Una manovra nella guerra
La manovra finanziaria in discussione al parlamento costringe, ancora una volta, a guardare in faccia la guerra e le condizioni che essa impone con malcelata brutalità sulla vita di milioni di lavoratrici e lavoratori. L’intensificazione del comando sul lavoro vivo e sulla riproduzione sociale che si estende ben oltre i campi di battaglia e aldilà dei fronti è infatti il problema politico che ci troviamo di fronte e che ci ha investito con l’inizio della Terza guerra mondiale. È il tentativo violento di Stati e capitale di governare i movimenti indisciplinati e transnazionali del lavoro vivo.
Questo problema non si presenta sempre nella stessa forma, perché talvolta si nasconde dietro i calcoli complessi delle finanze pubbliche, mostrando solo indirettamente il legame micidiale tra la guerra e il regime del salario. Certamente, il rigore fiscale imposto dai nuovi parametri europei di rientro dal disavanzo e riduzione del debito, quale condizione per poter accedere ai prestiti del piano Safe da spendere in riarmo e creare nuovo debito da ripagare con ulteriori sacrifici, mette in chiaro le priorità di spesa dei governi di un’Europa in guerra. Si tratta allora di una manovra nella guerra anche se questa rimane sullo sfondo, perché agisce non tanto attraverso la spesa in riarmo, un problema in qualche modo per il momento differito, ma perché mostra che la vera posta in gioco sono le condizioni di messa al lavoro di milioni di lavoratrici e lavoratori.
D’altra parte, la guerra consolida una politica economica ben precisa, da tempo già in essere, che sposta sempre più sulle spalle della forza lavoro, e in particolare sulle donne, il costo della riproduzione sociale. In questo senso vanno lette le misure contenute nella nuova legge di bilancio che, al netto delle modifiche marginali dei prossimi mesi, mentre approfondisce le disuguaglianze economiche rinunciando a qualsiasi criterio di progressività fiscale, è tutta orientata a estendere la giornata lavorativa e dare più strumenti in mano ai padroni per sfruttare al meglio milioni di precari e, in maggior misura, di precarie.
Lavorare di più
L’obiettivo più o meno dichiarato è quello di mettere lo Stato al servizio della valorizzazione del capitale, garantendo la piena disponibilità al lavoro e spingendo i salari verso il loro livello minimo, all’interno di un progetto di società dove il patriarcato gioca un ruolo centrale. Il contenuto ideologico e materiale delle varie misure “a sostegno della genitorialità” o “della famiglia e delle pari opportunità” altro non è che il tentativo di intensificare lo sfruttamento delle donne, dentro e fuori casa, dando precise indicazioni su chi più di altri dovrà farsi carico dei costi della guerra sacrificandosi per amor di patria.
È questo il messaggio che arriva, in primo luogo, dalla detassazione degli aumenti retributivi sui rinnovi dei contratti collettivi (5% per dipendenti con reddito fino a 28 mila euro), dei premi produttività (1%), dei trattamenti accessori (ore di straordinario, lavoro notturno e festivo, indennità di turno) e dei fringe benefits. Tutte misure che riguardano una precisa fetta di lavoro privato dipendente, operaio, logistico, nei servizi, e perlopiù povero, per cui la scelta di prolungare la propria giornata lavorativa si fa sempre più obbligata. Quello che viene presentato come un aumento salariale passa quindi in realtà da un maggiore sfruttamento, ma questo riguarderà soprattutto gli uomini, a svantaggio delle donne che vengono sempre più spinte verso il part-time e il doppio lavoro, dentro e fuori casa.
Il problema politico non è allora, o non è soltanto, quello di estendere la misura anche ai lavoratori dipendenti del pubblico o a chi non è coperto dai contratti collettivi come pure qualcuno ha sostenuto, ma che i tentativi, peraltro insufficienti, di recuperare quote di salario eroso da anni di inflazione e di blocco salariale hanno come unica possibilità quella di lavorare sempre di più. La forma meloniana del “salario minimo” è solo l’ennesimo favore fatto ai padroni. D’altra parte, persino Banca d’Italia ha denunciato che recuperare il perduto potere d’acquisto del lavoro dipendente attraverso la fiscalità generale anziché tramite i profitti delle aziende non è solamente improprio, ma significa che i miseri aumenti salariali, legati a ore di lavoro extra o a forme di welfare aziendale (quando c’è), verranno finanziati da chi già paga le tasse, cioè dagli stessi lavoratori dipendenti.
