sabato , 27 Luglio 2024

Rem Koolhaas, architetture, feticci e il futuro che non c’è

di FELICE MOMETTI

Non è una mostra d’arte, non è una mostra d’architettura e non è una mostra scientifica. Così Rem Koolhaas ha presentato Countryside, The Future, l’esposizione attualmente al Guggenheim Museum di New York. L’evento è di quelli che, nelle intenzioni e per gli investimenti finanziari, dovrebbero aprire nuovi scenari se non addirittura evocare nuovi paradigmi tali da riconsiderare i rapporti tra la ricerca, gli attori coinvolti, i contesti interessati e il complesso arte-architettura, per usare una definizione – in questo caso più che appropriata – di Hal Foster.

Cinque anni di lavoro per un team composto da studenti e professori della Scuola di Design di Harvard, dell’Accademia Centrale di Pechino, dell’Università di Nairobi, dell’Università olandese di Wageningen, con a capo l’archistar Rem Koolhaas. Il quale ha posto al centro della complessa governance dell’intero processo, che va dalla ricerca sul campo all’allestimento espositivo, il suo studio internazionale di architettura The Office for Metropolitan Architecture (OMA) e AMO, il think-tank all’interno di OMA che si occupa di allestimenti di mostre, campagne di branding, editoria, strategie per il futuro, sviluppo di tecnologie. Gerarchie e ruoli subito definiti come primo passo. Non il solito partenariato tra istituzioni e società private con una governance più o meno condivisa, ma una piramide con alla base il lavoro vivo intellettuale di una massa di studenti e alla sommità – con l’interfaccia istituzionale delle Università ‒ la direzione, se non il comando, dello studio di un’archistar tra le più ricercate e celebrate.

L’esposizione è dedicata ai «cambiamenti radicali» in atto in territori rurali, remoti e selvaggi, cioè il 98% della superficie terrestre non occupata da città. Uno spettacolo di realtà aumentata che inizia all’esterno del Guggenheim, sulla Fifth Avenue, con il posizionamento di un enorme trattore Deutz-Fahr Warrior, emblema dei software operativi applicati alla potenza delle macchine, e una serra bioclimatica gestita a distanza in cui si coltivano pomodori senza pesticidi sotto luci LED rosa. Il visitatore è avvisato ancor prima di entrare: nessuna nostalgia per una campagna più immaginata che effettivamente esistita, ma Big Data per governare le macchine e controllare il microclima di piccole serre. All’interno, il rigido spazio espositivo del Guggenheim è travolto da un’esondazione di documenti, immagini, video, diagrammi, grafici, mappe, animazioni digitali, sculture robotiche, droni, modelli, opere d’arte riprodotte, epifanie ecologiche ed euforie cartesiane. Lungo il percorso della spirale ascendente del museo si incontrano sezioni intitolate «Tempo libero ed evasione», «Riprogettazione politica», «(Ri-)Popolazione», «Natura /Conservazione», «Esperimenti». In queste aree sono illustrate storie sull’antica Roma, sui principi taoisti, sui falansteri di Fourier, sugli hippies americani e la wellness culture; presentazioni sulla «riprogettazione radicale» e sugli «sforzi prometeici» di figure come Franklin D. Roosevelt, Hitler, Mao Tse-Tung, Stalin e Gheddafi; studi sulla condizione dei rifugiati africani e mediorientali nelle le città europee; ferrovie costruite in Cina che arrivano chiavi in mano nei villaggi africani.

Countryside, The Future, nelle intenzioni dell’autore di Delirious New York e teorico della Generic City sarebbe un «quadro composito della condizione attuale della campagna. Un ritratto puntinista». In realtà più che il puntinismo di Georges Seurat emerge con evidenza lo schema interpretativo della città «generica», dove la congestione metropolitana si abbina a un insieme casuale di architetture frammentarie, che Koolhaas applica ai territori rurali.

