martedì , 19 Marzo 2024

Wendy Brown, una democrazia in pessimo stato

di ELEONORA CAPPUCCILLI

Una versione abbreviata di questa intervista è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 7 gennaio 2020.

In questa intervista Wendy Brown, teorica politica statunitense e autrice di diverse opere sul neoliberalismo discute del suo ultimo libro In the Ruins of Neoliberalism, di cui abbiamo di recente pubblicato una recensione. A partire dall’osservazione che la democrazia negli Stati Uniti e nel Nord globale non gode di buona salute, Brown ripercorre le origini del neoliberalismo e ricostruisce la traiettoria del suo successo e della sua degenerazione. Grazie a personaggi come Donald Trump, che hanno offerto nebulose promesse di ritorno a quella prosperità ed eguaglianza di cui molti sono stati defraudati dalle politiche neoliberali stesse, il discorso neoliberale ha prodotto la crisi democratica a cui assistiamo oggi. Questa crisi si manifesta nelle ondate di repressione contro i movimenti sociali che si stanno moltiplicando e diffondendo in tutto il mondo, da quello delle donne e dei migranti, alle manifestazioni contro i regimi autoritari in tutta l’America latina e nel Medio Oriente. Le riflessioni di Brown mostrano la tensione profonda che attraversa la democrazia, non solo negli Stati Uniti, di fronte a governi sempre più autoritari, razzisti, patriarcalisti, e di fronte al capitalismo finanziario, al fondamentalismo religioso, alla catastrofe climatica. Davanti a queste minacce e a queste sfide, la democrazia stenta a trovare il modo di porsi come forza capace di andare oltre i confini e i vincoli entro cui il programma neoliberale l’ha rinchiusa, svuotandola di senso. Anche quando, come è per Brown, la scala locale e nazionale rimane centrale per la riconfigurazione di un futuro democratico, la critica del neoliberalismo non può evitare di fare i conti con la sua dimensione compiutamente globale e con pratiche di solidarietà transnazionale capaci di connettere lotte e rivendicazioni eterogenee accumulando la forza necessaria per renderle efficaci.

***

Nel tuo ultimo libro, In the Ruins of Neoliberalism discuti il problema di come il neoliberalismo danneggi e indebolisca la democrazia. A tuo parere, il processo di impeachment nei confronti di Trump sarà capace di rivitalizzare la democrazia negli Stati Uniti? Che ruolo può giocare l’impeachment nella prossima campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre 2020?

Possiamo solo sperare che le udienze sull’impeachment siano state ascoltate da un pubblico con una sensibilità per il problema della democrazia. Molti sostenitori di Trump, e anche molti che non lo sostengono, stanno liquidando le udienze come un battibecco tra partiti, come un tentativo del Partito Democratico di ostacolare la presidenza di Trump. Quindi, per quanto le udienze abbiano dimostrato che il presidente ha utilizzato la propria carica e la politica estera per un tornaconto personale – che è esattamente la definizione di corruzione – questa corruzione non sarà considerata da milioni di americani e dai leader repubblicani una minaccia per la democrazia. Questo ci mostra che la nostra democrazia è in pessimo stato: la risposta alle udienze è una misura di quanto siano caduti in basso anche gli standard della stessa democrazia borghese.

Nel tuo resoconto, il successo di Trump sarebbe stato favorito dall’insoddisfazione e dal risentimento di una parte dei maschi bianchi della classe operaia e della classe media in risposta alla loro perdita di privilegi. Tuttavia, come hai sostenuto in States of Injury (1995), questi privilegi perduti consistevano in una serie di misure di welfare che, da un lato, erano il risultato delle lotte dei lavoratori, bianchi e neri, delle donne e, dall’altro, venivano amministrati dallo Stato sociale e democratico del XX secolo tramite la produzione di categorie sociali e gerarchie. In altre parole, potremmo dire che è stato il welfare State stesso ad aver trasformato i diritti sociali in privilegi. Non pensi quindi che imputare l’ascesa di Trump ai maschi bianchi operai e di classe media possa prestare il fianco a quella logica della frammentazione e della «produzione dei soggetti» che sta alla base del programma neoliberale e della sua degenerazione di estrema destra?

