mercoledì , 6 Novembre 2024

Amazon che precari!

Amazon che precariProponiamo una sintesi dell’inchiesta pubblicata da «The Morning Call» il 17 settembre 2011 sulle condizioni di lavoro in uno dei principali stabilimenti statunitensi di Amazon, il più grande distributore al dettaglio online del mondo. Si tratta di una descrizione quanto mai chiara della dimensione globale non solo della precarietà, ma anche degli strumenti utilizzati per produrla e alimentarla, garantendo alle compagnie di distribuzione alti margini di profitto. Quello che colpisce non è solo il racconto di una condizione di lavoro bel oltre i limiti della brutalità, ma le strategie di sfruttamento e disciplina garantite dalle agenzie di intermediazione. In un contesto già segnato da una scarsa domanda di lavoro e da una disoccupazione diffusa, che grava soprattutto su uomini e donne che hanno superato i cinquant’anni, un impiego temporaneo ottenuto con la promessa di una futura assunzione a tempo indeterminato da parte dell’azienda spinge ad accettare ritmi e condizioni disumane (per un salario di 11-12 $ all’ora, con giornate lavorative di dieci ore e pause di pochi minuti) e a stringere i denti in vista di un futuro sistematicamente negato. Tra i discorsi motivazionali delle riunioni d’inizio turno coi capi del personale e un sistema disciplinare «a punti», tra gli ammonimenti dovuti ai bassi tassi di produttività e la pubblicità che descrive una sorta di paradiso dell’impiego, Amazon esercita sulla propria manodopera – quella assunta direttamente e senza scadenza, oltre che quella temporanea – un controllo pressoché totale. E non c’è alcun prezzo da pagare in cambio, poiché l’uso di lavoro temporaneo e di criteri di produttività che consentono di licenziare anche il personale direttamente dipendente abbattono drasticamente i costi sociali del lavoro (oltre che i rischi della sua organizzazione sindacale e politica). Ferocemente fedele al comandamento contemporaneo che impone di nascondere la produzione e di ignorare gli operai, alla domanda su dove viene prodotto il suo Kindle, Amazon di norma risponde che tutto avviene presso un produttore di apparecchiature originali in Cina. Se si sposta lo sguardo dalla produzione alla distribuzione il risultato però non cambia: le condizioni di lavoro si assomigliano, lo sfruttamento e la precarietà sono gli stessi, il salario è una miseria. Più che del paradiso si tratta dell’inferno, e ciò non è dovuto solo alle temperature terribilmente alte che si registrano nel magazzino…

Nel magazzino di Amazon nella Lehigh Valley (Pennsylvania) sono imballati e spediti ai consumatori di tutto il mondo libri, CD e ogni genere di prodotto. Il «Morning Call» ha intervistato venti lavoratori di questo stabilimento, che tutt’ora vi sono impiegati o che lo sono stati. Soltanto uno di loro, un uomo di sessant’anni e disoccupato da uno, dichiara che si tratta di un buon posto di lavoro e di un’azienda sincera. La storia che raccontano gli altri è ben diversa.

Il caldo infernale è al centro delle loro storie, assieme alle minacce di licenziamento per incrementare la produttività e ai rimproveri per il mancato sostegno dei ritmi richiesti. Quando assisti ogni giorno alla scena di dipendenti licenziati e scortati fuori dal magazzino direttamente dai manager, decidi di lavorare duro, anche fino a farti male, piuttosto che correre il rischio di perdere il posto.

Il caldo è un problema serio, talmente serio che Amazon ha deciso di pagare un servizio di ambulanze e paramedici che resti permanentemente fuori dal magazzino nei giorni più caldi dell’anno. Non di rado, i lavoratori sono stati portati in ospedale in barella, e poi rimandati a casa (prima di essere licenziati). E a sostituirli, nuovi lavoratori erano sempre disponibili, reclutati fra i ranghi crescenti dei disoccupati. La scarsa domanda di lavoro induce la gente ad accettare paghe da 11 o 12 $ all’ora, e tanto Amazon quanto l’agenzia che si occupa per Amazon del reclutamento di manodopera, la Integrity Staffing Solutions (ISS) hanno trovato un ricco bacino di aspiranti magazzinieri.

