venerdì , 11 Ottobre 2024

Disarticolare il confine: migranti, confini, movimenti. Una conversazione con Sandro Mezzadra

di ABDELOUAHAD EL MIR – MATTIA ZONZA

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confini-1Questa conversazione di Abdelouahad El Mir e Mattia Zonza con Sandro Mezzadra, svoltasi nel dicembre dello scorso anno, affronta il nodo cruciale delle politiche dei confini, delle lotte dei migranti e il loro rapporto con i movimenti sociali. In essa emerge con chiarezza la necessità di guardare il mondo attraverso i suoi confini, le separazioni e le gerarchie che essi producono per comprendere oggi le lotte della forza lavoro e le loro possibili connessioni. Questa è d’altra parte l’idea centrale del volume Border as Method, Or the Multiplication of Labor  scritto da Mezzadra e Brett Neilson, che ∫connessioni ha presentato a suo tempo. Nel momento in cui viene riconosciuto il ruolo centrale delle migrazioni nelle trasformazioni globali del lavoro e della cittadinanza, la questione migratoria viene definitivamente sottratta a ogni prospettiva settoriale. Si impone quindi di smettere di pensare i migranti come «soggetti in debito», come donne e uomini che, chiedendo qualcosa, possono anche aspettarsi un rifiuto. Se i migranti non possono essere considerati dei «soggetti in debito» è anche perché la loro esistenza non può essere vista solo a partire dalle catastrofi umanitarie che puntualmente e drammaticamente si presentano nei movimenti migratori. Come emerge anche dall’intervista, pur riconoscendo il carattere straordinario di quanto successo a Lampedusa nei mesi scorsi, pur comprendendo la possibilità di farne una sorta di «Fukushima dei rifugiati politici», noi pensiamo che il carattere politico delle migrazioni non stia nella richiesta di asilo o nella condizione di rifugiato, cioè in un diritto negato negli Stati di partenza. Si potrebbe dire che i migranti, tutti i migranti senza distinzioni di status giuridico, divengono sempre e comunque un problema politico e potenzialmente dei soggetti politici nei paesi di arrivo. Questa condizione non può trovare un riconoscimento nei codici e nelle carte. Il dibattito su come far valere nei modi più efficaci questa politicità della condizione migrante è evidentemente aperto e questa intervista ne è parte.

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D: Come riporta l’attivista tedesco Hagen Kopp sul sito di ∫connessioni precarie, «Wolfgang Niedecken, cantante della rockband BAP, ha fatto un paragone notevole durante un talk show tedesco che si chiama Hart, aber fair: egli si è augurato che l’orribile morte dei naufraghi nei pressi di Lampedusa potesse trasformarsi in una “Fukushima dei rifugiati politici”, intendo che potesse segnare una svolta che li sottraesse dall’orribile esclusione politica in cui sono confinati». Troviamo molto interessante questa lettura, perché in Italia invece di essere una Fukushima delle migrazioni e dei confini la tragedia di Lampedusa è stata una sorta di Auschwitz, un dispositivo di autoassoluzione collettiva che ha trovato il suo apice con la concessione della cittadinanza ai corpi migranti morti. La concessione dello status di cittadino a dei corpi privi di vita è un atto abbastanza emblematico da parte del governo dello Stato. Dall’altra parte quello che abbiamo visto mancare in Italia, che non è successo, è che da parte del movimento non c’è stata nessuna presa di posizione radicale o di interessamento vero. Questo conferma quello che sta avvenendo in Italia negli ultimi anni. C’è una separazione tra quelle che sono le lotte dei migranti e quelle che sono le lotte dei movimenti. Lo scorso 23 marzo c’è stata una mobilitazione dei migranti a Bologna; da partecipanti, con grande stupore, abbiamo notato la mancanza dei centri sociali e dei segmenti del movimento. L’unico gruppo presente di Bologna (anche se numericamente molto limitato) erano alcune compagne e compagni di Xm24, il resto era composto quasi solo da migranti. Come vedi questa cosa, che cosa manca? In Germania attorno al gruppo dei migranti «Lampedusa a Amburgo», che rischiano di essere rimandati in Italia perché lì erano state prese le impronte digitali, si sta formando una forte rete di «solidarietà» con il movimento tedesco che li sta sostenendo nella loro richiesta di rimanere in Germania. Questo in Italia non sta avvenendo, tu come vedi questa cosa?

