Intervista a Chiara Caradonna (Università di Gerusalemme)
Pubblichiamo un’intervista a Chiara Caradonna, Senior Lecturer nei Dipartimenti di Studi romanzi e letterature comparate presso l’Università ebraica di Gerusalemme, svoltasi lo scorso 12 settembre, pochi giorni prima dell’operazione finale condotta dall’IDF per radere al suolo Gaza e portare a termine il genocidio.
Chiara racconta dello stretto spazio di azione per chi si sta organizzando contro il massacro delle e dei palestinesi e contro la guerra dall’interno di Israele. Parla di «Black Flag», il movimento di docenti, studentesse e studenti dei campus israeliani, composto da palestinesi, israeliane e internazionali, che stanno contestando la guerra genocidaria di Netanyahu. Parla del difficile dialogo tra gruppi come questo e quelli che si oppongono all’autoritarismo al governo senza schierarsi contemporaneamente contro l’annientamento di Gaza. Infine, discute di possibili prospettive per chi, dalla Palestina all’Italia, si sta interrogando su come farla finita con questa guerra e con l’annichilimento di decine di migliaia di palestinesi. Di fronte a un movimento già nato, che pure non c’era mai stato, di centinaia di migliaia di persone che scioperano e si mobilitano contro il genocidio delle e dei palestinesi e contro un futuro segnato dalla guerra, c’è bisogno di un discorso comune, di parole condivise, per organizzarci insieme con iniziative potenti e transnazionali. Di tutto questo discuteremo l’11 ottobre a Bologna per l’assemblea di Reset Against the war.
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∫connessioni precarie: Come sono le condizioni per coloro che nell’università israeliane si stanno opponendo allo sterminio della popolazione palestinese a Gaza e alla violenza in Cisgiordania?
Chiara Caradonna: Per ora alle persone che si oppongono, che organizzano eventi, manifestazioni, etc. non è successo nulla, se sono ebrei israeliani (cioè non palestinesi cittadini di Israele). Si tratta di solito degli stessi professori che già da anni sono critici, e sono noti per esserlo, ad esempio Amos Goldberg, che è uno studioso della Shoah, e uno dei primi a dire che si tratta di genocidio. Sono persone già note per avere una posizione critica e a favore di una collaborazione con i palestinesi, e che si battono per un futuro di convivenza pacifica con i palestinesi.
Sicuramente subiscono le critiche degli studenti di destra, che intrattengono con loro una comunicazione non piacevole, però rimane sul piano privato di ciascuno, che ciascuno si gestisce come crede. Ci sono professori che si esprimono politicamente nel campus, nell’università, e altri che sono attivisti più fuori dall’università. In questi ultimi due anni, il primo anno erano tutti sotto shock e l’opposizione si è spostata più fuori dai campus che dentro, perché il campus stesso si è trasformato in un luogo – lo è sempre stato ovviamente, perché è un’università pubblica, statale – se non di propaganda, però sicuramente di ragione di Stato, in cui quello che succede a Gaza era sostanzialmente invisibile. Ci sono stati momenti in cui sono apparse delle immagini nel campus, ma venivano subito tolte, mentre le bandiere israeliane sono dappertutto, le immagini degli ostaggi sono dappertutto. È un luogo molto politicizzato in questo senso e anche le prese di posizioni ufficiali del Rettore e del Presidente sono tutte in questa direzione.
Credo che ci sia voluto un po’ di tempo per capire come agire all’interno del campus, mentre all’esterno del campus nelle manifestazioni che ci sono state c’è sempre un blocco contro l’occupazione, che è piccolo, però c’è.
CP: E studenti e insegnanti palestinesi?
CC: I professori palestinesi sono molto pochi al campus di Scienze Sociali, Lettere e Discipline Umanistiche. Ci sono i campus di Scienze e Medicina che conosco meno perché non li frequento. Gli studenti palestinesi sono in totale circa il 20%, di cui la maggior parte è di Gerusalemme Est. Gli studenti si esprimono poco perché hanno giustamente, legittimamente paura. Per quanto riguarda i professori, c’è stato il caso famoso di Nadera Shalhoub-Kevorkian che è una studiosa femminista dell’infanzia che sta tra Scienze Sociali e Giurisprudenza. Già a ottobre 2023 si è espressa condannando la guerra – credo abbia già usato il termine genocidio in quel momento – e l’occupazione dal ’48. Mentre c’è un relativo consenso sul fatto che si può parlare di occupazione dal ’67, sulla fondazione dello Stato il mainstream israeliano non parla di occupazione. E questa cosa ha causato le ire dell’università, anche perché è un’università su modello americano, cioè dipende molto da donazioni, e i donors sono principalmente americani, principalmente di un orientamento politico sionista. Non so quello che ha luogo un po’ dietro la facciata che noi vediamo, però è stata circolata una lettera in cui il presidente e il rettore dell’università le hanno chiesto di licenziarsi, cosa che lei non ha fatto. Questa lettera è stata anche appoggiata dai membri della facoltà di giurisprudenza. Poco dopo, a marzo 2024, è stata sospesa dall’università per le dichiarazioni fatte in un podcast, e ad aprile 2024 è stata arrestata. La polizia ha fatto un raid a casa sua e hanno confiscato una serie di materiali in arabo, pensando che fossero materiali di sostegno a quello che chiamano terrorismo, e l’hanno tenuta in carcere due giorni. L’università non è intervenuta. Abbiamo scritto lettere, firmato petizioni, però ovviamente non hanno avuto un grande effetto. So che recentemente lei ha dato le dimissioni. Non è più membro dell’università.
