∫connessioni precarie

Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente

Sezione

Pubblichiamo, contestualmente a un’anticipazione del primo capitolo sul sito di Machina, l’introduzione al libro Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, in uscita oggi per Derive Approdi Editore

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Questo libro arriva dopo tre anni di lotta contro la guerra. Subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, insieme a centinaia di attiviste e attivisti dell’Assemblea permanente contro la guerra, costruita all’interno della Piattaforma per lo Sciopero Sociale Transnazionale, abbiamo cercato di individuare dei percorsi in grado di rompere i fronti che si stavano inevitabilmente consolidando. Attiviste e attivisti dalla Russia e dall’Ucraina hanno iniziato a discutere con altri e altre, provenienti letteralmente da ogni parte del mondo, riuscendo in alcune occasioni a costruire anche forme di iniziativa comune. Dopo il 7 ottobre 2023 e l’invasione di Gaza le assemblee si sono allargate a palestinesi e israeliani, cercando anche in questo caso di non lasciarsi risucchiare nella logica che costruisce nemici esistenziali al di fuori di qualsiasi considerazione dei rapporti sociali, sessuali e storici all’interno dei quali maturano i conflitti bellici. Questa scelta politica non ha mai significato praticare una facile equidistanza, ma ha piuttosto imposto di prendere di volta in volta chiaramente posizione contro la guerra e il suo mondo.

L’esperienza delle molte assemblee organizzate e dei molti contatti intessuti ci ha però messe e messi di fronte ai limiti dei discorsi e delle iniziative per contrastare la guerra. Le posizioni differenti hanno spesso prodotto una paralisi e un’afasia, oppure la scelta deliberata di mettere la guerra tra parentesi per poter cercare delle convergenze su tutto tranne che sui modi per contrastarla efficacemente. Senza fare il catalogo di quello che tutti abbiamo visto e sentito in questi tre anni, noi siamo arrivati a registrare che senza una riflessione sui modi in cui parliamo della guerra e su come cerchiamo di leggerla assieme a tutti gli altri conflitti quotidiani non si può venirne a capo.

Questo libro nasce per rispondere a questa necessità. Non ha, quindi, la pretesa di descrivere la guerra attuale in tutte le sue sfaccettature e nei suoi regimi interni, o addirittura di collocarla nella storia delle guerre. Non intendiamo nemmeno inseguire i mille modi in cui dopo l’elezione di Donald Trump la pace e la guerra sono diventate modalità di legittimazione politica interna. Crediamo invece che sia indispensabile riconoscere la guerra come un’urgenza che non può essere ignorata da coloro che non si accontentano dello stato presente delle cose. In questo libro discutiamo perciò alcune parole attorno a cui il discorso della guerra oltrepassa i campi di battaglia, ridefinendo interi ambiti di intervento politico (migranti, conflitti climatici, Stato), le parole chiave della sua legittimazione (militarismo) e della sua difficile contestazione (decoloniale, resistenza). Vogliamo contribuire a costruire un lessico per le lotte del presente che ci doti di strumenti utili per contrastare la guerra e per superare i blocchi che ci hanno reso difficile farlo in questi anni. Di fronte all’onnipresenza e onnipotenza delle armi abbiamo fatto un passo indietro, tornando alla debole arma della critica con la convinzione che ciò serva a fare qualche passo in avanti nella nostra opposizione alla guerra. Oltre al rifiuto della ragione delle armi, pensiamo sia necessaria la critica radicale della guerra, perché essa non può essere il modello di riferimento della lotta di classe. La guerra pretende di stabilire fronti compatti e omogenei imponendo una semplificazione e una neutralizzazione dei rapporti sociali, che impedisce di coglierne e svilupparne la complessità. La logica del suo funzionamento è l’eliminazione ideologica e materiale di tutto ciò e soprattutto di tutti coloro che eccedono i fronti di guerra. Essa è la negazione armata della molteplicità di differenze che costituiscono il lavoro vivo contemporaneo e non dà nessuna indicazione pratica su come organizzare queste differenze.