R: Guarda, quello che poni è ovviamente un problema piuttosto complesso e potremmo parlarne a lungo. Intanto bisognerebbe fare anche un po’ di storia di quello che è avvenuto qui in Italia negli ultimi 20 anni attorno alla questione dell’immigrazione. Il mio giudizio è un po’ più sfumato del vostro, da diversi punti di vista. Intanto metto in evidenza il fatto che all’interno di alcuni dei più significativi movimenti sociali che esistono oggi in Italia i migranti sono assolutamente protagonisti. Facciamo l’esempio della lotta per la casa: se prendiamo una città come Roma, le lotte per la casa hanno una storia lunga ma un presente estremamente ricco ed eterogeneo. La presenza dei migranti è ormai da tempo un elemento fondamentale che ha modificato anche le forme di lotta, le pratiche sociali che sostengono le occupazioni e in generale le mobilitazioni. Penso che chiunque sia stato a Roma il 19 Ottobre, se ne sia potuto rendere conto. Questo discorso vale per altri movimenti, mi limito a questo esempio per la casa che mi sembra parecchio significativo. Poi non direi neanche che non esiste un tessuto di movimento che in Italia non si sia attivato rispetto a quello che è successo a Lampedusa. Esiste, molto spesso è un tessuto spurio perché di esso fanno parte soggetti profondamente diversi, dai centri sociali all’ARCI. È un tessuto al cui interno sono presenti posizioni anche molto diverse. Tu citavi le mobilitazioni di Lampedusa in Amburgo, ci sono collettivi italiani che hanno partecipato a quella mobilitazione. Per esempio, nel 2011 – dopo la rivoluzione tunisina – ci sono state forme di mobilitazione molto simili a quelle che ci sono oggi ad Amburgo e in Germania. La cosa che, secondo me, sarebbe interessante discutere sono semmai le posizioni anche molto diverse all’interno del movimento italiano rispetto alla questione delle migrazioni a partire dalla citazione iniziale che avete fatto di Hagen Kopp. Attorno alla questione dei rifugiati e dei richiedenti asilo si è formata molto spesso una situazione di contrapposizioni nel movimento negli ultimi anni. L’abbiamo visto anche dopo i tragici fatti di Lampedusa, quando da una parte meltingpot.org ha ripreso la proposta di creare un corridoio umanitario, che era stata fatta prima di tutto dalla sindaca di Lampedusa, e proprio ∫connessioni precarie ha prodotto un documento in cui criticava quella proposta sostenendo che contribuiva a rafforzare la distinzione tra «i poveri richiedenti asilo» e i migranti illegali, tendenzialmente considerati come criminali, e rifiutandosi di sostenere la posizione che individuava nell’apertura di un canale umanitario una soluzione all’emergenza. Questo come esempio di posizioni molto diverse dietro alle quali ci sono problemi reali, badate bene, non è che sia una contrapposizione ideologica: quel che posso dire è che i processi di illegalizzazione dei migranti e le trasformazioni dell’asilo fanno parte del medesimo regime migratorio e dovrebbero essere contrastati congiuntamente. A partire da qui si potrebbe riaprire la discussione.

D: Hai fatto bene a sollevare la questione del 19 Ottobre, il 19, il 20 di ottobre fino a martedì sono rimasti nella piazza. I rifugiati politici avevano un ruolo centrale, primario, erano loro che occupavano la piazza di Porta Pia. Purtroppo il movimento storico romano era poco presente, alla fine in quella piazza non ci dormiva.

R: Prima dicevo che bisognerebbe fare un po’ di storia di quello che è avvenuto attorno alle migrazioni negli ultimi 20 anni in Italia. Questo non è qualcosa di nuovo, se volete proprio in una battuta: la situazione negli ultimi 20 anni è stata caratterizzata da un paradosso in Italia. Da una parte un fortissimo protagonismo dei migranti, nel senso che tanto le mobilitazioni dei migranti sul permesso di soggiorno e il contrasto alla Bossi-Fini, quanto il coinvolgimento dei migranti nelle lotte sociali in termini più generali sono stati evidentissimi, sono state caratteristiche anche all’inizio e non si può negare la loro importanza. Contemporaneamente però, all’interno del movimento la questione migratoria è stata vissuta come una questione marginale, da affidare agli esperti del “settore”, come una questione settoriale. Mentre invece, ripeto, questo è il paradosso che si tratta di sottolineare; se qualcosa ci insegnano questi 20 anni di lotta dei migranti in Italia, è precisamente che la questione migratoria non è settoriale. Quindi il problema esiste, io semplicemente, tentavo di sfumare il giudizio, però il problema sicuramente esiste.

