Dopo tanti annunci, ecco che il reato di clandestinità è stato (finalmente) abolito. In realtà, il Parlamento ha dato mandato al governo di abolirlo. Si tratta apparentemente di una buona notizia per decine di migliaia di migranti, considerati dei criminali solo perché i documenti non sono in regola, a causa di leggi italiane ed Europee che rendono impossibile muoversi liberamente e mantenere stabilmente un permesso di soggiorno. Eppure, dietro la ‘buona’ notizia, come spesso accade quando si tratta di migranti, si nasconde una trappola politica: il reato, infatti, non è abolito, ma è di fatto «spostato». La nuova legge prevede l’arresto per chi rientra in Italia dopo aver ricevuto un «provvedimento di espulsione». La vera domanda è dunque: adesso che finalmente è stato abolito il reato, inizieranno a finire in carcere i migranti che lottano contro l’espulsione, cosa che prima raramente accadeva?
Grazie all’abolizione si libererà un po’ di lavoro per magistrati e tribunali. Ma cosa cambia davvero? Di fatto, chi entra in condizione d’irregolarità e non può richiedere l’asilo politico, riceverà prima o poi un decreto di espulsione. E se non adempie, o se «ritorna», sarà passibile di arresto. E allora? Sappiamo che un provvedimento di espulsione non significa automaticamente l’allontanamento reale dal territorio, ma si tratta di un provvedimento la cui applicazione può variare a seconda dei casi. Sappiamo anche che chi migra per cambiare la propria vita non si fa dettare le regole da governi in cerca di legittimità. Spesso chi riceve un decreto di espulsione rimane sul territorio, dove magari vive da anni, ha pagato le tasse e i contributi e ha una famiglia e gli amici. L’abolizione del reato, ma il mantenimento dell’arresto per l’espulsione, significa dunque che saranno tanti i migranti denunciati (e questa volta a rischiare davvero l’arresto) per il solo motivo di non avere i documenti in regola, magari perché hanno perso il lavoro, o perché il loro datore di lavoro li ha truffati per anni senza pagare i contributi. L’espulsione fa semplicemente parte della legge Bossi-Fini, contro la quale i migranti si scontrano ogni giorno.
È allora necessario chiarire ancora una volta che le leggi sull’immigrazione, sul piano materiale, non regolano gli «ingressi» sul territorio nazionale ed Europeo, ma regolano lo status giuridico e la condizione sociale di uomini e donne che vivono qui, ma provengono da altri paesi. Le leggi sull’immigrazione producono effetti reali, catastrofi politiche e sfruttamento, ma si basano sulle finzioni: basti pensare alla logica dei flussi, secondo la quale ogni anno si deve stabilire di quanti ingressi regolari c’è bisogno. Tutti sanno che, in assenza di altri modi per ottenere i documenti, in gran parte si tratta di una sanatoria mascherata, e che i decreti flussi (e le stesse sanatorie) servono soprattutto ai datori di lavoro per non rischiare. A cosa serve allora l’abolizione del reato di clandestinità? Serve soprattutto a risolvere un grosso problema per i tribunali e le forze di polizia italiane, costrette dopo la sua introduzione a non poterlo applicare, ma a dover gestire migliaia di denunce e procedimenti che ne intasano gli uffici. Come ha ben spiegato l’umanitarianissima presidente della Camera Boldrini, se «si volta pagina» è soprattutto per questo.
C’è di più. Il reato di clandestinità è stato introdotto con il cosiddetto pacchetto sicurezza. Cancellarlo, dunque, lascia assolutamente intatta la legge Bossi-Fini e il suo fondamento: il legame tra il permesso di soggiorno e il contratto di lavoro. Rimangono anche i CIE e rimangono le espulsioni, la cui forza viene anzi rafforzata: fatto salvo l’elemento umanitario, infatti, abolire il reato di clandestinità in questo modo aiuta a separare i migranti buoni da quelli cattivi. Quelli ‘buoni’ lavorano e quando glielo si dice se ne vanno in silenzio, oppure arrivano con i barconi scappando dalle guerre, sono indifesi e sarebbe meglio non denunciarli. Quelli ‘cattivi’, invece, decidono dove cercare di migliorare la loro vita e pretendono di continuare a farlo anche contro una legge fatta apposta per sfruttarli, magari alzano la voce, manifestano e scioperano: quelli vanno espulsi e, se ci riprovano, vanno arrestati. La Bossi-Fini esce politicamente rafforzata dalla cancellazione del reato e si capisce bene che chi oggi festeggia o lo fa in malafede, difendendo l’apartheid democratico, oppure non ha capito come funziona la cosiddetta regolazione dell’immigrazione.
Il PD di governo, anziché rincorrere le bandiere leghiste, dovrebbe piuttosto pensare alle sue, come l’esistenza dei CIE (i CPT introdotti dalla Turco Napolitano) e la logica dei flussi. A scanso di equivoci: nemmeno chi ha votato contro l’abolizione del reato lo ha fatto perché è dalla parte dei migranti, ma solo per aggiungere anche le sue stelle nel firmamento del razzismo. Sono tutti d’accordo, infatti, sul modello d’integrazione da perseguire, che ha dei risvolti penosi anche nella sbandierata soluzione «svuota carceri», che prevede di far scontare ai migranti la pena nel paese d’origine. Un recente accordo con il Marocco stabilisce infatti il trasferimento dei detenuti marocchini dalle carceri italiane a quelle del paese d’origine, in nome del «reintegro» in quella che viene definita la loro società di «appartenzenza». Si decide dunque per legge a quale società devono appartenere uomini e donne che, al contrario, mostrano con il loro movimento di voler scegliere liberamente il loro futuro.
Noi siamo ben contenti se si abolisce il reato di clandestinità, del resto già fortemente depotenziato da diversi provvedimenti di tribunali italiani ed Europei. Abbiamo però imparato a conoscere come funzionano il razzismo istituzionale, le gerarchie e lo sfruttamento che produce, e a non fidarci di chi continua a proporre miglioramenti di facciata per mantenere la sostanza del legame tra permesso di soggiorno e rapporto di lavoro. Per questo non fermeremo la nostra lotta.