mercoledì , 13 Novembre 2024

La precarietà delle nostre connessioni

In questi due anni di ∫connessioni precarie poche cose si sono imposte con il segno violento della novità. Altre cose si sono modificate al punto da richiedere una ridefinizione. Altre ancora sono semplicemente scomparse. Molti, se non tutti i nostri problemi sono rimasti aperti e aspettano ancora di essere affrontati.

La crisi è diventata «il padrone» con il quale milioni di proletari devono fare quotidianamente i conti. Essa ha accelerato processi di precarizzazione investendo tutti i segmenti della forza lavoro. La precarietà è stata così liberata dal suo tratto generazionale, esistenziale, professionale, migrante, diventando una condizione generale. Mentre questo processo si è affermato inesorabilmente, è venuto progressivamente meno il progetto di esprimere un punto di vista precario su una scala quanto meno nazionale. Anche la parola d’ordine dello sciopero precario non è mai riuscita ad andare oltre l’intuizione che pure esprimeva. Con l’eccezione politica dei migranti, lo sciopero precario non c’è stato. Il nesso indiscutibile tra lavoro precario e povertà non ha prodotto in Italia le continue mobilitazioni di massa che da anni ormai vediamo in Spagna, Portogallo e Grecia. Di fronte a questa situazione aumentano comprensibilmente le descrizioni degli stati di necessità più disparati e delle mille oppressioni quotidiane, nella speranza che alla fine la necessità e la repressione diventino davvero uno scandalo. Altrettanto comprensibilmente alle situazioni di lotta aperta viene immediatamente attribuita la caratteristica di modello da espandere o da ripetere. Non è però mai successo che il modello trovasse davvero delle repliche all’altezza. E questo è parte del problema.

In questa situazione che presenta allo stesso tempo caratteri generali e particolari, la recente esperienza dei migranti della logistica pone questioni centrali a chi voglia immaginare e praticare nuove lotte sui luoghi di lavoro. La prima riguarda il fatto che certe situazioni, che esplodono per l’alto grado di sfruttamento e di abuso che le caratterizza, hanno la possibilità di organizzarsi proprio per la particolare omogeneità della composizione del lavoro: come le fabbriche classiche i magazzini della logistica sono luoghi di concentrazione di lavoratori legati da una comune condizione oggettiva, in questo caso il permesso di soggiorno. L’organizzazione ha potuto far leva su di un’omogeneità che sta all’intreccio tra la categoria, la Bossi-Fini, il sesso (quasi il 100% di lavoratori maschi) e la provenienza (che ricalca un’organizzazione del lavoro nelle cooperative che fa leva anche sull’appartenenza comunitaria). A partire da queste condizioni i lavoratori si sono riconosciuti come uguali. Proprio in virtù di questa specificità, l’esperienza nella logistica non può essere immediatamente generalizzabile, né si può considerare come un paradigma: piuttosto, si tratta di riconoscere che questo focolaio è esploso per le sue particolarità, che lo separano dal contesto generale e che hanno reso possibile uno specifico intervento sindacale. Non a caso, nonostante tutti i lodevoli sforzi di solidarietà, i migranti della logistica sono rimasti finora politicamente soli nelle loro lotte.

In questo senso, un’altra lezione fondamentale proveniente dall’esperienza nella logistica è che i movimenti non possono sostituirsi ai sindacati. Come dimostra il fallimento di ogni tentativo che negli ultimi anni sia andato in questa direzione, e come dimostrano le diverse esperienze di «organizzazione dell’inorganizzabile» portate avanti non solo in Italia (dai cleaners londinesi ai fast food workers di New York alle lavoratrici a domicilio in Pakistan), il sindacato è una struttura insostituibile per queste lotte impossibili. Non si tratta di negare i (tanti) limiti della forma sindacale, che abbiamo osservato in altre occasioni e che riguardano anche i sindacati più coerenti, ma di riconoscere che il sindacato è per i lavoratori una tattica di conflitto ancora centrale. Si tratta però di una tattica che non esaurisce la sfida dell’organizzazione: essa è possibile proprio all’interno di segmenti omogenei, proprio perché il lavoro è settorializzato, proprio perché è governato da un sistema di leggi – civili e di mercato – ben specifico, e può quindi essere parte di una battaglia di posizione per scompaginare i rapporti di forza all’interno di particolari luoghi di lavoro.