D: Un’altra questione che ci preme, sempre parlando di migranti o di pratiche collettive di resistenza dei migranti, è incentrata sulle impronte digitali come schedatura della soggettività. Oggi, per esempio, ci si oppone alla schedatura in modo collettivo, i migranti si oppongono in modo collettivo e inizialmente, da quando fu attuata la norma, ci si opponeva in modo individuale, ci si bruciava le dita per non essere identificati. Quindi un rifiuto della schedatura che è una resistenza, un atto di determinazione collettiva. Un’altra pratica di resistenza, di cui oggi non si sa molto, ha luogo proprio nei CIE. Se si vede nell’ultimo anno, in particolar modo, le lotte dei migranti nei CIE sono state abbastanza dure, tanto da far chiudere il CIE di Modena rendendolo inagibile e quindi si può parlare dei CIE come istituzioni totali per la gestione delle moltitudini invisibili. Come intervengono tutte queste pratiche (impronte digitali, CIE ecc..) nelle pratiche di desoggettivazione del migrante e della personalità?

R: Naturalmente le due cose fanno parte dello stesso regime di controllo delle migrazioni e vanno considerate congiuntamente, però propongono anche dei problemi che sono diversi, la questione delle impronte digitali è legata strettamente alla digitalizzazione del controllo dei movimenti migratori. Nel senso che le impronte digitali vanno a costituire il tassello fondamentale di una sorta di seconda identità che si stacca dal corpo del migrante o della migrante mentre, contemporaneamente, in questo staccarsi si riproduce una cicatrice che è il segno del confine che rimane impresso sul corpo del migrante e che il migrante porta sempre con sé. E’ una delle modalità con cui oggi i confini diventano mobili, nel senso che nello spazio europeo ci sono centinaia di migliaia di donne e di uomini che si portano dietro il confine. Le forme di rifiuto di questa pratica che abbiamo visto negli ultimi mesi, penso a Lampedusa, ad Amburgo, ma ci sono anche altri esempi che si potrebbero fare, sono estremamente importanti perché pongono un problema che riguarda prima di tutto i migranti e le migranti ma che ancora una volta non riguarda soltanto loro perché la questione della seconda identità non è legata soltanto ai migranti. I CIE qui non sono un fenomeno nuovo, non sono un istituto nuovo in Italia, li abbiamo conosciuti in modo informale a partire dalla metà degli anni novanta quando sono state sperimentate forme di detenzione che hanno trovato una sanzione nella legge Turco-Napolitano del 1998 e poi nella Bossi-Fini nel 2002. L’Italia, penso che vada ricordato, è stata teatro di lotte molto importanti contro quelli che si chiamavano CPT e quelli che si chiamano oggi CIE, lotte in cui alcune componenti del movimento italiano si sono trovate a dialogare e ad agire congiuntamente, con i migranti, in particolare con i migranti rinchiusi all’interno di questi istituti: penso ad esempio alle lotte contro il centro di Via Corelli a Milano, a Trieste, o alla grande manifestazione di Torino nel novembre 2002. Le lotte all’interno dei centri di detenzione ci sono sempre state, non esiste centro di detenzione senza resistenza, questo vale anche per quanto riguarda l’Italia per le prime sperimentazioni di centri di detenzione informali che ricordavo in precedenza. C’è stata poi una continuità di pratiche di resistenza e di rivolta contro i centri di detenzione. Saprete del resto che attorno ai centri di detenzione c’è stato un grande dibattito non solo in Italia, non solo in Europa, Australia, Stati Uniti, è un dibattito che ha attraversato naturalmente i movimenti e ha avuto anche alcuni momenti importanti di riflessione teorica: penso ad esempio all’uso che è stato fatto e continua ad essere fatto della nozione di campo per cogliere la sostanza di questi istituti. Anche in Italia i libri sui centri di detenzione sono moltissimi, penso a quelli di Federica Sossi , di Federico Rahola, a quello di Alessandra Sciurba che hanno impiegato in modi diversi questa nozione di campo. Io personalmente, pur essendo stato tra i primi ad utilizzarla, credo anche che in molti usi che ne sono stati fatti la nozione di campo finisca poi per essere un po’ fuorviante perché suggerisce questa idea di un controllo totalitario che proprio la continuità delle pratiche di resistenza e di rivolta in qualche modo smentisce. Al tempo stesso, l’analisi che abbiamo fatto in Border as Method, il libro che ho scritto con Brett Neilson, sottolinea il fatto che non tutti i centri di detenzione sono uguali: c’è uno spettro molto ampio di dispositivi di detenzione. Nel loro insieme, in ogni caso, questi dispositivi, questi campi, chiamiamoli pure campi con l’avvertenza di cui sopra, non hanno tanto l’obiettivo di determinare un blocco assoluto della mobilità. Sono piuttosto parte di un regime complessivo che punta a scandirne i tempi, a indirizzare e a canalizzare, ad accelerare, a frenare e a rallentare i movimenti migratori. Questo mi sembra quello che posso dire sui CIE in due battute.