La ISS promette ai lavoratori temporanei che, se lavoreranno duramente, saranno assunti direttamente da Amazon. Secondo i lavoratori intervistati, pochissimi ce la fanno davvero. La promessa, però, serve a ottenere prestazioni lavorative più intense e veloci, condizioni talmente difficili che pochi resistono più di qualche mese. Grazie al lavoro temporaneo, Amazon soddisfa le proprie esigenze senza pagare i costi di incentivi, benefici e sussidi di disoccupazione, e senza correre il rischio che i lavoratori, in continuo turnover, si organizzino all’interno del sindacato.

I racconti dei lavoratori intervistati – tredici assunti da ISS e sette direttamente da Amazon – descrivono uno scenario molto diverso da quello di «allegria e ritmo brillante» che promettono gli annunci di lavoro pubblicati online. Né Amazon né ISS, però, hanno risposto alle questioni espressamente poste loro da «The Morning Call» a partire dalle denunce dei lavoratori.

Amazon ha due magazzini alla fine di Boudler Drive, a Breinigsville, dove si fa un lavoro che pochi clienti potranno mai vedere. I lavoratori che si occupano della ricezione scaricano i camion e tolgono dagli imballaggi i prodotti che poi depositano sugli scaffali che attraversano l’intero magazzino. Sul fronte delle spedizioni, i muletti sfrecciano tra le corsie per raccogliere i prodotti dagli scaffali e portarli agli imballatori che li inscatolano e li inviano ai clienti. Tanto i lavoratori temporanei quanto quelli permanenti sono soggetti a un sistema disciplinare a punti. I punti si accumulano per infrazioni come l’assenza dal lavoro, una prestazione non sufficientemente rapida o l’infrazione di regole di sicurezza come quella che impone di tenere entrambe le mani sul carrello per il trasporto. Se accumula troppi punti, il lavoratore può essere licenziato. In caso di malattia, i lavoratori devono portare un certificato medico se non vogliono essere penalizzati con l’attribuzione di punti disciplinari per la loro assenza. Si può essere penalizzati anche se si lavora troppo lentamente, raccontano, e il ritmo di lavoro è monitorato minuto per minuto attraverso lo scanner manuale che ciascun lavoratore adopera per tracciare i movimenti dei prodotti inventariati e spediti.

Durante l’estate, nel magazzino di Amazon fa caldo. La temperatura può raggiungere i 45 gradi. L’azienda si rifiuta di tenere aperte le porte del magazzino per far circolare l’aria perché teme i furti. I computer effettuano un monitoraggio delle temperature all’interno del magazzino e trasmettono le misurazioni agli addetti via mail. In alcune giornate particolarmente calde, gli interventi dei paramedici sono stati decine. L’azienda, raccontano i lavoratori, accordava la possibilità di tornare a casa a quelli che avevano avuto un malore, che tuttavia venivano penalizzati con l’attribuzione di punti disciplinari se non fornivano poi un certificato medico.