Per questa ragione, difficilmente il sindacato può essere considerato come la forma politica in grado di mettere in campo un movimento di massa che raccoglie e unifica una moltitudine varia di molteplici singolarità. Il sindacato non può essere questa forma perché è destinato a organizzare segmenti specifici di forza lavoro, a partire dalle loro esigenze concrete e dalla concreta controparte che si trova di fronte. Proprio perché in grado di organizzare puntualmente situazioni specifiche, il sindacato difficilmente può andare oltre queste specificità, le quali a loro volta non consentono di replicare immaginari federativi come soluzione del problema. Non è certamente un caso che le strutture sindacali che pretendono di organizzare il lavoro nel suo complesso, confederando appunto i lavori, si votino all’impotenza, soprattutto in un quadro segnato dal tramonto della contrattazione nazionale e dalla fine della concertazione. La diversità delle situazioni e delle condizioni sociali è d’altra parte talmente profonda che non è immaginabile alcun processo «naturale» di ricomposizione. Se la diversità non fosse così profonda, d’altra parte, non avrebbe nessun senso pensare quelle condizioni in termini di singolarità. Noi abbiamo cercato di assumere la presenza incancellabile di queste singolarità, riferendoci costantemente a precarie, operaie e migranti, proprio per non rifugiarci in un comodo universale dato che dovrebbe essere solo ricomposto. Poiché non c’è un’unità originaria infranta dalle politiche neoliberiste, nessuna ricomposizione è possibile facendo semplicemente la somma delle contestazioni e delle rivolte che di volta in volta avvengono. Ed è una pia illusione vedere i segni premonitori di quella ricomposizione nella presenza di rappresentanze «esterne» più o meno folte in occasione delle lotte. L’illusione conseguente è quella di pensare che la suddetta ricomposizione si manifesti gloriosamente ed esclusivamente nei comportamenti di piazza, che soli testimonierebbero della radicalità della propensione al conflitto, mentre tutto il resto è chiacchiere e paternalismo. La grande separazione tra «militanti» e lavoratori non è superabile né dicendo che comunque siamo tutti precari, né semplicemente riconoscendo al lavoro una centralità politica che per molti anni gli è stata negata, tanto più se questo serve a porre i militanti al centro del conflitto, attribuendo valore paradigmatico a tutte quelle lotte a cui decidono di partecipare.

Rimane in altri termini aperto il problema non solo di riconoscere davvero quelle singolarità, ma soprattutto di pensare secondo schemi se non originali almeno sperimentali il problema dell’organizzazione. Di sicuro c’è che esso non può essere affrontato come se le differenze fossero ciò a cui ogni singolarità deve rinunciare per entrare in un percorso comune. Ciò è vero tanto per i lavoratori migranti quanto per gli altri. L’innovativa forma di inchiesta portata avanti da Bastard&Poor’$ in poco più di una settimana ha raccolto oltre 200 giudizi di precarie e precari sulle loro condizioni di lavoro, sui loro salari, sulla loro solitudine in grandi e piccole imprese. Si tratta di uno spaccato parziale, ma assai indicativo della condizione dei lavoratori oggi in Italia. Nel loro primo rapporto gli «analisti» della nuova agenzia di rating dei lavoratori rilevano chiaramente l’intreccio perverso tra frammentazione delle prestazioni lavorative, individualizzazione dei comportamenti e difficoltà organizzative. In questa situazione il sindacato è spesso accusato di essere il grande assente, ovvero il massimo responsabile per situazioni per lo più insostenibili. Allo stesso tempo, tuttavia, anche quando esso è presente, il riferimento allo sfruttamento generalizzato non funziona come formula magica in grado di fare comunicare immediatamente condizioni allo stesso tempo uguali e differenti. Spesso nemmeno la radicalità delle rivendicazioni è una garanzia per guadagnarsi la fiducia dei lavoratori. La costruzione di percorsi comuni – anche sindacali – sconta invece la necessità di dover partire dalle differenze che maturano in continuazione dentro e fuori i luoghi di lavoro. Scambiare lo sfruttamento per la condizione sufficiente per un’iniziativa di classe significa non cogliere nemmeno la centralità politica che proprio la precarietà generalizzata riconsegna al lavoro all’interno della società globale. Ciò significa che lo sfruttamento del lavoro è ormai un’oppressione «globalmente» sociale che non può essere combattuta solo sul posto di lavoro. Con tutte le contraddizioni che vedremo, la richiesta di un reddito reagisce proprio a questa dimensione sociale e globale di un’oppressione capitalistica che, senza stabilire un’identità immediata degli oppressi, rende praticamente impossibile agire in società. Come il lavoratore migrante non può perciò essere spoliticizzato, riducendolo alla sua sola dimensione di lavoratore sfruttato, così il precario è refrattario a essere considerato solo l’oggetto di una possibile nuova sindacalizzazione. In assenza di risposte organizzate a questa condizione, la reazione collettivamente più evidente è invece quella di sfuggire dalla società a cui il lavoro obbliga: e questo si può fare lottando sul posto di lavoro, sfuggendo al posto di lavoro o attraversando i confini dentro i quali il posto di lavoro si colloca.