D: Vorremmo discutere di due casi, quello della Francia e quello della Gran Bretagna. Due paesi post-coloniali che hanno seguito due modelli di «integrazione» diversi: una si rifaceva al multiculturalismo, l’altra, invece, alla logica dell’assimilazione. Entrambi questi due progetti dello Stato postcoloniale sono palesemente falliti. In Francia l’abbiamo visto con le rivolte delle banlieues, in Inghilterra con altre forme, i riot, e problemi certe volte anche tra le varie comunità. Ora in Italia c’è un grande parlare di intercultura e anche una grande apoteosi del meticciato, tant’è che la ministra dell’integrazione ne parla in maniera molto fuorviante. Si tende, quindi, a parlare del meticciato e a non parlare delle condizioni che lo creano. Si tende a censurare il momento della tensione del conflitto che invece è alla base del meticciato, il meticciato non può arrivare senza un momento di tensione che metta in crisi il gruppo dominante o i gruppi dominanti. In Italia se ne parla in maniera molto superficiale o ambigua, si vuole una società meticcia senza passare per il conflitto e la tensione. Quello che ci chiedevamo e che chiediamo quindi anche a te, è quindi: che direzione pensi prenderà l’Italia? Gli italiani brava gente cercheranno di copiare un po’ dal modello francese e un po’ dal modello inglese come hanno fatto durante l’epoca coloniale o cercheranno di trovare una terza via? Che ne pensi?

