Chi in questi giorni ha scioperato ed è sceso in piazza per la Flotilla e per Gaza lo sa: dall’Italia all’America latina, al resto dell’Europa e al Nord-Africa, un movimento transnazionale si è messo in marcia per diventare potere. Mettere fine al genocidio in Palestina e alla guerra che produce quel genocidio è il suo obiettivo.
Lo ha fatto perché la brutalità del genocidio non è tollerabile, grida giustizia, e ha messo centinaia di migliaia di persone di fronte all’urgenza di tentare qualcosa di nuovo. Non si è trattato solo di un sostegno alla resistenza palestinese, come lo abbiamo visto negli scorsi due anni, e neanche di una semplice pressione, sia pure di massa, su governi che non sono in grado di fermare la Terza guerra mondiale, ma solo di promettere paci coloniali e cariche di sfruttamento, violenza e altra guerra. Piuttosto, questo movimento prende forma nella presenza di massa contro la guerra, che è genocida in Palestina ed è spietata ovunque si dispieghi. In questa presenza di massa noi vediamo crescere la consapevolezza che gli effetti della guerra si abbattono con violenza anche su milioni di uomini e donne che, in Europa, vedono salari e welfare assottigliarsi in nome del feticcio del riarmo, oltre che il muro di droni che dovrebbe proteggerci dai ‘nemici’ alle porte, siano essi i carri armati russi o le barche delle e dei migranti in cerca di libertà.
Oltre la resistenza: sciopero e potere
Questo movimento caparbio, dirompente e dilagante è cresciuto insieme alla Flotilla. L’ha accompagnata nel suo viaggio verso Gaza, si è alimentato del suo slancio e, al contempo, le ha dato respiro, risonanza e una rotta politica che ha spiazzato il blocco dell’IDF. Mentre le navi israeliane avanzavano per ribadire l’ineluttabilità della guerra, il movimento le metteva sotto scacco invocando l’impossibile: uno sciopero contro il genocidio e la guerra. E l’impossibile è successo. In Italia è successo per tre volte nell’arco di due settimane.
La possibilità di diventare finalmente un potere che mette fine al genocidio e alla guerra viene dalla forza inedita e di massa che lo sciopero ha trasmesso a centinaia di migliaia di uomini e donne. È sul bilico del non ritorno, dello sterminio che deve essere fermato, che il movimento dello sciopero ha prodotto uno scarto rispetto alle mobilitazioni precedenti e ha preso a correre mostrando nella pratica che lottare per interrompere il ciclo mortifero della guerra è possibile. Fermare produzione e riproduzione della società per colpire la guerra è un’idea semplice, che pure è difficile realizzare. La pratica politica dello sciopero ha prodotto la sensazione collettiva che la guerra non è qualcosa che si deve solo subire, che non è inevitabile accettarne i sacrifici. Nello sciopero abbiamo smesso di difenderci: non abbiamo semplicemente resistito, ma abbiamo individuato dei punti di attacco.
Il movimento dello sciopero ha attraversato i porti e le fabbriche, le scuole, le università e gli ospedali, ha occupato stazioni, aeroporti e autostrade, si è fatto tempesta in piazze incontenibili e strabordanti, vivendo di una disponibilità imprevista a scendere in strada, a tenere le posizioni, a non retrocedere e a non farsi intimidire dallo schieramento sordo e ottuso di idranti, lacrimogeni e manganelli. Il movimento dello sciopero si è fatto anche contagioso. Corre non solo tra le piazze e i luoghi di lavoro, ma scavalca confini e si manifesta, dispiegandosi, radicandosi o anche solo lasciandosi intravedere come orizzonte da perseguire, in mobilitazioni oceaniche che vanno dalla Spagna, alla Francia, alla Germania, all’Olanda, alla Grecia, alla Tunisia, al Messico al Marocco.
Un’eccedenza senza padri
A questa tempesta è stato dato il nome di eccedenza, parola troppo spesso evocata in passato per soddisfare i sentimenti irrequieti di un immaginario rivoluzionario deluso, ma che per una volta corrisponde effettivamente alle cose che evoca. A chi cerca di intestarsi la paternità di questo movimento sfugge che l’eccedenza non si identifica in nessun padre, si esprime in una composizione eterogenea che non sta nelle sigle sindacali, partitiche o di aree politiche, pretende il potere di interrompere la guerra che non può essere posseduto o praticato da nessun soggetto politico esistente. Certe posizioni identitarie assunte in piazza, dagli stessi soggetti che se ne intestano la paternità, non sono evidentemente all’altezza del movimento che si è messo in moto.
