martedì , 19 Marzo 2024

Creare e organizzare controegemonia in Europa

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Undici luglio

Ci vediamo l’undici luglio. A fare cosa? Si suppone che l’appuntamento non serva a pareggiare i conti per altre manifestazioni che non sono andate proprio benissimo. Ci vediamo l’undici luglio per «dimostrare» che l’opposizione sociale al regime del salario non accetta l’ulteriore intensificazione dei processi di precarizzazione, di espropriazione e di austerity. Descrivere correttamente la situazione non significa che si sappia davvero che cosa fare contro la situazione. Oltretutto la pessima situazione attuale non è nemmeno così difficile da descrivere. La domanda è, allora, con chi ci vediamo l’undici luglio? Non basta, infatti, registrare che le condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone in Italia sono sulla soglia e, in molti casi, sotto la soglia della tollerabilità quando non della sopravvivenza. Poiché questa condizione non è ormai una novità, la domanda che s’impone è la seguente: perché migliaia di persone dovrebbero considerare quella scadenza come un momento politicamente significativo in grado di modificare in qualche misura la loro condizione? Perché precarie, operaie e migranti dovrebbero fidarsi di un movimento del quale tutto si può dire tranne che goda ottima salute? Perché i movimenti italiani ed europei dovrebbero puntare sul movimento? Se l’undici luglio non vogliamo vedere l’istantanea dei militanti e degli attivisti del movimento, forse un ragionamento è meglio farlo ora.

L’austerità non è finita, ma almeno a parole ora tutti sono contrari all’austerity. Manca poco che anche la Signora Merkel e persino l’indimenticato Herr Schäuble dichiarino che non è mai piaciuta nemmeno a loro. Ora tutti possono essere contro l’austerity, perché ormai ha prodotto i suoi effetti. Come una guerra mondiale, l’austerity ha distrutto risorse umane e materiali, riaffermando violentemente le posizioni che le leggi naturali del capitalismo prevedono per tutti e per ciascuno. L’austerity ha prodotto le devastazioni di una guerra. L’ha capito Renzi che ha inaugurato un linguaggio da epoca della ricostruzione, pieno di speranza, di grandi aspettative e di buoni sentimenti. Il comprensibile e profondo desiderio di veder finire la guerra dell’austerità gli ha garantito un’apertura di credito di massa. Questo è il significato profondo delle elezioni in Italia. Si può celebrare speranzosi l’astensionismo, ma il significato politico delle elezioni in Italia rimane questo lo stesso. Ciò non significa che quanto dice Renzi sia vero, ma è stato creduto. D’altra parte non è nemmeno vero che chiunque raggiunga il 40% dei voti possa rifondare la DC. C’è di diverso che nessun partito può pensare di rappresentare nel suo complesso questa società mobile e globale, senza istituzioni interne credibili, cioè senza parroci, sindacati e partiti anche comunisti in grado di stabilire la continuità sociale, né tanto meno di coincidere con lo Stato. Meglio lasciare la pigrizia politologica ai giornali e alle trasmissioni televisive e, sapendo che la legittimazione politica non si misura solo in termini di consenso elettorale, chiedersi che cosa significhi per i movimenti il connubio tra un’ideologia della ricostruzione e un regime del salario ancora più feroce e oppressivo.

Che cosa succede se la prima produce comportamenti e aspettative in grado di fare accettare il secondo, presentandolo come il prezzo necessario per un maggior benessere? Che cosa succede se il tempo del benessere viene ancora una volta dilatato a favore del profitto? Che cosa succede se la certezza promessa e creduta è il lavoro a ogni costo? Se il contesto sta cambiando – e il contesto sta cambiando! – la nostra azione non può rimanere uguale o peggio indifferente. Noi non abbiamo una coscienza di classe da trasmettere ai proletari che hanno votato Renzi. Forse non ne abbiamo abbastanza o forse il problema non è la coscienza. Non abbiamo nemmeno una rabbia talmente indifferente nella quale trovare la certezza della nostra azione. Il benevolo fantasma delle due società visita periodicamente il movimento, per rassicurarlo che comunque c’è una parte giusta ed è quella da cui stiamo noi. Un faticoso dibattito e molte analisi avevano finalmente evidenziato che la precarietà non è solo un fatto generazionale, che non riguarda solamente una parte, ma è ormai diventata una condizione generale e globale di tutto il lavoro. Ora si torna invece alla contrapposizione tra garantiti e non garantiti, che riporta radicalmente indietro nel tempo il discorso sulla precarietà, ricollocandolo lungo l’asse di un nesso del tutto obsoleto tra lavoro e diritti e della contrapposizione tra lavoro e non lavoro.

