Decima giornata di mobilitazione nazionale, da febbraio, contro Trump promossa da una coalizione di associazioni che vede il 50501 Movement, Indivisible, Move On come le principali. L’intento iniziale – più o meno esplicito e condiviso – è stato di caratterizzare tematicamente ogni giornata di mobilitazione: Hands off il 5 aprile, No Kings il 14 giugno, Rage against Regime il 2 agosto, Workers Over Billionaires (insieme alla coalizione May Day Strong) l’1 settembre, in modo da risultare man mano un percorso contro l’intero spettro delle politiche trumpiane e la svolta autoritaria in atto. Ma come spesso accade i movimenti sono difficili da prevedere sia nella loro nascita che nei loro processi di soggettivazione.
È stata la giornata del 14 giugno – No Kings – in concomitanza con il dispiegamento della Guardia nazionale e dei Marines a Los Angeles, nel momento massimo delle proteste, che ha rappresentato una sorta di riferimento politico e democratico, nonché per la grande partecipazione, tanto da replicarla sabato 18 ottobre. In una situazione in cui l’amministrazione Trump sta accorciando i tempi nella ridefinizione autoritaria degli apparati dello Stato, con l’ICE che progressivamente amplia i suoi poteri repressivi non riferendoli solo alle politiche migratorie ma all’intero “ordine pubblico interno” della società. E il partito Democratico sta realizzando lo stallo, se non il fallimento, della sua politica di contrasto a Trump facendo affidamento sul potere dei tribunali in attesa della scadenza elettorale del prossimo anno. Trump deve consolidare la svolta in tempi brevi e il partito Democratico attualmente non pare attrezzato per reggere un altro anno.
Questo è lo scenario in cui si inserisce la giornata No Kings di sabato 18 ottobre. Con alcune differenze di non poco conto rispetto alle precedenti: per la grande partecipazione, per l’impegno di settori importanti del partito Democratico, di alcuni grandi sindacati, di grandi media come CNN, New York Times, Washington Post, assenti se non critici nelle giornate di mobilitazione precedenti. Il No Kings di sabato è diventato il luogo supplementare in cui si sono incrociate tre aspettative solo in parte coincidenti: la richiesta di una spinta sociale alle politiche del partito Democratico, una forma visibile di un’azione sindacale che non vuole percorrere la strada della violazione delle leggi antisciopero statali e federali, la necessità di un movimento dei diritti civili (nessuna analogia con il passato) che mette al centro la difesa della democrazia e della Costituzione.
Aspettative diverse per un movimento eterogeneo per composizione sociale e geografica. Lungo l’asse Boston-New York-Washington prevale una composizione giovanile bianca, anche se meno evidente rispetto a qualche mese fa, a differenza di Los Angeles, Chicago e il sud, in cui la presenza latina e afroamericana ha un protagonismo maggiore. Sabato sono scesi nelle circa 2600 piazze alcuni milioni di persone. Sicuramente la più grande mobilitazione da quando si è insediato Trump con il secondo mandato. Un movimento che è attraversato pochissimo dallo scenario di guerra mondiale e dall’opposizione alle politiche genocidarie dello Stato di Israele sostenute dagli Usa, come anche da una politicizzazione di una condizione sociale che continua a peggiorare per una parte consistente della popolazione americana.
Accanto ci sono anche, come nel caso di New York, elezioni locali – la probabile vittoria di Mamdani come sindaco – che assumono una valenza politica nazionale nella lotta contro Trump. Aspettative e orizzonti diversi che trovano nel singolo evento e nella resistenza a un compiuto approdo autoritario del trumpismo un punto di raccordo: questa emerge come la cifra caratteristica del movimento No Kings. Tuttavia, sabato, nelle varie piazze, si è sentita con maggiore insistenza la parola vietata da una parte all’altra degli Stati Uniti: sciopero politico.