L’esposizione è stata inaugurata il 20 febbraio dello scorso anno e chiusa dopo 15 giorni a causa della pandemia. In questo lasso di tempo le recensioni critiche, che spesso orientano i giudizi del pubblico, come ad esempio l’inserto settimanale Arts del «New York Times» oppure la rivista Artforum, sono state negative e molto nette. Un allestimento che mette insieme la cultura dei meme di oggi e le Esposizioni Universali sovietiche di ieri. L’accettazione fatalistica di un mondo modellato da Xi Jinping e Jeff Bezos. Non c’è bisogno di leggere il neoliberismo tra le righe: Koolhaas lo personifica esplicitamente. Tanto per citare alcune critiche. Tutti aspetti certamente presenti, che risentono però di uno sguardo pre-pandemico. L’esposizione è stata riaperta dal 3 ottobre fino a metà febbraio di quest’anno. E visitarla dopo un anno di pandemia cambia lo sguardo, la percezione e si intravvedono nuove finalità. Nella vita quotidiana e nel modo di produzione sociale sono cambiati i rapporti tra spazio pubblico e spazio privato, tra metropoli e territori rurali, si è accentuata la commistione tra spazi della produzione e della riproduzione sociale. Le catene del valore sono diventate più corte ma al tempo stesso più articolate e più dense. E quindi qual è il futuro di una campagna urbanizzata? Tra gli Esperimenti che chiudono il percorso espositivo ce n’è uno introdotto da una fotografia che ritrae Koolhaas di spalle insieme a Lance Gilman, proprietario di casinò, case chiuse e di una porzione consistente del deserto del Nevada. Koolhaas e Gilman scrutano l’orizzonte del Tahoe Reno Industrial Center (TRIC) rinviando, con una dose massiccia di narcisismo, al Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Il TRIC è il polo integrato più grande del mondo di industria, logistica, data center e società hi-tech con una superficie che corrisponde al Molise. Ci sono Google, Walmart, Panasonic, Tesla, FedEx, Blockchains, per fare alcuni esempi, e decine di altre aziende e società. Poco più a sud c’è il Nevada National Security Site, grande poco meno della Sicilia, al cui interno c’è quella che popolarmente è conosciuta come Area 51. In altre parole: il deserto come «campagna» del futuro, in cui industria, logistica, internet company e ricerca militare sperimentale dialogano. Dove pandemie, cambiamenti climatici e ‒ perché no? ‒ guerre non possono stravolgere più di tanto il processo di valorizzazione capitalistico. Anzi un luogo di sperimentazione di nuovi modi di progettazione, cooperazione e divisione del lavoro. Ma Koolhaas si spinge oltre teorizzando che le architetture del TRIC sono post-umane. Non si basano su intenzioni ma su codici, algoritmi, tecnologie, ingegneria e prestazioni. La loro banalità è mozzafiato. L’architettura del «grado zero», sostiene, è attraente perché non c’è contesto, non ci sono aspettative, ma le implicazioni sono esaltanti. Insomma, le architetture del TRIC sono e saranno il futuro da progettare e costruire. Sono la rappresentazione, aggiungiamo, dell’impersonalità del puro rapporto capitalistico.

In fondo il pensiero di Koolhaas, da parecchio tempo, è che il destino ineluttabile di tutte le avanguardie artistiche (politiche?) è stato e sarà di essere realmente sussunte dal sistema e qualsiasi dissenso sarà sempre cooptato. Ci permettiamo di avere molti e fondati dubbi.

Un’ultima annotazione. Il merchandising delle grandi mostre è sempre più invadente. Nel caso di Countryside, The Future accanto a felpe, tazze, bottiglie, cappelli, borse ecc. c’è anche Horizon (Habitat One: Regenerative Interactive Zone of Nurture). Un gioco di simulazione sociale realizzato dall’Institute of Queer Ecology dove si invitano i partecipanti a creare una «comune digitale». Il riferimento storico è la comune queer di Levander Hill fondata a metà degli anni ’70 poco distante da New York. Il messaggio è chiaro: anche le identity politics possono diventare un feticcio mercificato delle grandi macchine museali ed espositive.

 

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