Europa prende i voti

Pensare il «sistema» come rigidamente strutturato in parti contrapposte semplifica in effetti le cose. È vero che c’è anche chi teneramente si ostina a vedere nel grillismo un movimento antisistemico, differente ma simmetrico alla propria rabbia. Sul piano locale il M5s ha perso perché ha sostenuto di voler continuare la guerra, dichiarando per di più che la sua era «la guerra santa» contro tutto il male esistente. Sul piano europeo la scommessa del M5s mostra invece la sua uniformità con la parte peggiore del sistema politico. Il cosiddetto euroscetticismo della destra europea non è altro che la pretesa di chiudere la guerra dell’austerità, riaffermando l’Europa come ordine degli Stati. Ogni Stato al suo posto e a ciascuno il suo Stato: onesto, ordinato, produttivo e feroce con chi viola i confini nazionali, locali, sociali, etnici o sessuali.

L’Europa deve invece essere costantemente assunta come presupposto di ogni ragionamento e di ogni iniziativa di classe. Ciò non significa che basti citarla all’inizio dei discorsi; significa che iniziative plausibili possono solo partire e tornare al contesto europeo. Lasciamo stare che c’è chi è assolutamente contro la rappresentanza dei movimenti in Italia, ma si entusiasma quando avviene in Spagna nella forma di un sostanziale radicalismo democratico. La lista Tsipras ha almeno individuato chiaramente l’Europa come terreno di scontro e indicato, molto meno chiaramente, il problema irrisolto del rapporto tra movimento e istituzioni. Più che dare una risposta, quella lista ci lascia ancora una volta di fronte alla necessità di processi e strutture che consolidino nel tempo un potere capace di trasformare le singole rivendicazioni in risultati duraturi, che traducano su un piano più vasto e incisivo l’espressione politica del lavoro fuori dalla fabbrica e dal territorio. D’altra parte, il successo di Syriza in Grecia – inspiegabile senza le mobilitazioni degli ultimi due anni in particolare ad Atene e Salonicco – ha avuto luogo in un contesto di attesa e di sostanziale calo dell’iniziativa dei movimenti e mostra perciò la non linearità di questi processi, e lo stesso si può dire della lista Podemos. Il terreno e il problema coincidono sul piano europeo e non possono essere separati. Tuttavia, visto che noi come molti altri non abbiamo intenzione di farci rappresentare da un paio di persone, per quanto valenti (del terzo rappresentante è meglio non dire), ci chiediamo come mai la lista Tsipras abbia avuto un risultato in definitiva insoddisfacente e anche nelle aree metropolitane, che dovrebbero essere il riconosciuto cuore pulsante del conflitto sociale, il successo renziano sia stato tanto consistente. Se si parlava con precarie e operai ci si sentiva dire chiaramente che mai e poi mai avrebbero votato i burocrati di sinistra che, per limitarsi agli anni della crisi, per loro hanno al massimo fatto i conti della cassa integrazione, degli stage o dei corsi di formazione. Se e quando Renzi andrà all’attacco di questa massa amorfa di funzionari di partitini di sinistra e di burocrati sindacali, l’impressione è che operai, precarie e migranti ghigneranno soddisfatti e non faranno niente per impedirlo, nonostante le strida di lesa democrazia che si leveranno ovunque. È la lotta di classe, bellezza. Una razza, una faccia: questi sono gli stessi che in Italia hanno popolato la lista Tsipras e che ora si stanno disputando le briciole di potere che potrebbe garantire.

