di soggiorno di secondo livello deve essere a conoscenza del fatto che lo sponsor è tenuto a segnalare le assenze non autorizzate (come gli scioperi) se proseguono per più di 10 giorni di seguito. Ciò non implica che il suo permesso sarà revocato, ma solo che lo sponsor deve informare il dipartimento governativo di riferimento»). La segnalazione da parte dello sponsor mette quindi a rischio di espulsione il personale internazionale nel caso in cui i giorni di assenza non retribuita superino il tetto concesso. Tuttavia, il regolamento sindacale aggiunge: «dare indicazioni generali non è opportuno in quanto il personale con permesso di secondo livello sotto patrocinio non può neanche assentarsi dal lavoro senza essere pagato per più di quattro settimane lavorative (oltre che per maternità, paternità, congedo parentale condiviso o malattia di lungo corso) in totale, in un anno compreso tra il 1 gennaio e il 31 dicembre. Se, per altre ragioni, si è già usufruito di un periodo di assenza non retribuita, andrà valutato se nella propria posizione uno sciopero rischi di far oltrepassare il tetto di assenze consentito». Anche essere al di sotto della soglia minima di guadagno connessa alla tipologia del proprio permesso può divenire un’ulteriore barriera contro lo sciopero. Al momento, quelle soglie si attestano a 20.800£ e 30.000£ per specifiche occupazioni di secondo livello e il sindacato ha espresso la propria preoccupazione per il fatto che «un piccolo numero di scioperanti possa essere già colpito da questo limite, senza saperlo, dopo 14 giorni di assenza dai propri obblighi lavorativi». Nonostante non si abbia ancora notizia di casi del genere, il solo fatto di vivere sotto minaccia di espulsione e di essere messi ancora una volta ‘ai margini’ è rivelatore di qualcosa che non può essere definito come una mera eccezione alla regola. Al contrario, tutto questo mette a nudo il grande non detto di tutta la vertenza: l’estrema fragilità del diritto di sciopero nel Regno Unito. Poiché non c’è nessuna legge che difenda il diritto di sciopero in sé, solo se si partecipa a una vertenza legalmente indetta li può proteggere dalla minaccia di essere licenziati (in altre parole, gli scioperi a gatto selvaggio vengono puniti con il licenziamento). Mentre il fatto di esser parte di un sindacato fornisce ai singoli lavoratori solo alcune garanzie in termini di diritto a essere tutelati in tribunale in caso di azione disciplinare del datore di lavoro dovuta alla partecipazione a uno sciopero, secondo la normativa britannica non sembra esserci alcuna tutela legale assoluta del diritto di sciopero in sé, come nei sistemi in cui le relazioni industriali non sono regolamentate ma soggette a contrattazioni non vincolanti[1]. Il più grande sciopero di sempre nelle università britanniche ha dunque portato in primo piano quanto sia facile perseguitare i sindacati, e nell’immediato questa è la cruda realtà percepita dai meno tutelati di tutti: i lavoratori migranti. Nel caso di non-cittadini sottoposti ai controlli dell’immigrazione, ovvero tutti i migranti che provengono da fuori dall’UE (per ora! Ma dopo la Brexit?!) e che devono rinnovare il permesso di soggiorno nel Regno Unito, diventa evidente il fatto che il godimento dei loro diritti collettivi sia vincolato alla dipendenza economica da un permesso per lavoro e da uno sponsor. Questa ‘lotta dentro la lotta’ testimonia, nella maniera più brutale possibile, qualcosa che affermiamo da tempo, ovvero che il «lavoro migrante» è paradigmatico della precarizzazione del lavoro in generale. In questo caso il ricatto è divenuto ancor più tangibile in quanto il permesso di soggiorno ha costituito un ostacolo alla partecipazione a un atto di tradizionale rifiuto da parte dei lavoratori: l’astensione legale dal lavoro. Il nostro sciopero ha messo in primo piano la violenza cinica di una legge che non teme di creare apertamente differenze tra cittadini e migranti su una questione dirimente come quella del diritto di sciopero, il quale fino a questo momento sembrava essere protetto almeno sulla carta in termini di principio di uguaglianza dei diritti sociali collettivi all’interno dell’UE. Purtroppo il sindacato nazionale ha dimostrato di non tenere in considerazione questo punto e di non essere preparato a tutelare questi lavoratori. Solo negli ultimi giorni alcuni sindacati di base hanno cominciato a fornire una guida per coloro che intendono prender parte a nuovi scioperi.

Il locale e il nazionale: rivendicare il sindacato!

