venerdì , 29 Marzo 2024

I territori possono produrre jihadismo? Le banlieue, Daesh e il terrore

Ban_parisdi CAROLE DES MERES – Parigi

Oltre ad aver effettivamente portato all’instaurazione di un clima di terrore e una reazione violenta da parte dei militari francesi, la risposta agli attentati dello scorso 13 Novembre a Parigi ha profondamente toccato il Belgio e in particolare il comune di Molenbeek, indicato come «territorio-incubatore» di jihadisti. È proprio in quel comune, infatti, che un terrorista francese risiedeva in attesa dell’attentato. A seguito di questa scoperta le autorità di Francia e Belgio si sono affrettate a scaricare l’una sull’altra non solo la responsabilità di aver incubato gli attentatori, ma anche quella di proporre qualche soluzione.

Media e politici francesi sono stati molto cauti nell’affermare pubblicamente una relazione tra banlieue e terrorismo. Nessuna cautela invece in Italia, dove tra talkshow e interventi pubblici alla Salvini, accompagnati da alcuni pseudo-giornalisti – di «Libero» come del «Manifesto» – l’idea che sia necessario «risanare le periferie per sconfiggere il terrorismo» ha stabilito con chiarezza un legame tanto scontato quanto problematico tra un territorio specifico e un problema che gli «apparterrebbe», un problema cioè dei suoi residenti, che sarebbero il prodotto del luogo in cui risiedono. Detto altrimenti, il fatto che alcuni jihadisti fossero banlieuesard viene immediatamente tradotto nella capacità intrinseca delle banlieue di produrre jihadisti. Come uno spazio periferico urbano possa produrre il «problema jihadista» è meno scontato di quanto ci si possa immaginare, perché dovremmo necessariamente pensare allo spazio come a un attore attivo e autonomo nella produzione di un fatto. Bisogna insomma domandarsi: che cosa può trasformare le periferie in spazi potenzialmente «jihadizzanti»?

Disoccupazione, povertà, gentrification, scarsa integrazione, esclusione sociale, degrado fisico: sarebbero questi gli ingredienti che, quando spazialmente concentrati, creerebbero il «problema-jihadista». Infatti, è solo quando questi elementi paiono concentrarsi in specifici territori che tutto lo spazio tende a divenire problema, oltre che riproduttore stesso di problemi. Su un piano politico, affermare che dei territori producano jihadisti può avere diverse conseguenze. In primo luogo rischia di aprire la strada a una gestione straordinaria di questi territori, in nome di una prioritarizzazione di quegli spazi, ovvero di un processo che li fa divenire priorità da governare, nonostante questa primazia sia politicamente prodotta e fondata quasi esclusivamente su un approccio securitario che rischia di condurre a inedite forme di esclusione e a violenze a opera dello Stato stesso. La Francia, con i suoi «quartieri sensibili», ovvero con le sue aree ad alta concentrazione di problemi socio-economici, nei confronti delle quali lo Stato finanzia delle politiche fondate su un principio di discriminazione positiva (dare di più a chi ha meno), ha riservato una particolare attenzione a questi territori, un’attenzione paternalistica, compensata da una gestione securitaria dai tratti violenti, razzisti e repressivi a cui sono dovute molte delle rivolte degli ultimi decenni.

In secondo luogo, il rischio, valido tanto nel contesto italiano, quanto in quello francese, riguarda il modo in cui la questione «quartiere produttore di jihadisti» viene accolta da chi abita quegli spazi. Definire un luogo attraverso un problema, infatti, ha come esito certo che chi ci vive dovrà necessariamente fare i conti con questo problema e il modo di farlo dipenderà in gran parte da come ci si confronta con esso. Detto altrimenti, se il problema jihadista diviene per qualcuno il problema jihadista-musulmano, il rischio è che scoppino sacche di rabbia laddove non era necessariamente presente o non era presente in quella forma. È per questo secondo motivo, in particolare, che la Francia, almeno a parole, tende a non dar eccessivo spazio a questa relazione causale tra spazi specifici e i problemi che li attraversano.