Molte cose sono cambiate e probabilmente molte cambieranno: la vittoria di Renzi non è il frutto di un’illusione delle menti semplici comperate per 80 € al mese. La nuova fase della politica europea con la prevedibile fine dell’austerity come progetto ideologico complessivo segna un passaggio con il quale è necessario fare i conti. Non sarà solo Renzi a praticare un progetto egemonico che pretende di chiudere ogni spazio di scontro politico grazie a una visione del futuro fondata sulla promessa di porre fine all’incertezza. Lo Stato dell’Unione Europea, infatti, ha tutte le intenzioni di stabilire in continuazione le condizioni di base dell’accumulazione, compatibili con una produzione mobile, sempre pronta a riqualificarsi, considerando gli effetti sociali di questa impostazione come un prezzo necessario da pagare. Se la produzione è mobile, tocca ai lavoratori inseguirla. Questo New Deal non annuncia trent’anni di benessere, ma sostituisce la promessa del pieno impiego con la certezza della piena occupabilità. Si tratta di un progetto europeo da realizzare con atti concreti e rapidi, a partire dallo smantellamento dei sindacati e da un attivismo dello Stato, e ancor più probabilmente dell’Unione Europea, come mediatore di parte nella gestione dei conflitti che rischia di ostacolare sempre più decisamente anche l’iniziativa dei sindacati «conflittuali». L’Unione Europea funziona oggi come uno strumento mobile, difficile da controllare e pieno di contraddizioni, ma in grado di essere mobilitato in modo differenziale per imporre blitz capaci di mutare stabilmente gli equilibri all’interno degli Stati membri. Non si tratta tanto di un super-Stato rapace, quanto di uno strumento all’altezza delle politiche neoliberali nelle quali le istituzioni nel loro complesso giocano un ruolo decisivo, ma non esclusivo, nell’intervenire all’interno di contesti in rapido cambiamento. Per citare solo due esempi, la ristrutturazione greca e l’attivismo europeo negli Stati dell’Est, che da anni sono l’epicentro di una costante reindustrializzazione il cui carattere è immediatamente globale, sono due facce di questa trasformazione: non si può vederne una e dimenticare l’altra, anche se meno appariscente e più difficile da decifrare. Pensare alle politiche europee semplicemente come attuazione delle volontà del mercato è solo una mezza verità. È questo che rende oggi l’Unione Europea, e non solo l’Europa, un terreno di scontro mobile e di frontiera, del quale sarebbe esiziale pensare di potersi liberare abbattendolo come fosse un castello di carte. Da questo punto di vista l’affermazione dell’euroscetticismo rischia di funzionare più come spinta ad accelerare questa tendenza che come suo blocco.

Controegemonia

In questo quadro le geografie nazionali sono un punto di partenza piuttosto debole se l’obiettivo è di produrre un’organizzazione capace di essere espansiva, pensata su un piano strategicamente globale e perciò ben al di là dei confini delle fabbriche, dei quartieri, dei territori o dei grandi eventi, in cui un manipolo di ministri finisce per essere riconosciuto come la controparte dei movimenti, con buona pace della critica della rappresentanza. La geografia europea e le sue trasformazioni sono invece l’unico orizzonte possibile per articolare una politica controegemonica all’altezza del cambiamento che abbiamo di fronte. In questo contesto è necessario rafforzare le reti europee di iniziativa nonostante anche nell’esperienza più recente abbiano mostrato la propria insufficienza e talvolta persino la propria inconsistenza. Ciò vale evidentemente anche per la rete Blockupy della quale facciamo parte, che non può essere la palestra per la costruzione di percorsi organizzativi parziali, in sé assolutamente legittimi ma che rischiano di bloccare l’espansività dell’esperimento. Si tratterebbe invece di coinvolgere anche chi finora non ha ritenuto politicamente opportuno praticare quel piano europeo. Blockupy riuscirà a farsi vedere davvero l’undici luglio nella misura in cui il piano di lotta che propone penetra come opportunità e come problema dentro a quella scadenza e non tanto se Blockupy partecipa come una rete tra le altre.