La dimensione transnazionale della crisi non meno che dell’organizzazione del lavoro contemporaneo ha d’altra parte chiuso definitivamente ogni possibilità di un intervento limitato dai confini dei singoli Stati, portando contemporaneamente alla luce la costitutiva disomogeneità del proletariato globale. Da questo punto di vista, i migranti che sono stati protagonisti dello sciopero nella logistica non sono soltanto un segmento della forza lavoro complessiva, una «componente» di una lotta generalizzata o generalizzabile, o addirittura un’avanguardia cosciente che mostra la strada, ma un pezzo di società che entra in sciopero mostrando la sconnessione della società stessa. I migranti sono operaie e operai in carne e ossa sui quali incombe lo stigma della separazione. Essi si portano in tasca la loro condizione in un doppio senso, con il denaro e con il permesso di soggiorno. I migranti sono già connessi dal fatto oggettivo e non generalizzabile che è la legge Bossi-Fini, che lega individui che occupano posizioni diverse e anche distanti, e che nello stesso tempo li separa e li allontana da coloro i quali non occupano la loro stessa posizione rispetto allo Stato e alla cittadinanza. L’apartheid democratico non consente loro di pensarsi come soggettività universali che possono andare oltre la loro condizione amministrativa con un semplice sforzo di volontà. Fare rientrare a forza l’universalismo dopo averlo criticato aspramente non avvicina nemmeno di una spanna alla soluzione del problema. E tanto meno aiuta rifarsi a un internazionalismo vintage quando questa globalità è fatta di movimenti e di differenziazioni del tutto nuovi.