Infine, il rischio è quello di culturalizzare e spazializzare un problema, quello di Daesh, con il solo risultato di deresponsabilizzare totalmente altri attori centrali nel processo di affermazione del «problema-jihadista» e di alimentare l’illusione che il problema possa essere governato semplicemente circoscrivendolo. Se lo spazio e la cultura di cui la banlieue sarebbe incubatrice (una cultura definita come poco incline all’integrazione) divengono le matrici del divenire jihadista, tutto il resto risulta irrilevante poiché apparentemente incapace di cambiare il destino che il territorio-trappola riserva ai suoi giovani, discolpando ogni altro possibile soggetto dall’esito inevitabile. Allo stesso tempo, però, attribuendo una geografia certa alla produzione di jihadisti, si tenta di affermare una capacità di gestione del rischio da parte della Nazione, che è prima di tutto individuazione del rischio stesso.

Si deve aggiungere che, cosi facendo, si nega ogni capacità critica e (mal)pensante a questi jihadisti, facendone dei soggetti culturalmente e geograficamente problematici alla nascita, al punto che l’influenza delle origini spaziali, oltre a definire il problema di cui sarebbero portatori, detta addirittura la direzione assunta dalla «patologia». Ciò emerge dalle parole dello stesso sindaco del comune di Sens, a 100 Km da Parigi, da ieri sottoposto a coprifuoco a causa del ritrovamento di alcune armi, secondo cui anche i gusti criminali dei suoi banlieuesard dipenderebbero dal fatto di essere geograficamente prossimi a Parigi e ai problemi delle sue banlieue («una delinquenza più vicina a quella della regione parigina che a quella delle altre città di provincia»).

Per quanto anche la Francia non sia immune da questa lettura spaziale del jihadista, è altrettanto vero che in Italia il dibattito che lega periferie e terrorismo è nettamente più evidente. Il motivo potrebbe essere di natura storica e dipendere da esperienze diverse. Lo Stato francese ha un’esperienza di ormai quarant’anni nelle politiche prioritarie dirette a specifiche banlieue ritenute sensibili. La Politique de la Ville francese, che indica un corpus di leggi, programmi e progetti rivolti ai quartieri «in difficoltà» con il fine di «rivalorizzarli», già dagli anni ‘80 ha stabilito un legame tra territori periferici, devianza e migrazioni, duramente criticato e via via modificato, che rende difficile l’affermarsi di un’ulteriore relazione causale tra banlieue e terrorismo jihadista senza che questa venga a priori cassata. Le conseguenze di queste prioritarizzazioni e di queste causalità apparenti e costruite, infatti, si sono rese visibili nei conflitti nati a seguito degli scontri tra forze dell’ordine e giovani residenti dei comuni più esterni che hanno animato le strade francesi nel 2005, durante i quali dei giovani banlieuesard persero la vita innescando una reazione di massa da parte dei residenti contro le violenze subite. Allo stesso tempo, è altrettanto evidente che per quanto nessuno si esprima in merito a questa relazione, sono soprattutto le banlieue a essere oggetto delle perquisizioni recenti delle forze dell’ordine parigine, mentre molta meno attenzione pare essere riservata al centro città. Mancherà quindi una presa di posizione ufficiale e politica, ma certamente anche la Francia tende a fare dei suoi margini urbani il centro dei suoi problemi.

Una localizzazione totale della questione jihadista mette volutamente in ombra gli aspetti globali entro cui questa si struttura realmente, gli aspetti finanziari, economici e spesso deterritorializzati che attraversano e definiscono il terrorismo jihadista. È politicamente comodo pensare che i Daesh siano frutto dello scarso effetto delle politiche di integrazione nei confronti di un quartiere, piuttosto che connettere le questioni micro-territoriali con le dinamiche globali per cercare di comprendere quelle traiettorie per nulla lineari in cui il problema jihadista si forma. Ciò che questi terroristi ci hanno fatto chiaramente comprendere, infatti, è che loro non sono frutto di un «brutto posto», contro il quale vogliono vendicarsi, ma che la loro visione del terrorismo è globale e sceglie i suoi obiettivi attraverso una ricostruzione complessa delle relazioni di potere, una ricostruzione che tiene assieme singoli territori locali, esperienze individuali di sfruttamento, precarizzazione e razzismo e geografie mondiali. Un terrorismo che cresce all’interno di un sistema fondato sui confini e sul governo della mobilità e ne fa un enorme punto di forza su cui costruire la propria iniziativa anonima e violenta.

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