L’ipotesi politica che sta alla base di questo lavoro muove da questa critica della guerra e dalla constatazione che, con l’invasione russa dell’Ucraina, sia iniziata la Terza guerra mondiale. Con questo non intendiamo evocare l’immagine di un’escalation inarrestabile e di un allargamento inevitabile del conflitto bellico. Qui non ci interessa inseguire la dimensione geopolitica della guerra né disegnare gli scenari futuri di un ordine internazionale. Non ci interessa la guerra come sistema d’ordine, all’interno del quale si possono certamente individuare diversi regimi, che ne stabiliscono in definitiva la capacità differenziata di governo. In questo libro guardiamo alla guerra dal punto di vista del lavoro vivo nella sua eterogeneità, nella convinzione che trovare la nostra parte dentro alla guerra e attraverso i suoi fronti sia il primo passo per rovesciarne la logica. Come le prime due guerre mondiali, anche nella Terza la partita che si gioca, al di là della molteplicità degli scontri in atto, non è l’egemonia di uno o più Stati, bensì il governo del lavoro vivo nel mercato mondiale. L’ipotesi della Terza guerra mondiale ci è utile per superare le specificità dei singoli conflitti, per cui alcune guerre sarebbero paradigmatiche e altre secondarie, i nemici di alcuni gli unici veri nemici. Parlare di Terza guerra mondiale ci permette di stabilire un campo di visibilità in cui in tutti gli atti di guerra si riconosce una logica comune, dall’Ucraina a Taiwan, da Gaza alla Rojava, ma soprattutto si apre la possibilità di far comunicare tra di loro le diverse forme di opposizione alla guerra. Vogliamo così incidere sopra la carta della geopolitica la storia di altri conflitti e di altre partizioni.

Quest’ipotesi politica è pienamente comprensibile solo all’interno di quella dimensione transnazionale che oggi segna la difficoltà, se non l’impossibilità, di ogni governo politico del mercato mondiale e di quella che negli ultimi decenni è stata definita globalizzazione. All’interno della dimensione transnazionale il governo del lavoro vivo diviene sempre più difficile, ed è per questo che la guerra e il militarismo ricompaiono come strumento plausibile di comando. Le tensioni in Medio Oriente (Iran, Israele, Turchia, Siria), ma anche quelle evidenti all’interno degli Stati Uniti e della Russia, mostrano con particolare chiarezza come essi siano oggi un tentativo comune di risposta alle crepe che complessivamente attraversano i regimi di governo sociale di intere aree del pianeta.

Anche se siamo consapevoli che è sempre possibile che la guerra guerreggiata assuma una dimensione effettivamente mondiale, la questione che ci interessa porre non è come evitare che la guerra si allarghi, ma come questa guerra può finire. La domanda che ci siamo posti è: il lavoro vivo, nella molteplicità delle sue forme, è in grado di porre un’ipoteca politica sulla fine della guerra? Può la pace desiderata non essere per forza una pace subita? Proprio perché la violenza, le devastazioni e i massacri sono destinati a colpire in ogni caso in maniera preponderante poveri, donne, migranti e salariati, è assolutamente necessario aprire dentro alla guerra uno spazio di azione e di riflessione contro di essa. In gioco è la possibilità di produrre processi organizzativi all’altezza dell’importanza transnazionale del lavoro vivo.

In questo momento sembrerebbe ragionevole registrare che l’ipotesi politica di una Terza guerra mondiale in atto, anche se non combattuta con la stessa intensità in ogni parte del mondo, sia superata dall’azione di Donald Trump, dai discutibili propositi di Vladimir Putin, dalla «pace riarmata» dell’Unione Europea. Benjamin Netanyahu invece ha il permesso di ignorare che è scoccata l’ora della pace e così Israele può continuare a massacrare impunemente le palestinesi e i palestinesi. La pax trumpiana, per ora a dire il vero più proclamata che effettivamente raggiunta, comprende anche il bombardamento dello Yemen e la minaccia costante dell’Iran e del suo regime di oppressione, del quale moltissime iraniane vorrebbero peraltro liberarsi. Molti pensano che una cattiva pace sia il più delle volte, comunque, infinitamente migliore di una qualsiasi guerra. Ed è certamente vero che tutti e tutte coloro che sono sotto le bombe, che quotidianamente devono temere la fame e il freddo oltre che la morte annunciata, salutano con gioia una qualsiasi pace o anche solo una fragile tregua. Di fronte alla guerra, a ogni guerra, la prima richiesta è sempre e comunque che le armi tacciano.