Porrei la questione in modo diverso. La democratizzazione del capitalismo nel Nord globale dopo la Seconda guerra mondiale ha comportato l’implementazione di una serie di misure di giustizia sociale per regolamentare il capitalismo «con moderazione» e ridistribuire la ricchezza prodotta. Certo, ciò ha comportato contemporaneamente la riproduzione di gerarchie razziali, di genere e di classe. Nondimeno, questi correttivi del capitalismo hanno generato la possibilità di una ascesa sociale per molti soggetti bianchi operai e di classe media dopo la guerra. Il neoliberalismo ha accantonato tutto questo, attaccando non solo lo Stato sociale ma anche i sindacati, il salario minimo, l’accessibilità dell’educazione universitaria e molto altro. Chi è che si è ribellato a tutto questo? La popolazione bianca, operaia e di classe media, che contava sulla promessa di una vita decente per sé e migliore per i propri figli. Ma invece di incolpare l’economia neoliberale per la rottura di questa promessa – salari ribassati, esternalizzazione delle imprese, esplosione dei costi per la salute e la casa – essi hanno incolpato per le loro perdite e le loro delusioni lo Stato, le femministe, i cosiddetti globalisti, i multiculturalisti e soprattutto le minoranze razziali e i migranti. Questo spostamento dell’obiettivo è dovuto a un insieme di astute strategie portate avanti dal Partito Repubblicano e dai cristiani evangelici. Ma è stato anche favorito dall’attacco allo Stato, alla democrazia e alla giustizia sociale contenuto nella stessa ragione neoliberale. Quindi porrei la questione in questi termini: ciò che si è rotto è il contratto sociale post-bellico che aveva promesso sicurezza e un certo grado di mobilità sociale alle classi medie e operaie bianche. Certo, questa rottura era stata invocata dagli intellettuali neoliberali che auspicavano l’apertura dei mercati globali delle merci e del lavoro. Essi sapevano che questo avrebbe potuto mettere in difficoltà la classe operaia nel Nord globale, che ritenevano fosse artificialmente supportata dallo Stato sociale, dalle restrizioni del commercio e della mobilità del lavoro, dalla tassazione progressiva e dagli ampi investimenti pubblici in educazione, infrastrutture e servizi. Con la privatizzazione, l’educazione, i trasporti, i servizi municipali, le biblioteche e molto altro da largamente accessibili sono diventati a pagamento. La disuguaglianza è cresciuta, quindi, sia a livello di ricchezza sia a livello di accesso a quelli che erano stati beni comuni: i ricchi possono pagare per guidare su autostrade libere dal traffico in cui sono invece inchiodati i poveri; i ricchi possono pagare per un’istruzione universitaria al di fuori della portata dei più. La destra ha brillantemente trasformato questa frustrazione in una rabbia razzista e sessista. Ovvero, ha preso la frustrazione per la fine del sogno americano e l’ha trasformata nel racconto di come i soggetti che hanno tratto vantaggio dalle affirmative actions – neri, donne e migranti – abbiano sfruttato tutte le opportunità che la classe operaia bianca aveva perduto. Di fatto, la popolazione afroamericana ha subito molti più danni di quella bianca con la distruzione dell’accesso alla casa, ai trasporti e all’educazione, con l’attacco ai sindacati e lo spostamento delle grandi industrie fuori dal paese. Tuttavia, il mito delle affirmative actions che avrebbero garantito vantaggi a tutti tranne che ai lavoratori bianchi ha funzionato e la sua irritante dimostrazione è stata l’elegante famiglia nera che ha vissuto per otto anni alla Casa Bianca.

Le classi medie e lavoratrici non vedevano i benefici delle infrastrutture create dalle loro tasse?

Il neoliberalismo ha fatto apparire le tasse un furto e il razzismo americano ha aggiunto a tutto questo l’idea che tale furto sia perpetrato da migranti immeritevoli e dai neri o latinos che dipendono dai servizi sociali. Con il suo individualismo iper-metodologico, il neoliberalismo cancella il fatto che la spesa pubblica finanzia infrastrutture di trasporto e comunicazione, biblioteche, scuole e servizi di cui tutti hanno bisogno. Neoliberali e conservatori allo stesso modo si oppongono alla maggior parte dei beni pubblici e alle tasse che li finanziano, sostenendo che quello che guadagni dovrebbe essere tuo e che quello che lo Stato ti toglie viene dato a qualcun altro. Questa storia ha dominato negli Stati Uniti per più di 30 anni ed è promossa da entrambe le parti. Trump ne è solo la ripetizione più sfacciata. È salito al potere sostenendo che evadere le tasse sui suoi milioni di dollari non lo rende disonesto, ma piuttosto, come ha detto lui stesso, «intelligente».

