domenica , 6 Ottobre 2024

L’ombra del contraccolpo: la sfida di Black Lives Matter

Mometti_Black Lives Matterdi FELICE MOMETTI

Resisting the backlash, resistere al contraccolpo. Questa sembra essere, negli ultimi giorni, la principale preoccupazione dell’arcipelago di associazioni, collettivi e singoli individui che si riconoscono in Black Lives Matter. L’uccisione di cinque agenti di polizia a Dallas e di tre a Baton Rouge – per mano di soggetti isolati che non avevano rapporti e connessioni con il movimento che si è mobilitato nelle ultime settimane – ha scatenato una campagna mediatica e politica che ha come obiettivo quello di stringere ancor di più le maglie della repressione e porre fine alle proteste. Le diverse narrazioni razziste, con vari gradi di tossicità, sono fortemente veicolate dai media mainstream e dagli ambienti politici che gestiscono il potere reale nella società americana. Secondo alcuni, Black Lives Matter sarebbe il riflesso speculare del Ku Klux Klan perché opera una «discriminazione inversa» verso i bianchi, minando in questo modo la sicurezza del tessuto sociale che non può essere garantita se non dalla polizia. È la narrazione privilegiata del circuito politico che si sta aggregando, o tenta di farlo, attorno alla candidatura di Trump, delle lobbies delle armi rappresentate dalla National Rifle Association, di reti televisive come la Fox. Se le vite dei neri contano, allora contano allo stesso modo anche le Blue Lives, e cioè le vite delle divise blu, della polizia. È il tentativo, finora di scarso successo in termini di mobilitazione ma molto più efficace dal punto di vista comunicativo, di mettere su uno stesso piano le morti di cittadini afroamericani e quelle degli agenti di polizia a prescindere dai ruoli nelle strategie di «contenimento» sociale e di disciplina dei comportamenti – soprattutto dei giovani neri – e a prescindere dai contesti politici, dalle gerarchie urbane e dalla militarizzazione dei territori con un elevato degrado sociale. Un racconto di questo genere incide in modo trasversale, bipartisan, perché offusca completamente la reale natura dei meccanismi di riproduzione delle diseguaglianze di reddito e di accesso a un welfare elementare. Secondo altri, poi, All Lives Matter: tutte le vite contano allo stesso modo, che siano di afroamericani, bianchi, latinos, asiatici. Lo scontro in atto è così derubricato a una questione tra la polizia e Black Lives Matter, che avrebbero entrambi commesso degli eccessi. Certo la polizia, che dev’essere riformata, ha maggiori responsabilità, ma Black Lives Matter non comprende che nell’America di oggi i diritti sono garantiti in termini universali e che, alimentando la conflittualità sociale con pratiche illegali come il blocco delle grandi vie di comunicazione, si toglie spazio alla politica istituzionale, la sola che può affrontare la situazione. È il ragionamento che sta alla base delle convinzioni dei liberal del Partito democratico e di quei settori genericamente progressisti.

A tre anni dalla sua nascita, Black Lives Matter è chiamato probabilmente alla prova più impegnativa della propria esistenza. Come non farsi chiudere nell’angolo della criminalizzazione o, anche se diverso, dell’assorbimento da parte qualche «storica» associazione per i diritti degli afroamericani come ad esempio il National Action Network, da sempre nell’orbita del Partito democratico. Black Lives Matter in questi tre anni è sicuramente cambiato. Da un hashtag di twitter e da un profilo di facebook, dopo la rivolta di Ferguson nell’agosto di due anni fa, ma soprattutto dopo le proteste di Baltimora dell’aprile dello scorso anno, è progressivamente diventato un luogo in cui si riconoscono associazioni e collettivi politici e sociali nati negli ultimi anni, composti per la maggioranza da giovani afroamericani e associazioni di latinos. Nell’ultimo anno è aumentata anche la presenza di bianchi, in gran parte a titolo individuale. Un luogo, appunto, non un’organizzazione e forse nemmeno un movimento sociale che presenti una certa uniformità. La composizione, i rapporti tra gli attivisti, i metodi decisionali e i modi di praticare la protesta e il conflitto variano da città a città, a volte anche tra i diversi gruppi nella stessa città, come ad esempio a New York. Una situazione che, appena dopo la rivolta di Ferguson, si era tentato di affrontare con le giornate di Ferguson Action nell’ottobre del 2014 e con la discussione proseguita nel mese successivo. Discussione improvvisamente troncata alla fine di dicembre, dopo l’uccisione di due poliziotti a New York da parte di un afroamericano con la motivazione di «pareggiare» il conto dei morti. Allora il contraccolpo è stato letale. Il comunicato di Black Lives Matter di condanna dell’episodio non raccolse tutti i gruppi e le associazioni che erano stati protagonisti nelle giornate di Ferguson e in seguito. Solo dopo la rivolta di Baltimora, suscitata dall’ennesimo omicidio di un afroamericano da parte della polizia, lo «strumento» Black Lives Matter è tornato a essere centrale nelle mobilitazioni anche per far fronte a gruppi come The Nation of Islam, che volevano monopolizzare la scena politica. Ora, sulla base di queste esperienze, i timori che i fatti di Dallas e Baton Rouge incidano sulla tenuta di un movimento così articolato sono molto forti. Probabilmente, però, la questione vera è più profonda e riguarda sia le diverse caratterizzazioni presenti all’interno di Black Lives Matter in merito alla natura del razzismo negli Stati Uniti, sia i modi e le pratiche dell’agire conflittuale. C’è un settore di attivisti che pensa il razzismo nella società americana in termini «classici»: le discriminazioni e le uccisioni di neri sono dovute essenzialmente a un’ideologia «suprematista» bianca presente soprattutto in una polizia di fatto militarizzata. Una situazione che ricorda, così argomentano, la stagione delle lotte per i diritti civili degli anni ’60 e quindi le modalità di azione non-violenta dovrebbero rifarsi a quell’esperienza. Diversamente la pensa un settore del movimento che stabilisce un rapporto quasi diretto tra razzismo socio-economico e «l’incarcerazione di massa» della popolazione afroamericana, con tutto il corollario tragico delle centinaia di morti che hanno luogo ogni anno. Il discorso è articolato in modo ancora differente da gruppi di Black Lives Matter che parlano di razzismo istituzionale e di nuove forme di razzismo che fanno leva sulla precarietà lavorativa ed esistenziale, sulla gentrificazione e sul controllo militare dello spazio urbano. Secondo questi gruppi, rifarsi in termini astratti a dei diritti universali formalmente garantiti a tutti diventa parte integrante di una narrazione di stampo razzista. Black Lives Matter è quindi attraversato da una doppia necessità: rimanere politicamente e praticamente in campo in modo autonomo per non farsi marginalizzare da una campagna razzista virulenta e, al tempo stesso, trovare forme di ricomposizione o coabitazione interna, anche provvisorie, per proseguire un percorso di consolidamento sociale e conflittuale. Una sfida non da poco.

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