giovedì , 18 Aprile 2024

Riot nelle piazze finanziarie: valore e imprevisti dell’arte contemporanea

di FELICE MOMETTI

In un’intervista di una decina di anni fa Donald Rubell, tra i principali collezionisti americani di arte contemporanea, dichiarò soddisfatto: «le persone stanno cominciando a capire che l’arte è una valuta internazionale». Detto in altri termini, non certo usuali per Rubell, l’arte – soprattutto contemporanea – sta diventando denaro, una forma del valore. Il riferimento non è tanto ai milioni di dollari sborsati per acquistare opere di Warhol e di Basquiat, ma come queste opere diventino assets finanziari di società e imprese transnazionali. The Art Market 2022, il recente report a cura di Art Basel e dell’Unione delle Banche Svizzere (UBS), mostra come il mercato mondiale dell’arte nel 2021 sia cresciuto del 29% rispetto all’anno precedente, superando di gran lunga anche i valori degli anni pre-pandemici. La mappa del mercato mondiale dell’arte si sviluppa lungo l’asse Stati Uniti (43% delle transazioni), Cina (20%), Regno Unito (17%). Volendo essere più precisi tra New York, Shanghai-Hong Kong e Londra. Un mercato dell’arte che continuamente si riproduce ed espande nella connessione delle principali piazze finanziarie globali. Come del resto si vede anche dall’aumento del 73%, rispetto agli anni precedenti, nell’uso di token non fungibili, mediante piattaforme blockchain come Ethereum e Ronin, per la proprietà di opere artistiche multimediali ma anche musicali. Con buona pace di Walter Benjamin, dopo averla persa le opere d’arte hanno riconquistato l’aura. La differenza consiste, rispetto al passato, nella coincidenza tra la nuova aura dell’opera e la proprietà della stessa.

 Normalizzare Documenta

 Kassel è una media città tedesca dove ogni cinque anni – per tre mesi – si svolge Documenta, la più grande esposizione al mondo di arte contemporanea, arrivata quest’anno alla quindicesima edizione. Documenta è sempre stata un luogo attraversato da acute contraddizioni. Sospesa tra sempre più forti spinte per una completa valorizzazione economica e istituzionale e la difesa – sempre più difficile – di alcuni spazi interni non assoggettati a logiche finanziarie e di mercato. In questa edizione la direzione artistica, non senza preoccupazioni e opposizioni, è stata affidata al collettivo indonesiano ruangrupa. Un collettivo che si occupa di arte multimediale e comunicazione, non trascurando l’intervento sociale, scelto al posto di curatori di mostre professionisti legati al circuito internazionale di musei, collezionisti, riviste, piattaforme finanziarie, com’era stato fino ad oggi. Una svista del management dell’arte? Una serie di circostanze sfuggite di mano? Un senso di colpa verso l’arte contemporanea del ‘Sud del mondo’, poco rappresentata nelle grandi esposizioni internazionali? Probabilmente un insieme di queste cose.

Il progetto presentato da ruangrupa per la scelta degli artisti partecipanti, l’organizzazione degli spazi espositivi e gli eventi collaterali di Documenta 15 aveva al centro la riproduzione su larga scala del concetto di lumbung: il luogo dei villaggi indonesiani utilizzato per immagazzinare l’eccedenza di un raccolto di riso prima che la comunità prenda decisioni collettive su come assegnarlo. Per creare un lumbung a Kassel ruangrupa ha invitato per la prima volta 14 collettivi di artisti da tutto il mondo a presentare dei lavori a Documenta. Quei collettivi a loro volta hanno invitato più di 50 artisti a partecipare. Tutti gli artisti partecipanti sono stati quindi organizzati in 10 mini-majelis, o piccoli gruppi di incontro, per garantire che tutti fossero coinvolti nella decisione su se e come collaborare. La proposta di ruangrupa è la creazione di un network di artisti, cooperativo e interdisciplinare che, formandosi durante Documenta 15, vada oltre la grande esposizione e metta in discussione il potere dei curatori, dei collezionisti, delle grandi gallerie nel decretare il riconoscimento di un’attività artistica. Un approccio che ha provocato, ancor prima dell’apertura di Documenta 15, la forte opposizione di tutto quel mondo dell’arte che vive nel rapporto con le istituzioni finanziarie. E per contrastare ruangrupa è iniziata una campagna internazionale per delegittimarne la direzione artistica durante lo stesso svolgimento di Documenta.