Ironicamente, le tensioni attorno alla democrazia interna del sindacato sul piano locale si sono trasferite su quello nazionale determinando una nuova fase della lotta. Il 28 marzo i delegati di tutte le università in sciopero si sono incontrati a Londra per riportare come le loro sezioni locali volevano rispondere alle ultime proposte avanzate da UUK. In un primo tempo, queste ultime sembravano segnare un passo in avanti nella misura in cui promettevano l’apertura di un «tavolo di esperti» unitario che avrebbe condotto a una nuova raccomandazione sulla stima delle pensioni del novembre 2017 (che era stato l’innesco della controversia) e a una sospensione di ogni riforma fino ad aprile 2019. I lavoratori si sono però resi subito conto che l’offerta non conteneva alcuna garanzia certa o sostanziale: nessuna rassicurazione sul principio di nessun danno e nessuna garanzia che il risultato finale non si rivelasse un peggioramento della situazione attuale.

La mancanza di chiarezza sulle tempistiche della commissione, al fine di influenzare il processo reale di valutazione, suggerisce che c’era il modo di introdurre altre misure che non fossero quella del sistema a «indennità prestabilite». Invece di raccogliere le molte modifiche ricevute e ripresentare le istanze al tavolo, l’esecutivo nazionale ha deciso di scavalcare il processo democratico delle sezioni locali e di chiamare tutti i membri al voto, chiedendo di accettare o respingere la proposta. Mentre la decisione è stata giudicata prematura da molti che credevano che questo potesse essere solo l’inizio di una negoziazione più fruttuosa sul piano sostanziale, il segretario generale della UCU non ha esitato a esprimere il proprio parere, invitando ad accettare la proposta. Questo gesto è stato percepito da alcuni come un tradimento della democrazia interna al sindacato. Eppure gli iscritti al sindacato non si preoccupavano tanto del fatto di essere stati del tutto «smobilitati» – dato che la nostra lotta era arrivata a un punto di non ritorno – quanto piuttosto di essere stati presi in giro.

Avanti o fermi?

Il 13 aprile si è chiuso lo scrutinio e la maggioranza ha votato per accettare l’offerta del UKK del 23 marzo e per tornare a lavorare, dopo diversi incitamenti del segretario generale a credere nella buona fede della parte datoriale: «Gli iscritti hanno partecipato con numeri da record alla consultazione e la maggioranza si è chiaramente schierata a favore dell’accettazione. Il sindacato ha fatto molti passi avanti da quando a gennaio sembrava che stesse per passare la proposta dei datori di lavoro di introdurre il sistema pensionistico a “contributi prestabiliti”. Ora abbiamo un accordo per andare avanti in maniera congiunta, da un lato un’ulteriore valutazione dell’USS, dall’altro l’impegno dei datori di lavoro a garantire un sistema di indennità definite. USS, l’ente di controllo e il governo ora devono assicurarsi che UCU e UUK abbiano lo spazio per implementare in modo efficace l’accordo». Il risultato ha mostrato una certa divisione tra i membri (Sì al 64% e No al 36%), ma il voto ha comunque espresso una maggioranza che ha voluto seguire l’indicazione della leadership e ha voluto dare un parere positivo rispetto alle vittorie ottenute (a mio avviso un semplice rinvio del problema fino ad Aprile 2019, con una semplice e non meglio definita «promessa» dell’università di assicurare «indennità definite» grosso modo analoghe a delle garanzie pensionistiche)[2].

L’affluenza al voto è stata del 63,5%, una percentuale nella media se non maggiore della media, quindi la «maggioranza silenziosa» ha parlato (a metà). Mentre tutti gli scioperi previsti sono stati sospesi la UCU sta formalmente mantenendo il mandato per lo sciopero (che comunque scadrà a giugno, secondo la nuova draconiana legge sindacale del Regno Unito, che richiede una nuova consultazione con un’affluenza di almeno il 50% degli iscritti), fino a che anche i responsabili del nuovo piano pensionistico e gli enti di controllo abbiano accettato l’accordo.

Tutte le proteste, che fossero scioperi o meno, sono state così annullate, lasciando molti aderenti al sindacato, soprattutto quelli più critici rispetto all’offerta, in uno stato di sospensione e incertezza riguardo gli effettivi risultati di una negoziazione che sembra essere stata gestita principalmente a porte chiuse (o al telefono!) direttamente dal segretario generale e dai rappresentanti della UUK, senza seguire un chiaro processo democratico in cui i negoziatori avrebbero dovuto costantemente rendere conto del proprio operato. Questa crisi della democrazia sindacale contrasta precisamente con le massicce mobilitazioni di base che si erano viste durante i picchetti, cosa che rappresenta forse l’aspetto più rilevante del più grande sciopero universitario di sempre.

Ciò che resta in sospeso non è solo lo sciopero, ma anche un serie di interrogativi sul funzionamento interno del sindacato in queste ultime fasi della negoziazione, che ha rivelato e confermato il suo «approccio accondiscendente» per una soluzione rapida e amichevole della disputa, insieme a un debole impegno ad ascoltare le più ragionevoli e probabilmente più rigorose proposte sulle condizioni da accettare, portate avanti dalla base.