All’inizio di giugno del 2011 una serie di segnalazioni da parte dei lavoratori e di un medico del pronto soccorso locale hanno spinto la Occupational Safety and Health Administration a intervenire. Il risultato dell’ispezione effettuata nel magazzino di Amazon e delle raccomandazioni in seguito indirizzate alla sua direzione dalla OSHA è stato che fossero installati alcuni ventilatori, acquistati fazzoletti e magliette rinfrescanti per il personale, distribuita acqua fresca e – assicurano i manager di Amazon – gelati. La compagnia ha inoltre dichiarato di accordare ai lavoratori cinque minuti di pausa ogni ora, quando le temperature superano i 37 gradi, laddove normalmente i lavoratori raccontano di avere 15 minuti prima e dopo pranzo per ogni turno di dieci ore. La compagnia ha poi dichiarato di essere intervenuta manualmente sul sistema informatico che automaticamente attribuisce penalità disciplinari a quei lavoratori che abbiano abbandonato il lavoro prima del tempo, nel caso in cui l’abbandono fosse dovuto al caldo. I lavoratori intervistati confermano che dopo l’ispezione della OSHA le politiche aziendali sono parzialmente cambiate, e che la ditta ha installato davvero unità di refrigerazione e ventilatori che, però, non riescono a rinfrescare i livelli più alti del magazzino durante l’estate. In effetti, poi, dicono di aver ottenuto più momenti di pausa, ma non una riduzione dei tassi di produzione come quella raccomandata dalla OSHA.

Al «Morning Call», che ha inoltrato ad Amazon le istanze dei lavoratori, la compagnia non ha fornito altra risposta se non una dichiarazione ufficiale che assicura la priorità accordata dalla compagnia alla sicurezza e al benessere dei suoi lavoratori: «Per garantirli offriamo un ambiente lavorativo sicuro, acqua gratis, snack, ventilatori extra e aria condizionata durante l’estate». I lavoratori intervistati raccontano in che cosa consiste davvero questa dedizione alla loro sicurezza e al loro benessere.

Una donna di quarantaquattro anni, disoccupata da due, è stata licenziata dopo diversi ammonimenti dovuti alla sua «lentezza» e dopo che, in seguito a un malessere, la compagnia ha preteso di farle firmare una lettera in cui ammetteva di avere avuto un’esplosione d’ira e di avere inveito contro i suoi responsabili. Lei smetterà di comprare su Amazon.

Un operaio di ventidue anni è stato licenziato dopo che l’azienda lo ha spostato a una mansione particolarmente pesante che ha ridotto i suoi ritmi produttivi. Il suo racconto descrive nel dettaglio gli «incontri motivazionali» tra manager e operai, dove la motivazione consiste nella minaccia di licenziamento. Dei 16 magazzinieri assunti con lui dalla ISS, dopo un anno soltanto due erano ancora in servizio. Lui odia veramente quel lavoro.

Un lavoratore di cinquant’anni racconta di essere stato licenziato dopo sette mesi per non aver garantito ritmi sufficientemente intensi. Ha calcolato di aver percorso, per spostare i pacchi dagli scaffali alla spedizione, anche 25 chilometri al giorno, a piedi. Dei 100 lavoratori assunti con lui, dopo sette mesi ne restavano cinque e solo tre sono stati effettivamente assunti da Amazon. I ritmi richiesti dall’azienda (per lui si trattava di gestire 1200 prodotti in dieci ore, ovvero uno ogni trenta secondi) sono fatti affinché il lavoratore fallisca, e lui ha fallito.

Una lavoratrice assunta dalla ISS ha accettato di firmare un documento che attestava che il suo malessere non era dovuto alle condizioni di lavoro, pur di non accumulare punti disciplinari per avere interrotto l’attività. Un altro lavoratore racconta di aver subito una riduzione del carico di lavoro in seguito a un infortunio: lo hanno fatto sedere e gli hanno ordinato di contare le persone che entravano in ufficio. A un altro è stato ordinato di contare i passanti fuori dalla finestra, a un altro ancora di contare quanta gente andava in bagno…e come questi ha deciso di tornare alla vecchia mansione, salvo poi essere licenziato, dopo due settimane.

In generale, intentare una causa per gli infortuni sul lavoro non conviene, a meno che l’infortunio non sia particolarmente grave. È raro che i lavoratori temporanei esigano i diritti riconosciuti loro dalle leggi sul lavoro.