E ha funzionato. Come si concilia questa spiegazione del successo di Trump con il fatto che anche alcune donne bianche e persino alcuni migranti di lunga data abbiano votato per Trump in risposta alle politiche neoliberali e al femminismo «del farsi avanti» di Clinton? Come è possibile fare i conti con le rivendicazioni di giustizia sociale provenienti da coloro che hanno votato per Trump?

Ci sono almeno una dozzina di tipologie di elettori di Trump: dagli uomini bianchi risentiti che vanno a nozze col suo aperto sessismo e razzismo, a coloro che credevano davvero che avrebbe aumentato i posti di lavoro e arginato la deindustrializzazione che disintegra quartieri, famiglie e determina la loro disperazione. Molti di coloro che sostengono Trump sono anche arrabbiati per il trattamento condiscendente che ricevono dall’élites urbane, per come trattano la loro ignoranza e i loro modi di vita – il cosiddetto «divario culturale». Poi ci sono gli elettori della «destra dura» che amano il suo flirt con il fascismo e ci sono i plutocrati a cui Trump non piace, ma quello che piace loro è il suo impegno a renderli sempre più ricchi, per ridurre tutti i limiti, le regolamentazioni e le misure redistributive che porrebbero un freno a questo progetto. C’è l’industria petrolifera, il settore “FIRE” [finanza, investimenti, rendita immobiliare] e tutte le altre industrie altamente inquinanti a cui Trump ha dato nuova vita. E poi abbiamo la destra religiosa. Sta crescendo in questo paese ormai da ben 45 anni, ed è molto meno interessata a Dio che all’autorità, al patriarcato e alle norme di genere della famiglia tradizionale, come pure ai bianchi, alla nazione e al patriottismo. Gli evangelici militanti hanno preso chiari accordi con la destra non religiosa e con i neoliberali, accordi che sono una parte essenziale del fenomeno Trump. La base elettorale degli evangelici costituisce più della metà dei sostenitori di Trump ed è assolutamente solida. Sanno che non è uno di loro, sanno che è un uomo senza Dio, ma porta a casa risultati sull’aborto, sulle questioni LGBT, sulla famiglia, sulla preghiera nelle scuole, su Gerusalemme [per farla diventare capitale d’Israele] e sulle nomine di giudici alla corte suprema che possano promuovere e difendere la loro agenda politica. Ci sono insomma diversi tipi di elettori, ma ciò che li unisce è il sostegno a un programma autoritario, antidemocratico, misogino e sessista, razzista, contro i migranti, che in più ha al centro un capitalismo ruggente e l’indifferenza verso il pianeta e la crisi climatica.

Nel tuo libro nomini movimenti sociali quali Occupy Wall Street e Black Lives Matter come esempi di una politica democratica guidata da una rivendicazione di uguaglianza. Negli ultimi anni, tuttavia, molti movimenti sociali su scala globale – ad esempio le lotte di massa delle donne dall’Argentina all’Arabia Saudita, i movimenti di migranti attraverso le frontiere, le rivolte antiautoritarie come quella del Cile, gli scioperi contro la precarietà e lo sfruttamento negli Stati Uniti, quali lo sciopero delle insegnanti o FightFor15 – hanno sfidato il programma neoliberale. È possibile stabilire una correlazione tra la degenerazione autoritaria del neoliberalismo – come la repressione in corso in Cile, Ecuador e Bolivia, la guerra contro i migranti e quella in Kurdistan, ma anche l’aumento della violenza contro le donne – e questi movimenti sociali? Si può definire questa una reazione nei termini della «politica di vendetta» a cui fai riferimento nel libro?