A noi pare che sia il momento di attraversare i luoghi della militanza politica o delle organizzazioni di movimento per andare oltre i loro limiti attuali. Di fronte a un progetto egemonico che si sta delineando su scala europea si tratta di cominciare a pensare e a praticare percorsi di controegemonia con la prospettiva di strutturarli nel tempo. Ciò deve avvenire prima di tutto sul piano del discorso, abbandonando formule e riferimenti apparentemente sicuri. Se la nuova logistica europea si configura sotto il segno della mobilità, se l’Europa continuamente usa e disfa i confini degli Stati nazione per organizzare corridoi regionali e zone speciali di sfruttamento, allora è quanto mai urgente essere all’altezza di questo nuovo livello di complessità politica e istituzionale. Dentro a questo scenario qualsiasi coalizione per quanto aperta e qualsiasi pretesa polarizzazione del conflitto, o ricomposizione conflittuale che non mette in primo piano la produzione di un discorso controegemonico, resta un modo reattivo di contrapporsi che rischia di riconoscere esistenza al movimento solo quando lo scontro frontale con le istituzioni lo rende possibile.

Praticare la controegemonia non è possibile senza pensare dentro a un processo. Controegemonia significa prima di tutto produrre un discorso politico potente ed espansivo, capace di affermare in modo radicale che, se non sarà il piano istituzionale europeo e tanto meno quello nazionale a risolvere il problema, si tratta comunque di piani che intervengono in maniera determinante nella produzione delle soggettività. Quello che abbiamo chiamato il regime del salario (#1, #2) sta imponendo la ridefinizione complessiva delle modalità con cui si verrà messi al lavoro nei prossimi anni. Visto su un piano realmente europeo, il regime del salario mostra in alcuni contesti i caratteri di una precarizzazione forzata, assumendo il senso di una perdita rispetto a un catalogo di diritti che si credevano acquisiti. Altrove, esso assume la forma di una nuova rosa di possibilità per entrare nel mondo del lavoro lontani da un’idea di disciplina quotidiana, stabile e misurata, di cui nessuno ha nostalgia, come mostra ad esempio l’elevato turnover che si riscontra nei siti produttivi dell’Europa orientale. Non va dimenticato, inoltre, che centinaia di migliaia di giovani lavoratori e lavoratrici stanno entrando ora nel cosiddetto mondo del lavoro europeo, senza aver mai conosciuto ciò che si presume essere sotto attacco. Di fronte a tutto questo la sola rivendicazione di un reddito è una cosa poco incisiva, che non modifica la quantità e la qualità del tempo di chi è comunque sottomesso quotidianamente al quel regime.

Se questa è la direzione che sta prendendo il nuovo welfare su scala europea, ogni rivendicazione che muova dalla povertà e dai bisogni rischia di essere poco più che la certificazione della nostra debolezza, ma anche di ancorare la politica dei movimenti alla magra pretesa della riproduzione di una vita immiserita. Il nuovo welfare sta già diventando una specifica modalità di governo del lavoro e della sua mobilità, elargito attraverso una gestione oculata e orientata al profitto della libertà di movimento dentro e attraverso lo spazio di Schengen. Se, come avviene ogni giorno nei paesi virtuosi dell’Europa settentrionale, il prezzo del welfare è l’espulsione di migranti comunitari e non, ovvero una nuova nazionalizzazione della cittadinanza europea, una politica dei movimenti non può limitarsi a chiedere briciole ai governi nazionali al prezzo di nuove gerarchie, ma deve essere in grado di accettare la sfida che la mobilità del lavoro impone.

Ciò significa che mai come ora è urgente porsi all’altezza delle lotte dei migranti dentro e fuori l’Europa. Non solo perché il governo del lavoro migrante è stato ed è tuttora il modello del governo del lavoro sul piano europeo, e neppure soltanto perché i migranti hanno avuto la capacità di lottare contro i regimi di sfruttamento e oppressione che quel modello impone. Essere all’altezza delle lotte dei migranti significa pensare all’organizzazione a partire dalla mobilità degli individui al lavoro. Significa riconoscere che il radicamento territoriale, locale o nazionale di ogni organizzazione è necessariamente insufficiente se precarie, operai e migranti continuamente si muovono da un posto di lavoro a un altro, da un territorio a un altro, mentre le catene globali dello sfruttamento si dispiegano sistematicamente attraverso i confini. Per questo è necessario aspirare a una dimensione paneuropea delle lotte: non semplicemente la somma di occasioni locali di conflitto connesse in una singola data o settimana di mobilitazione, ma un’iniziativa politica radicalmente innovativa capace di colpire simultaneamente luoghi strategici di quelle catene globali.

