venerdì , 11 Ottobre 2024

…e i francesi che si incazzano…

di MAURIZIO FONTANA

Prime osservazioni sulla riforma pensionistica del governo Hollande

E i francesi che si incazzanoIn Francia, a fine agosto, il primo ministro Ayrault ha annunciato una riforma pensionistica che, vista dall’Italia, appare piuttosto come una modesta e circoscritta serie di interventi che, per quanto finalizzati a ridurre la spesa pubblica secondo il consueto schema teso a tagliare le prestazioni nel contempo aumentando i contributi, si propone di ridurre parzialmente il debito del sistema pensionistico d’oltralpe con una gradualità del tutto sconosciuta nel nostro paese.

Trascorsi un paio di giorni con osservazioni e critiche non precisamente vibranti, forse perché, dopo l’accordo sulla previdenza complementare in primavera e il rapporto Moreau di giugno, si temevano misure più dure, il tono cambia e si annunciano proteste in tutto il paese.

Già lo scorso 10 settembre in 200 città si sono svolti manifestazioni e scioperi indetti da CGT, FSU e FO. Si è trattato di una mobilitazione estesa su tutto il territorio nazionale da parte di chi sa di essere comunque il reale bersaglio delle politiche governative sul welfare. Una mobilitazione considerata normale e, per così dire, dovuta da chi vive in un paese in cui sono sconosciute le italiche anomalie, come l’assenza, a oltre venti mesi dalla legge 214 del 22 dicembre 2011, di una mobilitazione forte ed estesa contro norme che hanno messo sulla strada centinaia di migliaia di persone, allontanando di svariati anni la data di pensionamento.

Nell’attesa dei futuri sviluppi del confronto sulle modifiche pensionistiche transalpine, e sapendo che in Italia il governo (qualsiasi esso sia nel medio periodo) dovrà ritornare sulla legge 214/2011 di Monti e Fornero, qualche confronto tra l’ipotesi francese di riforma e la realtà legislativa italiana ci sembra opportuno per attrezzarci rispetto al futuro welfare che ci si vuol somministrare.

La modestia dell’ipotesi del governo francese, che circoscrive questo intervento al settore privato, escludendone tanto i dipendenti pubblici quanto gli iscritti ad alcune decine di regimi speciali, non deve indurre a sottovalutarne alcuni aspetti rilevanti nel quadro più generale della politica economica perseguita per il controllo della spesa pubblica.

Si tratta di aspetti che nel loro insieme caratterizzano un intervento i cui costi ricadono principalmente sui lavoratori, sia quelli attivi sia i pensionati, senza misure di riduzione del danno per le pensioni di più modesta entità, prefigurando ulteriori modifiche alle prestazioni integrative dei redditi da lavoro; aspetti che costituiscono di fatto le ragioni delle mobilitazioni già realizzate dalla maggioranza delle organizzazioni sindacali e dei partiti della sinistra.

Il risparmio più significativo, infatti, discende dallo slittamento di sei mesi, dal 1° aprile al 1° ottobre, della rivalutazione di tutte le pensioni rispetto all’inflazione attesa, per un importo di 2,7 miliardi di euro dal 2014 al 2020: a livello individuale, considerato che l’importo medio della pensione diretta è di 1.270 euro mensili, la perdita per ciascun pensionato è ipotizzabile in 150 euro all’anno. Si aggiunga che il ritardo di sei mesi della rivalutazione verrà applicato anche all’Aspa, ex minimo di vecchiaia, una pensione assistenziale aumentata del 25% dal governo Sarkozy e giunta quest’anno a 800 euro mensili, equivalente grosso modo ai nostri assegni sociali il cui importo è però più modesto (circa 500 euro).

Per inciso, val la pena di osservare che in Italia la rivalutazione delle pensioni avveniva invece l’anno successivo da tempo immemorabile, mentre il bonus familiare semplicemente non c’è. Si deve poi aggiungere che la legge 214/2011 ha escluso per gli anni 2012 e 2013 la rivalutazione delle pensioni superiori di tre volte il trattamento minimo, per cui quest’anno l’aumento del 3% è stato riconosciuto solo ai pensionati con trattamenti fino a 1.443 euro mensili, il che perlomeno ha consentito l’indicizzazione piena tanto degli assegni sociali quanto delle prestazioni di invalidità civile.