In alcuni casi vendetta è la parola giusta, nel senso di una ritorsione contro i programmi sociali progressisti: «pensavate di avere il potere, ma abbiamo appena eletto Trump – o Bolsonaro, o Piñera, o Erdogan… Guardate qua!». Ma dobbiamo prestare molta attenzione alla forma antidemocratica di queste ritorsioni. Per quarant’anni il neoliberalismo ha smantellato le istituzioni democratiche, rovesciando i regimi democratici e sfidando la legislazione democratica con il fondamentalismo del mercato. Come razionalità di governo, il neoliberalismo sfida il valore stesso della democrazia e mira a sostituirla con i mercati, il tradizionalismo morale e uno statalismo limitato. Mira a separare il liberalismo dalla democrazia, preservando il primo e rifiutando la seconda. Gli attuali movimenti liberali autoritari e di destra sono la progenie di questa offensiva di lungo periodo. In altre parole, se la reazione conservatrice contro il femminismo o i diritti LGBT non ha sempre avuto questo carattere ferocemente autoritario e antidemocratico, perché ora ha assunto ovunque questi tratti? Si potrebbe rispondere che questo autoritarismo, l’odio della giustizia sociale e l’indifferenza alle istituzioni e ai protocolli democratici è plasmato dall’insistenza neoliberale sul fatto che a governare debbano essere i mercati, la morale tradizionale e uno statalismo non democratico, non la volontà popolare.

Come metti in evidenza nel tuo libro, il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale che può portare all’estinzione dell’individuo. In che modo ciò si collega all’ondata di politicizzazione dei giovani che si riconoscono nelle manifestazioni di Fridays for Future? Pensi che queste lotte per il clima siano in grado di minare le logiche neoliberali? Se sì, come?

Ciò che è davvero incredibile di Fridays for Future, Extinction Rebellion e Sunrise Movement è l’insistenza sul fatto che non c’è niente di più importante che prendersi cura del pianeta e dei suoi abitanti in modo sostenibile. Ciò rappresenta una sfida decisiva alle logiche e alle imposizioni del mercato. L’idea che l’importanza dell’accumulazione del capitale o della crescita economica debba essere radicalmente subordinata alla difesa della biodiversità nel pianeta sta ormai diventando senso comune. Si tratta di un’idea che si estende ben oltre la cerchia degli attivisti e la nostra iniziativa, ed è ormai entrata nel dibattito politico mainstream e in larga parte delle coscienze. Questo è rivoluzionario.

Nel tuo libro, l’istanza democratica è legata alla possibilità che le rivendicazioni per l’uguaglianza siano rivolte direttamente allo Stato. Anche laddove lo Stato non viene considerato come la soluzione alle disuguaglianze sociali, esso rimane un attore cruciale nell’articolazione di un processo democratico aperto, che dovrebbe essere in grado di ripoliticizzare la società e contrastare efficacemente l’azione dei poteri sociali. D’altra parte, però, abbiamo anche modo di vedere come l’autonomia dello Stato sia radicalmente minata dalla dimensione transnazionale di quegli stessi poteri. Com’è possibile affrontare questa tensione contraddittoria, anche considerando che migranti, lavoratori e donne stanno articolando le loro richieste di uguaglianza su una dimensione transnazionale e non solo nazionale?

La democrazia si basa sulle condizioni dell’uguaglianza politica. Pertanto, per essere efficace la domanda di democrazia deve oggi rivolgersi allo Stato e allo stesso tempo andare oltre lo Stato. Deve chiedere che lo Stato contribuisca alle condizioni di uguaglianza politica e si impegni a proteggere tali condizioni attraverso l’istruzione, l’emancipazione universale, elezioni davvero democratico e condizioni di vita che rendano possibile la partecipazione politica. Tuttavia, lo Stato non esaurisce certo il soddisfacimento di tali condizioni. Certe condizioni di uguaglianza politica entrano in gioco anche se si guarda ad ambiti subnazionali come i luoghi di lavoro, gli spazi della società civile, i media. E molti attivisti e istituzioni sono oggi orientati verso possibilità democratiche post-nazionali e transnazionali. In tutto questo, però, non possiamo essere ciechi di fronte alla rilevanza della forza dello Stato e delle sue possibilità – quelle offerte dal diritto, dalle politiche pubbliche, dalla previdenza e dalla protezione sociale. Ma d’altro canto non possiamo fermarci lì. Le richieste transnazionali di democrazia rischiano di essere evanescenti. Una cosa è protestare contro le priorità o le politiche antidemocratiche o legate allo sfruttamento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, dell’FMI e di altre istituzioni transnazionali, un’altra è invece immaginare la democrazia a livello globale. Penso che la confusione sorga anche perché alcuni movimenti sociali transnazionali scambiano la solidarietà con la democrazia. Sono entrambe importanti ma sono molto diverse. La democrazia riguarda il nostro comune autogoverno. La solidarietà ha a che fare con la connessione tra lotte diverse, riguarda il guardarsi le spalle a vicenda, mettendoci la faccia o sostenendo la resistenza e le aspirazioni dell’altro, per acquisire coraggio e potere. Questo è diverso dalla democrazia.