Al di fuori dei magazzini, quella di Amazon è una storia d’affari di successo. Fondata nel 1994, la compagnia è il più grande venditore al dettaglio online del mondo. Si parla di un profitto di 34 miliardi di dollari nel 2010, tre volte più di quello del 2005. Se all’inizio vendeva solo libri, ora tratta prodotti di ogni sorta, ed è perciò entrata in competizione con distributori del calibro di Walmart. A differenza di quest’ultimo, però, l’attività di Amazon è invisibile ai consumatori, che di fronte hanno soltanto lo schermo di un computer. Quando la compagnia ha annunciato l’apertura di un nuovo stabilimento nella Lehigh Valley, in cui migliaia di persone sarebbero state assunte, la notizia è stata presentata dai media come il segno positivo di un’uscita dalla grande recessione e dalla disoccupazione che ha provocato. Amazon è una delle poche compagnie che assume regolarmente, oggi. Si sa che nel dicembre del 2010 aveva 33.700 dipendenti, ma questa cifra non include i lavoratori temporanei assunti tramite agenzie di reclutamento, e anzi il numero di questi lavoratori non è affatto chiaro né lo è diventato in seguito alle domande del «Morning Call». Alcuni dei lavoratori intervistati dal giornale affermano che il numero di addetti nel magazzino della Lehigh Valley va da 900 a 2000 nelle stagioni piene, e che molti di loro sono assunti dalla ISS, sebbene nei mesi recenti Amazon abbia cominciato ad aumentare le assunzioni dirette.

Anche la ISS evita di rispondere alle domande del «Morning Call», affermando di rispettare la privacy dei suoi dipendenti oltre che la loro sicurezza e il loro benessere. Questa agenzia, che recluta lavoratori per Amazon in tutto il paese, ha supervisori stazionari nei suoi impianti, in modo da evitare il più possibile contatti diretti tra Amazon e i suoi dipendenti. Gli annunci pubblicati per reclutare il personale parlano di lavoro in un’atmosfera «allegra e dal ritmo brillante», e prudentemente avvertono i possibili candidati che talvolta le temperature possono raggiungere – e molto di rado superare – i 35 gradi.

I tredici lavoratori della ISS intervistati raccontano che l’entusiasmo dovuto all’assunzione è venuto meno di fronte alle difficili condizioni di lavoro e al numero esiguo di lavoratori effettivamente assunti direttamente da Amazon, nonostante le promesse di ISS. I lavoratori peraltro concordano nell’affermare che quanto più tempo lavori in magazzino, tanto più peggiorano le condizioni e i ritmi di lavoro. Le misure disciplinari e i richiami sono pretesti sufficienti a giocarsi una volta per tutte la possibilità di un’assunzione diretta, e non è raro che gli incarichi temporanei siano interrotti prima della scadenza pattuita.

La promessa di assunzione, d’altra parte, è uno dei motivi che inducono i lavoratori a cercare di soddisfare i tassi di produttività richiesti. Questi, poi, aumentano esponenzialmente, e sono resi inaccessibili in modo da ottenere un pretesto per licenziare i lavoratori. Non sempre però i pretesti sembrano necessari, come dimostra la storia di una lavoratrice temporanea di 57 anni, che ha scoperto che il suo incarico era terminato nel momento in cui ha portato agli uffici del personale il certificato medico che attestava l’intervento subito per rimuovere un cancro al seno. Anche a lei la ISS aveva promesso un’assunzione diretta. Questa promessa, racconta un’altra lavoratrice, era rinnovata a giorni alterni dai manager, era una vera e propria strategia per ottenere migliori prestazioni lavorative. Pur essendo stata promossa a «addestratrice», anche lei è stata licenziata, stavolta per non essersi presentata al lavoro durante una tempesta di neve. D’altra parte, nessuno dei lavoratori temporanei è stato assunto nel corso dei sei mesi in cui ha lavorato ai magazzini di Amazon.

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