E infatti questa manovra striminzita fa cassa tagliando sui fondi ai ministeri (8 miliardi), riducendo quindi i servizi – dai CAF all’edilizia statale, dalla mobilità e dal trasporto pubblico locale alla tutela dell’ambiente, dall’edilizia scolastica alla ricerca e alla cultura. Si tratta di una politica attiva di smantellamento degli ormai residuali servizi statali orientata a spostare il carico della riproduzione sociale su lavoratrici e lavoratori e a lasciare sempre più spazio ai capitali privati in cerca di guadagni.
L’intento è quindi di intervenire puntualmente con magrissimi risarcimenti fiscali per determinate fette di lavoro dipendente, frammentando ulteriormente la forza lavoro. Su questo piano agisce infatti la politica fiscale che, secondo uno schema anch’esso noto, riduce l’aliquota relativa al reddito tra i 28 e i 50 mila euro dal 35% al 33%, per un beneficio medio annuo di appena 230€. A guadagnarci di più sono le famiglie più ricche, con redditi dai 50 ai 200 mila euro, nell’evidente tentativo di riprodurre attivamente e consolidare la base elettorale di questo governo. La stessa segmentazione con cui agisce la leva fiscale viene riprodotta da un welfare in frammenti, dalla proroga dell’ADI e dell’Ape sociale alla carta per l’acquisto di beni alimentari, che mette però al centro più che mai il doppio lavoro delle donne.
Manovre di famiglia
È proprio guardando agli specifici tentativi di mettere al lavoro le donne che si rende più palese il modo in cui la guerra entra nei bilanci degli Stati e si inserisce nel rapporto tra capitale e lavoro, caricando sempre di più quest’ultimo dei costi di riproduzione della società, secondo gerarchie sessuali e razziste che rendono ancora più complesso ogni tentativo di individuare rivendicazioni universalistiche e quindi generalizzare le lotte.
Per capire il modo in cui la manovra mette al centro una precisa idea di organizzazione patriarcale del lavoro e della società basterebbe infatti notare lo spazio dedicato alla famiglia, alla genitorialità e alle lavoratrici, sempre menzionate solo in quanto madri. Se già il “bonus mamme” riguarda una platea ristretta di beneficiarie (solo lavoratrici dipendenti con due figli di cui il più piccolo con non più di dieci anni) e per la cifra irrisoria di 60€ al mese, alla voce “Promozione dell’occupazione delle lavoratrici madri” troviamo la vera beffa: l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali per il datore di lavoro che assume madri di almeno tre figli minorenni prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi. Sempre per le lavoratrici madri con almeno tre figli si favorisce poi la trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a parziale, ancora una volta intervenendo in realtà attraverso l’esonero del versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro.
Sono misure che non solo riguardano evidentemente un numero esiguo di famiglie, ma che nascondono in realtà dei finanziamenti alle imprese tramite la tassazione generale. Simultaneamente, così, si inaspriscono le differenze tra la messa al lavoro delle donne e degli uomini. Mentre i secondi vengono incoraggiati a svolgere straordinari, notturni e festivi, le prime vengono spinte verso quel part-time involontario che condanna molte donne alla povertà e al lavoro di cura dietro lo slogan della conciliazione vita-lavoro.
Anche l’istituzione di un fondo per il finanziamento della figura del caregiver familiare, limitandosi a chi assume ruoli di cura verso persone con disabilità, non fa che riaffermare l’idea che la cura degli anziani e dei bambini sia in fondo il dovere naturale delle donne. La manovra finisce così per stabilire che l’unico ruolo legittimo della donna è quello di madre – meglio se con due o tre figli – senza cambiare di una virgola le condizioni di povertà e precarietà delle madri lavoratrici, ma anzi, dando ancora più potere di decidere delle loro vite ai padroni e irrigidendo ancora di più la divisione sessuale del lavoro che investe tutte le donne.
Si tratta insomma di una manovra scritta nell’economia di guerra, non perché la spesa pubblica e privata siano forzatamente orientate alla macchina bellica secondo improbabili analogie con il passato, ma perché la guerra determina la forma della riproduzione sociale e pretende il sacrificio del lavoro vivo. Per questo non si tratta solo di opporsi alla manovra: è dall’organizzazione del rifiuto della guerra che passa la possibilità di costruire lotte efficaci per il salario e di rovesciare la frammentazione e le gerarchie che impone il suo regime.