Ci puoi dire qualcosa in più su questa distinzione?

La democrazia rappresenta l’aspirazione di un popolo a governare se stesso nel suo insieme. I suoi opposti includono l’essere governati da una forza esterna (colonialismo), l’essere governati da una parte (plutocrazia, autocrazia, oligarchia, tirannia) o l’essere governati da forze invisibili e antidemocratiche (mercati, finanza, forme di razionalità vessatorie, ecc.). La solidarietà è diversa. Essa rappresenta lo sforzo di costruire alleanze tra lotte diverse o rappresenta lo stare insieme per qualcosa. Se sono solidale nei tuoi confronti, cerco di fare fronte comune con te, cerco di dare la mia voce o la forza di cui dispongo a favore della tua causa. Ma questa solidarietà non significa che stiamo lottando per la democrazia! Non stiamo governando insieme, bensì ci supportiamo l’un l’altro stando insieme. Abbiamo bisogno di queste distinzioni nelle pratiche politiche e nelle posizioni da assumere, così da evitare di dare per scontato che tutto ciò che sosteniamo (solidarietà, democrazia, uguaglianza, libertà, sostenibilità, decolonizzazione, ecc.) sia intercambiabile e compatibile. Ciò equivarrebbe a elaborare un pensiero superficiale e – cosa ancor peggiore – precluderebbe il fondamentale compito di distinzione nell’eventualità in cui i diversi principi che vogliamo affermare entrino in collisione. Cosa succederebbe se, in una democrazia, non praticassimo solidarietà nei confronti di tutti? Cosa succederebbe se la democrazia richiedesse di imparare a governare in comune e per il comune con coloro con i quali ci sentiamo poco o per nulla solidali? E cosa succederebbe se fossimo solidali con lotte non democratiche o con pratiche affermate da altri – ad esempio pratiche di resistenza, di legittimità o di sovranità che siano escludenti o inegualitarie? Qui voglio anche insistere sul fatto che la democrazia richiede che si sappia chi è il «noi» che mira a governare se stesso. Non possiamo essere vaghi su questo punto. Ad esempio, se stiamo cercando di facilitare l’accesso alla casa e abbassare i prezzi, in una zona dove nessuna delle due condizioni è data, ciò può portare a tracciare linee che mirino a escludere gli «acquirenti stranieri» – come l’imposizione di una tassazione più alta per i non residenti che cercano di acquistare beni immobili nella nostra zona. Questo sforzo di «esclusione» è centrale se vogliamo democratizzare l’accesso alla casa. Allo stesso modo, i progetti di sovranità alimentare cercano di riottenere il controllo locale sulla produzione e distribuzione agricola, nello stesso modo in cui i progetti di sovranità indigena si prefigurano di riprendere potere decisionale indigeno esclusivo sul territorio e sulla loro vita. Tutti questi progetti impongono di tracciare una linea di separazione tra chi sta dentro e chi sta fuori; questa separazione è cruciale nell’idea di governo democratico. È per questo che non credo nella democrazia globale anche se si può comunque sperare che la democrazia possa essere raggiunta ovunque. Nel concreto, democrazia significa che le persone hanno controllo sulle proprie condizioni di vita. Di nuovo, questo è diverso dalla solidarietà transnazionale nelle lotte di resistenza.

I migranti però difficilmente possono essere considerati soggetti ancorati a un luogo solo perché si spostano continuamente…

No! Se si pensano i migranti come soggetti che si muovono continuamente, li si sta essenzializzando come migranti, si stanno rappresentando tutti i migranti come nomadi. Quando le persone sono obbligate a spostarsi o private dei loro beni, la questione centrale è come potranno sviluppare un senso di appartenenza in un nuovo posto. Certamente c’è bisogno di garantire diritti per gli apolidi, per i migranti e per i rifugiati quando si trovano in queste condizioni. Ma abbiamo bisogno anche di molto altro. Abbiamo bisogno di movimenti sociali che promuovano un senso di appartenenza, pratiche e istituzioni che lavorino per ottenere una profonda liberazione sociale, politica ed economica, e oltretutto, che abbiano delle caratteristiche locali, che si confrontino con problemi locali e che si pongano delle sfide specifiche in ambito culturale, politico ed economico. Questo non è qualcosa che può essere raggiunto con un’azione transnazionale, anche se le dimostrazioni di solidarietà transnazionale sono utili. Ma in un mondo in cui ci sono ormai settanta milioni di profughi – un numero mai visto finora nella storia – non funzionerebbe affidarsi a una politica volta a proteggere il migrante dal potere essenzializzando il migrante invece che migliorandone la condizione per avere qualcosa di più.