Nonostante le paci e le tregue prospettate, noi continuiamo a pensare che l’ipotesi politica della Terza guerra mondiale mantenga la sua validità. Ci sembra, infatti, che le schegge di pace che ci stanno concedendo altro non siano che la continuazione della guerra con altri mezzi. La pax trumpiana è annunciata come una necessità dei processi di valorizzazione del capitale, soprattutto di quello statunitense. Essa si presenta di conseguenza come una «Versailles del capitale», cioè come una serie di accordi di pace proposti, imposti o estorti in nome delle necessità presenti e future del capitalismo statunitense. Dopo la Prima guerra mondiale Lord Keynes ha sostenuto che la pace sottoscritta nella reggia francese contraddiceva le ragioni stesse dell’economia e avrebbe perciò portato presto o tardi a un’altra guerra. Noi invece sosteniamo che la pretesa della pax trumpiana di schiacciare il conflitto sociale e politico diffuso su scala mondiale impedisce di cancellare le cause della guerra.

Non possiamo considerare pace una condizione in cui le rinunce territoriali che il governo ucraino dovrà verosimilmente accettare sono il correlato della brama di terre rare, in cui la pacificazione del Medio Oriente passa per la legittimazione della guerra di sterminio israeliana contro i palestinesi, in cui la supremazia economica viene raggiunta attraverso dazi commerciali annunciati o imposti, una pace, infine, che si basa sulla vera e propria persecuzione dei migranti portata avanti con ogni mezzo legale o illegale, e sulla proibizione per legge di ogni forma di libertà sessuale. Il supposto pacifismo di Trump non è l’opposto, ma la continuazione del bellicismo di Biden. In entrambi i casi la guerra viene completamente separata dalle contraddizioni sociali statunitensi e globali e i rapporti sociali sono sovrascritti secondo la sua logica. La loro sintesi è facilmente individuabile nella politica della Commissione europea che prima ha riarmato l’Ucraina e ora punta decisamente a riarmare l’Unione, sapendo che in entrambi i casi la guerra comporta la cancellazione forzata di ogni rivendicazione sociale. Visto che le motivazioni politiche e sociali della guerra non vengono cancellate, noi non crediamo che si stia davvero aprendo una prospettiva di pace.

Commentando la teatrale cacciata di Zelensky dalla Casa Bianca, Viktor Orbán ha significativamente affermato: gli uomini forti fanno la pace, mentre gli uomini deboli fanno la guerra. La pace diviene così la legittimazione dell’uomo forte al quale affidarsi, anzi al quale arrendersi, la manifestazione misogina e patriarcale dell’uomo capace di imporre grazie alla sua volontà superiore una gerarchia degli interessi che tutti devono rispettare. Questa pace che coincide con l’asservimento alla potenza dell’uomo forte è l’esatto contrario di ciò che abbiamo inteso in questi anni con politica transnazionale di pace. Questo non è un libro pacifista. Il problema che ci poniamo è quello della fine della guerra, non di immaginare trattati di pace o proporre tregue. Coloro che cercano la pace purchessia non si accorgono che in questo modo non fanno altro che confermare l’antica concezione della pace come mera assenza di guerra. A loro non interessa che la pace sia la continuazione della guerra con altri mezzi, che sia una pace asservita al potere dispotico di un capitale che ha trovato le sue incarnazioni politiche. Per loro, se non cadessero le bombe, i conflitti sociali, le tensioni, le oppressioni quotidiane troverebbero il modo di risolversi da sé. Per noi no. Pur salutando ogni tregua e interruzione della guerra guerreggiata con sollievo e gioia, in questo libro proviamo a guardare la guerra dalla prospettiva non solo del pericolo, della morte e della distruzione da evitare ad ogni costo, ma anche dei processi organizzativi che dentro e contro di essa possiamo aprire (TSS Platform 2023). Il nostro problema non è solo condannare la guerra, ma anche opporre alla sua dura realtà parole e pratiche che essa non sia in grado di governare.

Immagine di copertina: Nell’urlo delle piazze (collage e china, Francesca della Santa; foto di Stella Chirdo)

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Leggi anche la recensione di Maurizio Lazzarato per «Il Manifesto» (7/06/2025)

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