Si è scavato a fondo nell’attività del collettivo indonesiano fino a montare uno scandalo per una dichiarazione, di anni fa, a favore del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele. Un movimento considerato antisemita in Germania, dopo una mozione bipartisan votata dal parlamento tedesco nel 2019. Tutte le opere, installazioni, performance di Documenta 15 sono state analizzate nei minimi dettagli alla ricerca di altri motivi per alimentare la contrapposizione a ruangrupa. E People’s Justice, una grande opera dipinta su stoffa realizzata nel 2002, esposta a Kassel dal collettivo indonesiano Taring Padi, è stata bollata come antisemita per la critica contenuta al Mossad – il servizio segreto israeliano – e per una caricatura di un personaggio, tra le centinaia rappresentati, che poteva ricordare un ebreo. A nulla sono servite le scuse del Taring Padi e la rimozione dell’opera da parte della direzione artistica. È a dir poco evidente la strumentalità delle accuse di antisemitismo. La vera posta in gioco è la chiusura, in questa e nelle prossime edizioni di Documenta, di ogni spazio espositivo che non sia in qualche modo subordinato alla valorizzazione finanziaria dell’arte contemporanea.

 Riot Art

O’Flaherty’s, nome che potrebbe ricordare un pub irlandese, è una piccola galleria d’arte di Alphabet City a New York. Lontana dalle grandi gallerie di Chelsea e Tribeca, è collocata tra un abbozzo di orto urbano e uno studio dentistico. È aperta da meno di un anno ed è già sotto sfratto esecutivo. Sulla vetrina appare la scritta luminosa: What’s wrong? Appunto, che cosa c’è di sbagliato nel sistema dell’arte contemporanea? Il potere dei galleristi, dei curatori, dei collezionisti. L’integrazione tra finanza, case d’aste e fiere d’arte come Art Basel e Frieze Art Fair. Un turismo culturale sostenuto da un aggressivo marketing «delle emozioni e delle esperienze» nei quartieri con un brand riferito all’arte o all’architettura, che spesso è il preludio di un processo di gentrificazione. In tale situazione per O’Flaherty’s non rimane che dar vita a «esperimenti selvaggi che completano il caos nel miglior modo possibile». Un mese e mezzo fa ha lanciato una call rivolta ad artisti già affermati, artisti improvvisati, non artisti, abitanti del quartiere per una mostra collettiva dal titolo The Patriot, senza alcuna specificazione.

 Sono arrivate più di mille opere, senza nome dell’autore né didascalia, che hanno coperto ogni centimetro quadrato della galleria. Dalle pareti al pavimento e al soffitto. Dai servizi igienici all’ufficio dell’amministrazione. Dalla vetrina al marciapiede esterno. L’inaugurazione ha visto la partecipazione di duemila persone che hanno dato vita ad un happenig improvvisato tra interno ed esterno della galleria interrotto dall’arrivo in forze della polizia. Nessun catalogo della mostra e nemmeno merchandising. Solo un volantino, di una decina di righe, in cui si afferma: «abbiamo letteralmente preso qualsiasi pezzo di merda che hai portato dentro, che fosse fantastico o spazzatura totale, e abbiamo cercato di farne un’idea». Una mostra collettiva chiamata The Patriot che, nel rappresentarsi, spezza anche la parola del titolo: The Patriot, patriot…riot. Un riot di opere d’arte con citazioni e riferimenti alla rinfusa all’ultimo secolo della storia dell’arte. Un’inaugurazione a metà tra performance e riot che ha investito l’intero quartiere. O’Flaherty’s e ruangrupa sono due modi diversi per opporsi al sistema dell’arte contemporanea. Non è questione né tempo di scegliere il più propositivo ed efficace. Ora è solo il tempo della loro necessaria diffusione e moltiplicazione.

Print Friendly, PDF & Email

leggi anche...

La sociologia di Émile Durkheim e la risposta al «disagio della critica»

di MAURIZIO RICCIARDI La versione abbreviata di questa recensione è stata pubblicata su «Il Manifesto» …