Se guardiamo ai movimenti delle donne che si sono diffusi negli ultimi due o tre anni, vediamo che risuonano l’uno con l’altro, usano gli stessi slogan in tutto il mondo, dichiarando che il patriarcato è globale…

Sì, ci sono delle risonanze (e delle differenze!) tra le lotte delle donne in tutto il mondo. Questo crea le condizioni per una solidarietà tra movimenti e anche per ciò che potremmo chiamare uno stimolo reciproco – una lotta per la libertà riproduttiva, contro la violenza sessuale o contro il femminicidio in una regione ispira le stesse lotte altrove. Ma se il patriarcato è globale, non è per forza universale il modo in cui si manifesta: ha molte particolarità e variazioni locali. Non si presenta mai solo e si interseca con altri sistemi di potere – di classe, casta, razza, religione, «cultura», etc. – anche se alcuni problemi possono essere percepiti come comuni a tutte le donne. Più c’è solidarietà, più forti siamo nel ribellarci al patriarcato e nel trasformarlo e, se possibile, più siamo rivoluzionarie nel contrastare alcuni di quei sistemi di potere.

In questi anni il movimento globale delle donne ha radicalmente riconfigurato il femminismo. Questo nuovo femminismo sarà capace di mettere in discussione la logica antidemocratica del neoliberalismo?

Su questo non ci sono garanzie. Come sappiamo, il femminismo può benissimo essere neoliberale (o, prima del neoliberalismo, liberale). Può fare uso di logiche e modalità neoliberali e può essere d’aiuto nel mantenere il potere e i privilegi di alcune donne al vertice delle gerarchie di casta, razza e classe. Questa è la storia del femminismo bianco borghese. Perciò non ci sono garanzie che il femminismo possa mettere in questione la logica antidemocratica del neoliberalismo oppure del colonialismo, del capitalismo, dell’eteronormatività, del «cristiano-centrismo» e via dicendo. Queste sfide devono essere sviluppate in modo esplicito e perseguite attivamente. E nemmeno si potrà pensare che tutte le donne aderiscano a questo progetto in quanto tante di loro hanno molto da perdere. Non è nemmeno una questione di rimediare a una falsa coscienza: molte donne traggono vantaggio o riproducono stratificazioni e forme di dominio contro le quali voi e io potremmo opporci. Proprio perché il genere non esaurisce tutto ciò che siamo, non ci si può aspettare che il femminismo proponga una politica necessariamente radicale.

Qualche idea su come fare un tentativo in questo senso?

È un’annosa questione. Come spingere le classi privilegiate a partecipare a un movimento rivoluzionario e come allargare un movimento contro un tipo specifico di dominio trasformandolo in un movimento che si opponga a quanti più tipi di oppressione possibili? Ci si può provare con la ragione, con il senso di colpa, con un’incitazione morale… tutto ciò è stato già tentato, e si può tentare nuovamente. Ma io non ho una soluzione preconfezionata. Una cosa è fare in modo che la gente critichi la disuguaglianza. Un’altra cosa è fare in modo che aspiri e lotti per l’uguaglianza in modo sincero. Moltissima gente condanna la disuguaglianza e le sue conseguenze, il cambiamento climatico e le sue conseguenze, il colonialismo e le sue conseguenze. Chiedi a queste persone se siano disposte a fare sacrifici, a cambiare il proprio modo di vivere, a mettere da parte il benessere, il lusso, o i privilegi che hanno per avere un mondo veramente egalitario e sostenibile… non si mostreranno particolarmente entusiasti. È facile denunciare quello che non funziona, più difficile è mettersi in gioco per un cambiamento. Ne vale la pena ovviamente. Vogliamo un pianeta in salute e giustizia sociale. Quindi dobbiamo cominciare a immaginare una vita diversa, radicalmente diversa, e non solamente protestare contro la situazione attuale.

 

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