La richiesta di un reddito, nei diversi modi in cui esso è definito, è un’altra faccia dello stesso problema, e il fatto che, nelle retoriche di movimento, esso cambi nome in continuazione è qualcosa su cui vale la pena riflettere. Il riferimento alla cittadinanza, abbandonato dai più attenti per i problemi evidenti che esso pone, rimane un problema politico mai affrontato fino in fondo. La sua cancellazione, infatti, non è sufficiente a risolvere la prevedibile esclusione dei migranti dal suo godimento, anche se quel reddito viene definito generalizzato, universale o di base. E ciò vale anche quando il reddito diventa di fatto un salario minimo o addirittura «reale». D’altra parte, la proliferazione dei nomi e la divaricazione dei percorsi di lotta mostrano che ogni richiesta del reddito registra ormai realisticamente come data la destrutturazione definitiva della cittadinanza. Proprio per questo, per essere davvero realisti, si dovrebbe anche ammettere che questo reddito rischia costantemente di essere un salario della povertà destinato a risarcire la negazione sempre più massiccia di prestazioni sociali. Qualunque nome abbia questo reddito, in altri termini, non risolve né tanto meno affronta il problema di un rapporto di potere che agisce quotidianamente nel momento in cui il denaro diviene l’unica misura del rapporto sociale. L’elusione del nodo del potere e la difficoltà di farci i conti emerge anche dal fatto che la richiesta di un reddito deve essere comunque rivolta a istituzioni variamente identificate con il nemico – col quale non bisogna in nessun caso compromettersi – oppure con la controparte – legittima e persino neutrale – con cui è sempre possibile contrattare, ma delle quali in ogni caso non sono mai pensate le dinamiche e le contraddizioni interne. I mutamenti delle istituzioni italiane sono sempre considerati quale espressione di una crisi epocale e definitiva, oppure, aderendo a un classico immaginario moralistico, come il sintomo di un’evidente degenerazione del sistema. Il giudizio morale precede e sostituisce l’analisi politica. Quello politico è ancora considerato come il sistema istituzionale fondamentale, mentre è evidente che nella riconfigurazione transnazionale complessiva esso è l’ultimo sistema a diventare compiutamente tale, mentre altri sistemi lo sono già. Senza chiedersi cosa cambi e per chi, si punta a costruire un’opinione comune degli oppositori (nazionali) che si riconoscono tra di loro. Facebook è spesso la forma concreta di questa comunità morale, nella quale le opinioni degli amici sono scambiate per l’opinione generale. Una trasformazione istituzionale che procede da decenni sul piano transnazionale meriterebbe invece un’attenzione diversa. Lungi dall’esibire semplicemente la loro inattualità, le istituzioni non sono l’evidenza di un’illusione. Esse producono effetti materiali: differenziano, distinguono, disciplinano, ricostituiscono confini, obbligano o permettono comportamenti, soprattutto ricompongono costantemente regolarità. Pensare poi di delegittimare le istituzioni italiane dicendo che si decide in Europa e quelle europee sostenendo che a decidere è la Banca mondiale, è una perdita di tempo. La dimensione transnazionale – dal punto di vista istituzionale almeno europea – in cui s’inscrivono le politiche contemporanee del lavoro non può essere affrontata solamente con improbabili raccolte di firme, o convocando scadenze congiunte tanto necessarie quanto il più delle volte inefficaci.

Che la precarietà sia la condizione generale di tutto il lavoro non aiuta dunque, semmai complica, il problema di un’iniziativa politica nella precarietà e contro di essa. L’individuazione di parole d’ordine o di rivendicazioni comuni, che ambiscono a uscire dalla settorialità dell’intervento e delle vertenze e con ciò a ricomporre l’agognata unità degli sfruttati e degli oppressi, non risolve la questione delle connessioni politiche tra i segmenti irriducibilmente differenti che vivono nelle sconnessioni della società. E non è neppure sufficiente, benché sia necessario, inseguire il conflitto che si esprime nei focolai di lotta «impossibile», per individuare nuove scintille di lavoro insubordinato. L’iniziativa politica che mira a costruire connessioni nella precarietà deve farsi carico della precarietà di quelle stesse connessioni, che non sono già date né sorgono immediatamente dalle oggettive condizioni di miseria e sfruttamento che il capitale impone su scala globale. Le connessioni non sono un compito che troviamo risolto nella realtà dei rapporti capitalistici di produzione. Sono un problema che dobbiamo risolvere noi. E sarebbe probabilmente meglio farlo senza tributare eccessivi omaggi alla tradizione dei rapporti organizzativi di cui facciamo parte. Riconoscere la politicità immediata, cioè la non rappresentabilità, delle situazioni di conflitto, non significa che esse siano immediatamente delle posizioni politiche generalizzabili. Non significa nemmeno riaffermare l’unità politica come valore supremo da cui partire e a cui arrivare. Significa riconoscere che se c’è una connessione sicura è quella tra la precarietà delle nostre connessioni politiche e quella della nostra condizione sociale. E che il continuo aggravarsi della seconda dipende non da ultimo dalla nostra attuale incapacità di agire sulla prima.

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