CP: Qual è il grado di militarizzazione della società israeliana e che margine c’è per il dissenso politico?
CC: È una società completamente militarizzata. Pochissime persone non hanno fatto servizio militare. Servizio militare significa molto spesso stare ai checkpoint, stare nella West Bank.
C’è un margine per fare una sorta di servizio sociale, soprattutto negli ultimi anni, per chi dichiara di avere un malessere psicologico che impedisce di prestare servizio militare. Soprattutto negli ultimi due anni, però, sono state richiamate al servizio migliaia di persone che sono in riserva, tra cui i nostri studenti. Non abbiamo potuto iniziare l’anno accademico anche per quello, perché la percentuale di studenti che erano stati richiamati all’esercito era tale che avremmo dovuto recuperare poi per loro, in qualche modo, l’anno accademico. Tanto valeva iniziare più tardi, perché tanti sono stati mandati anche al fronte sul Libano.
Se parliamo di militarizzazione in senso più ampio, la quantità di armi è altissima. A livello visivo, di esperienza all’interno della città e del campus, vedi tantissimi M16, la gente viene armata in campus, non c’è il divieto di portare le armi in campus. Itamar Ben-Gvir, che è il ministro della sicurezza, ha dato il porto d’armi a tutti quelli che volevano un’arma. Nel campus tanta gente gira armata, anche in vestiti civili. Io avevo ragazzi armati in classe. Ci sono comportamenti diversi, perché mi ricordo che un ragazzo che aveva un M16 lo teneva molto nascosto, perché ovviamente non è che a tutti loro faccia molto piacere questa cosa, ma non lo possono lasciare incustodito, quindi se lo devono portare sempre dietro. Mi accorgevo che lo nascondeva. Comunque tu sei in una classe in cui tante persone sono armate.
CP: Dalle notizie in Italia e in Europa sembra che le manifestazioni e il dissenso contro il governo di Netanyahu in Israele siano limitati al richiedere il ritorno degli ostaggi. Ci sono organizzazioni più o meno strutturate che invece rivendicano la fine dell’occupazione, del genocidio, della guerra?
CC: Ci sono, si stanno anche rafforzando. Il blocco contro l’occupazione c’è sempre stato. È tutta una tradizione che ha anche dell’attivismo in certe parti di Gerusalemme Est, dove hanno luogo le espropriazioni forzate delle famiglie palestinesi. Una zona che si chiama Sheikh Jarrah è molto famosa proprio per questo. L’attivismo di questo tipo c’è sempre stato, ci sono le persone che vanno in Cisgiordania a fare da scudi alle comunità palestinesi, come si vede in No other land. Sono poche persone molto motivate e molto coraggiose, che sanno che se sei un ebreo israeliano puoi fare la differenza in questo modo. E se vieni arrestato ti tengono una notte e poi ti lasciano andare, in genere non succede più di questo.
