Morire per l’Europa nonostante l’Europa. Non parliamo delle fiammate nazionaliste che popolano l’Europa in guerra, ma degli almeno 68 uomini e donne migranti che ai confini dell’Europa sono morti domenica scorsa. Da anni assistiamo al macabro susseguirsi di tragedie più o meno annunciate nel Mediterraneo. Da anni assistiamo anche ai moti di indignazione umanitaria che la cosiddetta società civile riserva ai migranti morti. Da anni vediamo questa indignazione correre parallela all’indifferenza riservata ai migranti e alle migranti quando sono vivi. L’umanità riconosciuta nel momento in cui muoiono sembra essere l’unica uguaglianza a cui sono destinati su questa sponda del Mediterraneo. Nelle morti di Cutro c’è però qualcosa di più. Quella di Cutro non è solo l’ennesima tragedia annunciata, bensì l’effetto collaterale ma calcolato di una strategia di governo delle migrazioni affidata a operazioni di polizia internazionale. A Frontex che segnala la presenza di una barca sovraffollata sulla Calabrian route interessa denunciare il ‘traffico di esseri umani’. La Guardia di Finanza e la Guardia Costiera italiane agiscono di conseguenza: scatta un intervento di polizia dei confini, ma non un’operazione di soccorso, che non viene neanche presa in considerazione. Il mare forza cinque ha fatto il resto.
Nel gioco delle accuse incrociate e dello scaricabarile tra i ministeri e i vari corpi militari e di polizia rimane un dato a calmare le inquietudini della sopita coscienza europea: la barca che si è schiantata sulle coste di Cutro non ha mai lanciato il mayday. Più che superficialità e leggerezze, qui c’è però un equivoco: una barca i cui passeggeri attendono di sbarcare in Europa per ricevere il marchio della clandestinità non è una nave di ricchi turisti in cerca di avventura e che, in quanto tali, possono far ricorso ai diritti degli europei. Una nave carica di migranti è costretta a navigare negli interstizi della legge, in un’area grigia dove diritto internazionale e diritto statale non si incontrano. Un’area grigia dove non ci sono diritti, ma solo rischi, speranze e possibilità, compresa la possibilità di morire. È uno spazio sul quale l’Europa si è costruita come respingimento, discriminazione e sfruttamento. L’equivoco alla base di questo meccanismo di polizia e di morte è che ai migranti è precluso l’accesso a un regime di normalità. A occultare questa verità non è rimasto più neanche quel velo di umanità garantito dalle ONG, che il governo italiano ha di fatto bandito dal Mediterraneo. Quel velo viene poi letteralmente strappato sull’altare degli accordi stretti da Meloni con i governi nordafricani in nome della sicurezza energetica.
Il ministro Piantedosi se ne faccia una ragione. I migranti sanno benissimo a cosa vanno incontro. Perché sanno anche da cosa fuggono. Fuggono dai regimi teocratici e patriarcali di Afghanistan e Iran, la cui sopravvivenza si basa sulla repressione costante della pretesa che donna equivalga a vita e libertà. Fuggono dall’impoverimento e dalla mancanza di risorse, dalla devastazione ambientale e dalla crisi climatica che aggredisce il Sud globale con un accanimento che non abbiamo ancora sperimentato in Europa. Fuggono, ancora, dal disordine delle guerre in contesti locali e dal disordine globale che la guerra in Ucraina ha prodotto. Fin dalla loro partenza uomini e donne migranti incarnano allora una pretesa di libertà, una sfida a un ordine che li vorrebbe condannati alla miseria, alla morte e all’oppressione. Sono cioè portatori di una libertà che si fa disordine per un’Europa in affanno per la guerra. Polizia e management sono ormai le best practices che un’Europa arroccata su sé stessa dispiega di fronte alle migrazioni. Un’Europa che nega l’asilo alle donne afghane, che non intende farsi carico dei profughi del terremoto turco mentre continua a foraggiare Erdogan per fare da cane da guardia all’ingresso della porta orientale, che, ancora, riconosce a Meloni la «specificità del confine marittimo», è un’Europa in cui la protezione umanitaria che dovrebbe esser accordata ai migranti si rovescia in una protezione di sé stessa, non solo dei suoi confini, ma della sua tenuta. Della tenuta dei suoi bilanci, dei suoi capitali privati e delle sue politiche militari e industriali, della sua transizione green e della riproduzione di milioni di uomini e donne. Il prezzo di questa tenuta, che la guerra in Ucraina rende sempre più precaria, viene scaricato quotidianamente su tante e tanti. Il conto più alto lo stanno pagando però le donne e gli uomini migranti.
Negli anni abbiamo visto la porta di ingresso delle migrazioni aprirsi, chiudersi e rimodellarsi a seconda degli andamenti del ciclo economico, ovvero del bisogno di forza lavoro migrante come forza lavoro povera e ricattabile. Pur con le sue peculiarità, l’arroccamento in corso non trascurerà certo questo parametro, che è vitale per l’economia italiana come per quella europea. Per quanto si presenti oggi con il volto cupo di Piantedosi, la fortezza Europa non è mai così implacabile come dice di essere. Dietro alla torva fantasia del ministro dei naufragi che, quasi a discolparsi, vorrebbe andare a prendere i migranti a casa loro, così come dietro a quella delle quote flusso si cela il sogno schiavista di chi desidera che i migranti siano nient’altro che forza lavoro da recuperare just in time in base alle esigenze del mercato del lavoro. Non è solo il violento confine col quale i e le migranti sono costretti a confrontarsi nei loro viaggi via mare o via terra a parlarci di questa fantasia brutale. Di questa violenza ci parlano anche l’accoglienza in luoghi degradati e affollati, i labirinti burocratici e razzisti per ottenere un permesso – che quando non sono in grado di spezzare il loro sogno, intaccano profondamente la forza di cui è espressione –, lo sfruttamento a cui donne e uomini migranti sono chiamati nel momento in cui varcano la soglia di magazzini, fabbriche, case, campi in cui sono destinati a lavorare, pena la clandestinità.
Non è per quest’Europa che i e le migranti mettono in gioco la propria vita. Semmai, nonostante l’Europa iniziano una nuova vita che cerca in ogni modo di sottrarsi al destino che il governo delle migrazioni vorrebbe imporre loro: essere mera forza lavoro usa e getta. La pretesa di libertà che le migrazioni incarnano non viene cioè dissipata in mare, ma si riversa in un’Europa che non è quella da ‘proteggere’ da despoti orientali o da orde di barbari. Non è nemmeno l’Europa dei diritti che non c’è più, se mai è esistita. È un’Europa che è già qui, che è arrivata nel corso del tempo anche sulla scia di generazioni di donne e uomini migranti. È un’Europa in cui si agita costantemente una pretesa di uguaglianza e libertà che ci parla del sogno delle e dei migranti di poter valere senza essere un valore.
Per quanto possa circondarsi di muri, l’Europa è già migrante. Ecco perché oggi non possiamo solo piangere i morti. Non è per le lacrime che dobbiamo attrezzarci, ma per gli 82 sopravvissuti. Per rompere l’isolamento a cui si vorrebbe condannare la loro pretesa di uguaglianza e libertà, così come quella di milioni di donne e uomini migranti che in Europa vivono, lavorano e lottano. Per spezzare la segregazione a cui quella pretesa viene sottoposta, perché è quella pretesa che stabilisce per tutte e tutti noi la possibilità di lottare per un presente libero dalla violenza, dall’oppressione e dallo sfruttamento.