Un discorso egemonico è tale solo quando è riconosciuto anche da chi non partecipa direttamente alla sua pratica. Un discorso controegemonico non può affidarsi solo alla riaffermazione della realtà, cioè alla dichiarazione reiterata che l’austerità c’è ancora e continua a produrre i suoi devastanti effetti. Soprattutto se questi effetti descrivono solo un pezzo di ciò che sta cambiando. Cosa diciamo l’undici luglio oltre l’austerità, cioè alla fine di una guerra che abbiamo sostanzialmente subito e che ha distrutto l’esistenza di milioni di proletarie e proletari? Un discorso che semplicemente dice che la speranza è falsa ha poche probabilità di essere ascoltato. Il contrario di speranza rischia di essere disperazione. Come facciamo vedere l’undici luglio che andiamo oltre questa realtà europea fatta di molta speranza e di molta disperazione? Varrebbe la pena far vedere l’undici luglio che siamo in grado di produrre pratiche egemoniche che si basano sulla forza del nostro discorso, almeno fino a quando non potremo fidarci davvero del discorso della nostra forza.

Dopo l’11 luglio: lo spostamento

Lo spostamento del vertice europeo contro la disoccupazione giovanile, previsto a Torino per il prossimo 11 luglio, pone ancora una volta i movimenti di fronte alla necessità di pensare la loro iniziativa politica autonoma su un’adeguata scala europea. Non può sfuggire, infatti, che un percorso organizzativo che si stava consolidando in vista di quell’evento si sia ritrovato non solo senza obiettivo, ma anche senza sapere cosa farsene della forza che si suppone avesse accumulato. Si tratta per noi di capire come sia possibile produrre percorsi organizzativi adeguati a questo compito, capaci di andare attraversare i grandi eventi, le fabbriche e i posti del lavoro, i quartieri o i territori, senza rimanere confinati in spazi politici dove ogni opposizione, pure sul momento efficace, rischia sempre di risolversi in una manifestazione meramente simbolica del dissenso. Assumere davvero la necessaria dimensione europea che le lotte devono ormai avere non significa evidentemente rinunciare a ogni radicamento territoriale. In una società globalizzata in cui precarie, operai e migranti continuamente si muovono da un posto di lavoro a un altro, da un territorio a un altro, mentre le catene globali dello sfruttamento si dispiegano sistematicamente attraverso i confini, dobbiamo riconoscere che ogni percorso organizzativo che rimane confinato alla sua scala locale o nazionale rischia sempre di essere condannato all’irrilevanza politica. È necessario quindi porsi il problema di una dimensione paneuropea delle lotte che attraversi i confini attuali della stessa Unione europea. Anche se inizialmente ciò può essere utile e talvolta persino necessario, non si tratta semplicemente di sommare le occasioni locali di conflitto connesse in una singola data o settimana di mobilitazione. È urgente costruire un’iniziativa politica che non sia radicale per pochi comportamenti soggettivi che pratica in un dato momento, ma per la radicalità con cui riesce a investire simultaneamente i luoghi strategici delle catene globali dello sfruttamento, mostrando le connessioni di ciò che altrimenti rimane nascosto o sconnesso. Questo vuol dire produrre spazi di discussione, proposta ed elaborazione politica che sappiano riconoscere il piano dello scontro oltre i confini e gli immaginari imposti dalle istituzioni politiche e finanziarie.Questo chiamiamo il processo di costruzione di una contro-egemonia e ci pare il compito che abbiamo di fronte. Per farlo dovremmo sfruttare l’opportunità dello spostamento del vertice di Torino per operare uno spostamento radicale di prospettiva. Radicale è in queste condizioni la capacità di praticare un piano delle lotte che non si lascia confinare alla subalternità della propria singola pratica. Radicale è porsi il problema di raggiungere chi vive in Europa la condizione globale del proprio sfruttamento. Radicale è, infine, coinvolgere anche chi finora non ha ritenuto politicamente opportuno praticare il piano europeo che un discorso contro-egemonico reclama.

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