Tornando alla riforma francese, dall’ipotizzato aumento della contribuzione dello 0,3% annuo sia per i lavoratori che per le aziende deriverà, sempre dal 2014 al 2020, un incremento delle entrate di 2,2 miliardi di euro da ciascuno dei due soggetti: va però rilevato che il governo, come contropartita alle imprese, ha annunciato l’intenzione di ridurre progressivamente la contribuzione a loro carico per assegni familiari e malattia, trasferendola gradualmente a carico della fiscalità generale: c’est à dire, una non trascurabile partita da 34 miliardi di euro su base annua i cui termini saranno chiariti, a detta del primo ministro Ayrault, già entro fine mese, con ogni probabilità in occasione della presentazione della finanziaria 2014: visti i benefici già ricevuti dalle imprese per circa 20 miliardi, in virtù di provvedimenti governativi assunti nel corso del 2012 a sostegno della competitività, l’unico dubbio consentito è sull’entità di quest’ulteriore attacco al salario indiretto su cui andrà misurata la deriva liberista del governo francese. Questione di assoluto rilievo rispetto al processo di ridimensionamento dei costi della socializzazione della forza lavoro, richiesta con crescente insistenza dalla Medef – la Confindustria francese – a un governo che ne condivide la ratio di fondo.

Altri risparmi, previsti in 1,2 miliardi di euro, deriveranno dall’assoggettamento all’imposizione fiscale del bonus del 10% riconosciuto ai pensionati genitori di tre o più figli, che riguarderà oltre tre milioni di pensioni. Per questo bonus, attualmente goduto principalmente da maschi, si prevedono interventi finalizzati a riequilibrare tale situazione a favore delle donne a partire dal 2020.

Altra misura prevista è l’aumento dai 41 anni e 9 mesi nel 2020 dell’anzianità contributiva, richiesta per ottenere una pensione a tasso di sostituzione invariato, ai 43 anni nel 2035 mediante l’aumento di un trimestre ogni tre anni. Non si tocca quindi immediatamente l’età pensionabile, costringendo però in un futuro prossimo a un supplemento di periodi di attività lavorativa, con relativa ulteriore contribuzione pretesa per neutralizzare l’aumento della aspettativa di vita, ai fine di conseguire una pensione a tasso pieno.

In Italia, dopo la legge 214/2011, da quest’anno sono necessari per gli uomini 42 anni e 5 mesi di contribuzione e 62 anni di età per andare in pensione senza riduzione del tasso di sostituzione, mentre per le donne, a pari anni di età, sono richiesti 41 anni e 5 mesi di contributi accreditati.

Dal raffronto tra le due disposizioni normative, la misura prevista in Francia non risulta quindi particolarmente significativa tanto in valori assoluti quanto, soprattutto, in ordine ai tempi di realizzazione, in quanto subordinata agli sviluppi che potrebbero derivare dall’attesa ripresa economica.

Oltralpe in effetti una qualche credibilità di tale ipotesi può anche ritenersi plausibile, confortata dai dati relativi all’andamento del Pil e alla  recente decelerazione della crescita dei disoccupati.

Peraltro, su questo ottimismo circa l’uscita dalla crisi, poggia il complesso della intera riforma che punta complessivamente a recuperare all’incirca 7 miliardi di euro entro il 2020, ritenendo accettabile che alla fine di quell’anno residui comunque un debito pensionistico di circa 10 miliardi. Debito al lordo dei costi derivanti da una serie di disposizioni declinate, sul versante “buono” della riforma, a favore dei pensionati e ipotizzate in primo luogo per indennizzare lavoratori e lavoratrici esposti a attività usuranti, con  costi posti a carico in particolare delle imprese utilizzatrici, in secondo luogo per ridurre la penalizzazione di chi ha periodi di lavoro a tempo parziale, spesso significativamente prolungati  soprattutto per le donne.

Ulteriori benefici sono infine previsti, riconoscendo una copertura figurativa che li valorizzi ai fini pensionistici, per i periodi di formazione dei giovani lavoratori.

Va puntualizzato, però, che le disposizioni sul versante del miglioramento del livello delle prestazioni non ha la stessa precisione e nitidezza di quelle che prevedono il recupero di risorse per la riduzione della spesa pensionistica prevista nel settore privato: le prime sembrano denotarsi come variabili assai dipendenti dalla forza che sapranno mettere in campo lavoratrici e lavoratori francesi nelle prossime settimane.

Non sarebbe male se, ove il nostro governo riaprisse a breve l’ineludibile questione previdenziale, si riuscisse a individuare un filo conduttore comune sul terreno di mobilitazione di lavoratori e lavoratrici di entrambi i paesi per arginare l’attacco al loro salario indiretto e differito che sottende le politiche governative dell’intero continente.

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