Questa può essere la fine di una fase, o forse un momento di sospensione all’interno di un processo che andrà avanti. Tale rivitalizzazione sindacale e reinvenzione del conflitto nel contesto politicamente moribondo dell’università britannica sono gravide di conseguenze, che vanno molto oltre le questioni riguardanti il «pane quotidiano» da cui tutto era iniziato. I tagli pensionistici sono infatti al centro di un più ampio processo di finanziarizzazione del nostro futuro e sono l’altra faccia della precarizzazione delle nostre condizioni. Le pensioni riguardano la riproduzione sociale e lo spostamento del rischio dal datore di lavoro al lavoratore tramite il mercato è un tipico modo di ridimensionare i «costi della riproduzione sociale» ed esternalizzarli a carico del lavoratore (e della sua «insicurezza»).

Cosa ancor più rilevante, nel frattempo i gruppi più marginalizzati nel movimento sindacale e nelle nostre università si sono fatti avanti: donne migranti, ricercatori precari, studenti lavoratori che fino ad ora non avevano avuto voce nel sindacato universitario. I nuovi membri dei comitati sindacali locali (recentemente rieletti) sono principalmente donne e lavoratori internazionali che vengono da paesi esterni all’Unione Europea.

Quindi, nonostante questo senso di sospensione, ci sono nuovi conflitti ad aspettarci: l’Università delle Alternative (alternativa ai nostri campus neoliberali, burocratizzati e marketizzati); la battaglia per la libertà di movimento e di sciopero per lo staff internazionale e migrante; la rinnovata sfida all’organizzazione universitaria «snella» e repressiva, in cui molte più persone sono consapevoli della forte unilateralità del processo decisionale e rivendicano una governance democratica. Questi processi si sono sviluppati in maniera organica e non si fermeranno, perché gli scioperanti hanno dovuto sopportare non solo pressioni economiche e psicologiche, ma hanno dovuto porsi un interrogativo di lunga data, cioè come si fa a scioperare quando lo sciopero colpisce principalmente chi ami, coloro con cui vuoi cambiare il mondo.

Nonostante il management delle università stia cercando con tutte le sue forze di trasformare gli studenti nella controparte di un contratto, o di renderli meri agenti in una cinica transazione economica, privi di passione per la conoscenza e guidati da una arida misurazione dei risultati dell’apprendimento, e nonostante alcuni siano venuti qui pagando ingenti somme o indebitandosi, per sfruttare a proprio vantaggio questa «fabbrica di titoli accademici», noi vogliamo ancora cambiare loro e noi stessi tramite l’esperienza della lotta e dell’apprendimento, trasformando le nostre università in un luogo di apprendimento egualitario, giusto e liberato.

Così, lo sciopero è stato sospeso. Per qualche tempo. Ora si torna a un diverso tipo di lavoro, tenendo d’occhio da vicino il sindacato, la sua leadership e le nostre strutture, come dicono i miei compagni di Leeds. E comunque, molte delle cose a cui questa lotta ha dato il via, non torneranno alla normalità: una nuova socialità nell’università neoliberale; processi di auto-organizzazione tra colleghi migranti e precari; il rendersi conto che astenersi dal lavoro ha degli effetti reali; il sostegno inatteso da parte degli studenti; il bisogno di mettere in discussione la mancanza di democrazia nella governance delle nostre università; il realizzare che non può esserci democrazia senza partecipazione e senza mettere costantemente in questione chi vorrebbe pacificare il nostro dissenso.

[1] Nei cosiddetti «sistemi volontari di relazioni industriali» che vigono in alcuni Paesi europei come la Gran Bretagna e la Svezia, gli accordi collettivi non sono legalmente vincolanti, il che può divenire un problema per i lavoratori in periodi di indebolimento della forza dell’organizzazione del lavoro industriale, mentre in contesti di maggior potere contrattuale per il lavoro questo può significare l’ottenimento di condizioni migliori di quelle garantite dagli standard minimi degli statuti a livello di settore o a livello nazionale.

[2] Secondo quanto dichiarato dal quartier generale del sindacato nazionale: “I datori di lavoro hanno anche dichiarato di non avere intenzione di tornare alla loro proposta originaria di porre fine alla pensione garantita, impegnandosi chiaramente a garantire indennità definite e a discutere una ampia serie di questioni sollevate dalla UCU, che includono equità inter-generazionale, equiparazione al Teachers’ Pension Scheme e ruolo del governo nel garantire supporto per la USS” Peccato che il governo abbia già dichiarato di non volersi prendere alcuna responsabilità su nessun punto del piano e che l’equiparazione al TPS sia lungi dall’essere definita!

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