Di certo è stata un’eccedenza quella che ha messo in discussione gli argini consolidati delle organizzazioni di movimento, dei collettivi e infine anche delle identità sindacali, portando organizzazioni di base e confederali a dichiarare insieme lo sciopero generale sotto la spinta di un lavoro vivo che, con qualsiasi tessera in tasca oppure senza, non ha lasciato dubbi sulle sue intenzioni. Prima delle segreterie, sono state milioni di lavoratrici e lavoratori che hanno reclamato lo sciopero per dare un senso alla frase risuonata dal porto di Genova qualche settimana fa: blocchiamo tutto.
E allora la forza di questo sciopero sta nella sua capillarità, che non si esaurisce in un qualche blocco della circolazione, ma si manifesta nella simultaneità di pratiche che vanno dalla tradizionale astensione dal lavoro all’occupazione di snodi logistici, dall’aperta, sfacciata sottrazione alle norme del Dl sicurezza alla risposta insubordinata e di massa alle minacce di precettazione e di limitazione del diritto di sciopero provenienti dal governo e dall’autorità garante. L’obiettivo comune di colpire il genocidio e la guerra ha delineato un terreno di lotta in cui la posta in gioco non è solo la mitigazione della violenza aberrante dell’IDF e non è solo un più o meno duraturo cessate il fuoco. È, invece, la fine della guerra, perché nella guerra si manifesta un’oppressione che, con diversi gradi di violenza, colpisce il lavoro vivo a ogni latitudine.
La domanda che abbiamo davanti è: come riportare e far valere la ricchezza e la complessità emerse nelle ultime settimane all’interno di terreni di lotta e di scontro in cui la guerra dispiega i suoi effetti sociali? Sappiamo che non sarà facile e, nondimeno, dobbiamo ancora chiederci: a partire dal rifiuto del genocidio e della guerra, è possibile, senza fare della mitologia, costruire processi organizzativi in grado di attraversare le diverse situazioni in cui il lavoro vivo incontra oppressione e sfruttamento?
Durata, radicamento e immaginazione: la sfida dell’organizzazione
Dire processi organizzativi vuol dire che il movimento dello sciopero deve porsi il problema della sua durata e del suo radicamento, senza cadere nella scorciatoia di una mobilitazione permanente che rischia in realtà di dissipare la grande forza accumulata. Ci muoviamo tra l’urgenza di ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania, che in ogni momento può richiedere uno scatto, e la necessità di un’iniziativa immediata, perché nessun piano Trump conquisterà la pace se non al prezzo di più violenza, più sfruttamento, più autoritarismo, più guerra. Siamo ancora sul bilico del non ritorno ed è per questo che riteniamo che la sfida dell’organizzazione debba essere posta su due piani: la composizione eterogenea del movimento sceso in piazza e la forza che per giorni ha manifestato tra le piazze e i luoghi di lavoro.
La sua composizione lancia la sfida di una comunicazione politica radicata nella materialità delle vite e del lavoro di soggetti in posizioni diverse, che in comune hanno la volontà ferma di porre fine al genocidio, alla violenza della guerra e al loro mondo, e che non possono essere imbrigliati dentro a schemi sindacali, formule rituali, o l’estetica della rivolta di piazza. La forza vista nelle piazze ha a che fare con il tenere aperta la possibilità che il movimento ha mostrato di farla finita con il sacrificio imposto ogni giorno come esito inevitabile di una guerra altrettanto inevitabile, con i suoi costi in termini di morte, sfruttamento e oppressione. Per la prima volta dopo tanti anni è sceso in piazza un movimento che non era la somma delle sue debolezze, ma che pretende di diventare potere. Ed è su questa constatazione che occorre lavorare per conquistare nuova forza, espandersi ulteriormente e muoversi in direzione di uno sciopero sociale europeo contro la guerra.
Imporre la nostra pace prima che governi e capitale in Palestina come in Ucraina ci impongano la loro fatta di sfruttamento, violenza, oppressione patriarcale e razzismo. Lo sciopero ha tracciato una via che richiede di immaginare processi organizzativi che vadano oltre i limiti locali e nazionali, in modo da evitare che venga soffocato ciò che lo sciopero ha dispiegato.