R: E’ una questione molto importante, di nuovo molto complessa, che non è facile trattare in poche battute. Qualche anno fa ho scritto un testo sulla crisi del multiculturalismo in Europa in cui cercavo di affrontare questi problemi. Già il fatto di immaginare una scelta tra il modello francese e quello britannico mi sembra abbastanza fuorviante nella misura in cui, come tu giustamente dicevi, a parte il fatto che oggi entrambi questi modelli sono in crisi, quel che risulta più interessante è considerarli per così dire allo specchio. Vedere che cosa succede mettendo questi due modelli l’uno di fronte all’altro, più in generale, mi pare che sia un problema che ancora una volta va oltre la questione delle migrazioni, dei migranti, dell’integrazione, parola sulla quale sarebbe opportuno fare qualche considerazione critica, almeno in due sensi. Il primo riguarda il fatto che oggi in molti paesi europei non solo quelli che abbiamo menzionato, ma anche in Germania, anche in Olanda c’è un’enfasi sull’integrazione che ha caratteri di estrema aggressività nei confronti dei migranti. Il continuo riferimento alla necessità di integrazione produce necessariamente l’immagine del migrante come soggetto a cui manca qualcosa. Se consentite un riferimento teorico, è un’interpellazione dei migranti, usando questo termine nel senso althusseriano. Un’interpellazione che li costituisce come soggetti in debito, come soggetti di un deficit da colmare, appunto, attraverso uno sforzo per integrarsi. Seconda considerazione critica sulla categoria di integrazione: parlare di integrazione, assumere questo concetto in senso forte, significa pensare che vi sia già uno spazio definito, perimetrato da stabili confini, al cui interno qualcun altro si debba integrare: e questo spazio naturalmente è lo spazio della cittadinanza. Io metterei in evidenza il fatto che questo stesso spazio è profondamente destrutturato oggi. Sottolineerei conseguentemente che il problema non riguarda tanto il migrante quanto il cittadino, l’esplosione della figura del cittadino. Qui evidentemente il problema fondamentale che si pone è quello del conflitto, che giustamente dite voi. Se partiamo dal presupposto che lo spazio della cittadinanza è uno spazio disarticolato, il problema sarà quello di costruire qualcosa di nuovo. In termini molto generali penso che si debba affermare questo: oggi si tratta di costruire qualcosa di nuovo e dunque si tratta anche di leggere e interpretare non solo le lotte ma proprio le pratiche dei migranti nella prospettiva di questa costruzione di un diverso modo di organizzare la convivenza in uno spazio che per me non può che essere lo spazio europeo. Un ultima considerazione molto rapida sulla questione del meticciato. È una categoria di per sé problematica, come è stato messo in evidenza da molti antropologi: parlare di meticciato in qualche modo presuppone il fatto che in origine ci siano delle identità pure che, appunto, incontrandosi e mescolandosi producono identità meticce. È un problema che mi limito a segnalare, aggiungendo che, molto spesso, noi stessi non facciamo sufficientemente attenzione alle implicazioni delle parole che utilizziamo. Indubbiamente è vero quello che dicevate sulle retoriche del meticciato, ma anche molte retoriche multi e inter-culturali sono retoriche che neutralizzano la questione del conflitto, neutralizzano cioè non solo e non tanto la questione del conflitto in termini generali ma più concretamente la questione delle condizioni che producono il conflitto. Questione delle condizioni materiali, naturalmente, la cui “materialità” va assunta però in termini complessi e non “volgari”, nel senso che quando parlo di condizioni materiali non mi riferisco solo all’economia, ma anche al diritto, alla politica, alla cultura etc. In ogni caso, è la domanda sulle condizioni che producono il conflitto, sui rapporti di dominio e di sfruttamento che ne sono all’origine a venire spesso neutralizzata dalle retoriche multi- e interculturali.

D: Sempre in merito all’integrazione: il diritto di cittadinanza si costituisce sempre in un determinato luogo, è un metaluogo che fornisce automaticamente una precisa identità. A noi viene in mente Enrique Dussel che decostruisce completamente l’ottica del «penso dunque sono», del cogito ergo sum, e parla di «sto e dunque penso»: uno stare relazionato a un luogo. Lui ovviamente parla in merito alla questione decoloniale, io sto in America, sto in un certo luogo dove è avvenuta una colonizzazione ben precisa e quindi affermo che un massacro e le violenze della conquista hanno avuto luogo. L’ultima domanda è appunto su un’ottica geografica che si rifà anche un po’ a un’ottica urbana, quella del rapporto centro-periferia. La relazione tra questi due termini. La prima domanda, o considerazione, è che molto probabilmente il centro sta morendo, la fortezza Europa incomincia a cadere su se stessa, le mura e i confini stanno cambiando e automaticamente si stanno creando altri centri. Ci chiedevamo come si possono decostruire questi due concetti (centro e periferia) partendo dalla relazione tra di essi, considerando che sono due concetti che hanno caratteristiche culturali, filosofiche, geografiche e che ci fanno percepire un fallimento o una decostruzione dello Stato post-coloniale.

R: Ma guarda, questa è una questione che mi sta particolarmente a cuore e che è ancora più complessa delle altre che avete giustamente sollevato con le vostre domande. Intanto è chiaro che se affrontiamo il tema in termini generali, astratti, possiamo dare delle risposte che sono soltanto generali e astratte. Io sono convinto che oggi lo schema centro-periferia e in particolare le teorie che sono state costruite attorno a questo schema per interpretare la geografia del sistema-mondo capitalistico funzionino sempre meno: questo in una situazione in cui da una parte i rapporti tra centro e periferia sono terremotati, per dirla in modo semplice, e dall’altra parte siamo in presenza di potenze capitalistiche (di operazioni del capitale) la cui scala di azione è il mondo; e gli effetti dell’azione globale di queste potenze capitalistiche si sentono un po’ dappertutto e contribuiscono a complicare le geografie economiche-politiche emergenti. Da una parte sono d’accordo con Giovanni Arrighi e altri studiosi che hanno affermato che oggi viviamo una crisi dell’egemonia statunitense e dunque una crisi di una modalità specifica dell’organizzazione dei rapporti centro-periferia; dall’altra parte, però, non credo che da questa crisi si uscirà con una lineare transizione egemonica e dunque con la riorganizzazione del sistema-mondo capitalistico attorno a un nuovo centro, la Cina per esempio. Penso che la situazione che stiamo vivendo sia più complessa, e che proprio questa complessità metta probabilmente in discussione la stessa tenuta di uno schema rigido, centrato su concetti come centro-periferia. Questo per me rende non meno importante ma più importante la ricerca, la riflessione sulle dimensioni spaziali della crisi e dello sviluppo capitalistico. Indubbiamente, oggi lo spazio continua a contare moltissimo, i territori continuano a essere essenziali, seppur in forme e con modalità diverse rispetto al passato. Questo ha delle implicazioni anche importanti per la stessa parte del mondo in cui noi viviamo, l’Europa: tu dicevi, giustamente, che c’è una crisi di questa “Fortezza Europa”. Credo che ci sia oggi questo spostamento degli assi del potere a livello globale e che l’Europa sia effettivamente provincializzata, per usare il termine di Chakrabarty, in forme che non sono necessariamente foriere di sviluppi positivi. Anche rispetto alla tradizione dei confini, un’ipotesi di crisi duratura dell’Europa e forse anche di declino dell’Europa rispetto alla sua posizione mondiale non comporta necessariamente il fatto che i confini diventino più permeabili o facilmente attraversabili. Questa ipotesi è anzi perfettamente conciliabile con un ulteriore irrigidimento dei confini e delle politiche migratorie, anche come forma reattiva, di difesa, dietro a questa perdita progressiva di rilievo a livello mondiale. E come decostruire concetti come centro-periferia? Dal punto di vista teorico indagando queste trasformazioni e le loro implicazioni spaziali, come dicevo prima; dal punto di vista politico in qualche modo scoprendo non soltanto i rischi ma anche le opportunità che si aprono in una situazione di questo genere. In molte parti del mondo, sia pure contraddittoriamente, questo viene fatto, in particolare negli spazi metropolitani: pensate ad esempio ai movimenti dei poveri, che in molte parti del mondo, dal Brasile all’India, sono arrivati a ridefinire complessivamente il significato dell’urbano e quindi a investire il centro della metropoli partendo dalle sue “periferie”.

D: Noi ci chiedevamo quali pratiche mettere in campo e come partire per cercare di decolonizzare l’individuo…come è possibile un’introduzione alla vita decolonizzata?

R: Bisognerebbe problematizzare questo riferimento all’individuo, e certamente immagino che voi non pensiate a pratiche di autocoscienza e di decolonizzazione del sé all’interno di spazi privati. È un problema che va posto necessariamente dentro dimensioni collettive, che sono quelle dei movimenti, delle lotte e delle mobilitazioni. Non c’è, secondo me almeno, e quanto meno non c’è in un paese come l’Italia, una risposta pedagogica a questa domanda. Mi sono fermato e ho aggiunto il riferimento all’Italia, perché in effetti in America latina dove io, come sapete, sono stato molto spesso negli ultimi anni, ci sono delle esperienze di educazione popolare che hanno una materialità e una consistenza estremamente significative e al cui interno problemi come questo si sono affrontati e si stanno affrontando. Rispetto all’Italia credo che il problema vada posto dentro le dimensioni collettive in cui si trasformano le soggettività, anche se è fondamentale riconoscere che le dimensioni collettive non sono soltanto quelle che noi conosciamo meglio, quelle dei movimenti sociali, delle lotte sociali, sono anche dimensioni molto quotidiane, “vernacolari”, per usare un termine che ricorre spesso nei dibattiti postcoloniali. Smentendo un po’ quello che dicevo prima penso che, ad esempio, le scuole siano state negli ultimi anni in Italia degli spazi di sperimentazione estremamente contraddittori, ma molto spesso anche felici da questo punto di vista. Certamente si tratta di tener conto anche di queste cose, ma resto della convinzione che la decolonizzazione della soggettività non possa essere oggetto di un manifesto illuministico di pedagogia dall’alto.

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