A livello dell’università, per rimanere su quello che conosco meglio, nelle manifestazioni c’è stato sempre un blocco piccolo, che è un po’ più forte a Tel Aviv. A Gerusalemme sono poche persone, però ci sono. Nel nostro campus c’è un gruppo di studenti e professori, studentesse e professoresse, che hanno organizzato una serie che si chiama “Gaza all’università ebraica”, che si può tradurre anche come “Gaza in ebraico”. Abbiamo organizzato dei teach-in al campus, in cui si affrontavano vari aspetti della guerra, di quello che poi hanno iniziato a chiamare anche loro genocidio, dentro il campus, e l’idea era di renderlo presente. In università abbiamo alcuni specialisti, persone che fin dall’inizio si stanno occupando molto di seguire e di documentare quello che sta succedendo a Gaza. Abbiamo degli esperti, delle professoresse di Middle Eastern Studies principalmente, degli storici che quello fanno di lavoro. La professoressa Liat Kozma, che è una storica della salute e della sanità, dei sistemi sanitari in Medio Oriente, che insieme allo storico Lee Mordechai sta seguendo e scrivendo molto su quello che succede con gli ospedali, per esempio, hanno anche contatti a Gaza. È stata una cosa molto importante che ha avuto luogo in maniera relativamente pacifica in generale. A riunirsi in queste iniziative erano gruppi di una quarantina di persone. Una volta c’è stata un’azione di disturbo da parte degli studenti di un’organizzazione di destra che sono intervenuti con le bandiere, entrano, urlano, impediscono alle persone di parlare. È successo mentre stava parlando una studentessa palestinese e quindi noi docenti ci siamo alzati e abbiamo fatto da scudo per farla continuare a parlare. Però è successo una volta sola, quindi in realtà credo che non si sentano particolarmente minacciate da questo gruppetto di persone che fanno questa cosa. Poi l’università per cosiddetti motivi di sicurezza ci ha piazzato in un posto in cui non passa nessuno, e questo era quando, tra aprile e maggio 2025, è iniziato un movimento di manifestazioni silenziose in cui tenevamo in mano poster con le immagini dei bambini uccisi a Gaza, con la data e il modo in cui sono stati uccisi. Ci siamo poi spostati in un luogo molto più esposto del campus senza chiedere l’autorizzazione, e lì la manifestazione ha avuto un impatto molto più significativo. Queste manifestazioni sono avvenute anche a Tel Aviv. A quel punto ha iniziato a organizzarsi un movimento che si chiama Black Flag, bandiera nera, che è un modo di dire in Israele e in ebraico che si rifà al massacro di Kafr Qasim nel 1956, in cui la corte suprema che poi si è occupata del caso ha detto no, questa è una bandiera nera, è una macchia, è una cosa scandalosa che va fermata e alla quale è vietato partecipare. Questo è quello che vuol dire Black Flag. È un’organizzazione di studenti e studentesse, professori e professoresse delle università israeliane che vogliono dire basta al genocidio. Nel nostro campus le attività sono un po’ minori rispetto a quelle di Tel Aviv dove hanno fatto anche delle performance, in cui per esempio erano vestiti di nero e si sono sdraiati per terra, come se fossero morti, intorno alla scritta “stop al massacro”. Sono cose di impatto visivo che a Tel Aviv si possono fare di più che da noi perché da noi l’università continua a dire che non è sicuro, perché abbiamo un corpo studentesco molto più misto anche a livello politico, con molti studenti di destra.
CP: Com’è cambiata questa zona di dissenso e di sostegno al popolo palestinese e ai palestinesi dopo il 7 ottobre?
CC: Credo che siano venute alla luce cose che erano già lì. Ci sono volute alcune settimane, perché il trauma del 7 ottobre è stato sentito moltissimo anche nell’ambito più radicale e critico. Tutti si conoscono lì, tutti hanno un amico o un conoscente o un parente che in qualche modo è stato colpito. Siccome è una società molto piccola, sono 9 milioni di persone, diventa subito un fatto molto personale, che ha reso difficile vedere le cose con distacco. Però in realtà chi era critico e chi era radicale già prima contro l’occupazione ha visto molto velocemente quello che stava per succedere e che poi effettivamente è successo. L’anno prima del 7 ottobre è stato un periodo di grandi proteste contro il governo perché stavano attuando una riforma giuridica per togliere qualsiasi tipo di equilibrio dei poteri e per delegittimare la Corte Suprema. C’era un movimento molto forte, di 200.000-300.000 persone, di opposizione e di protesta. Avevamo fatto anche degli scioperi lunghi. Però lo shock ha avuto bisogno di tempo per essere elaborato e anche per questo il Black Flag è iniziato a maggio del 2025, quindi stiamo parlando di un anno e mezzo dopo. Le persone che hanno organizzato gli eventi di “Gaza all’università ebraica” hanno iniziato un anno fa a fare queste cose. Tanti hanno fatto petizioni, tanti hanno cercato di capire come intervenire. Purtroppo è una minoranza, su questo non c’è assolutamente dubbio.
CP: Qual è il rapporto tra queste due facce del movimento contro Netanyahu, ovvero quella che vuole la liberazione degli ostaggi e la parte invece che chiede tutta un’altra serie di cose, tra cui la fine dell’occupazione e del massacro?
CC: La relazione è di una fondamentale discussione che non ha luogo sul futuro politico di queste terre. Non ha luogo nemmeno all’interno del Black Flag perché per avere un minimo di consenso e quindi creare un movimento questo argomento è quasi intoccabile. È quasi intoccabile una discussione sul sionismo, è quasi intoccabile una discussione su cosa accadrà dopo il massacro, perché contemporaneamente sta succedendo tutto quello che sta succedendo in Cisgiordania, che è praticamente annessa, il Golan, le zone della Siria. Stiamo parlando di una cosa quasi inarrestabile. Ci sono coloro che vogliono uno stato palestinese, quelli che vogliono una soluzione binazionale… Ci sono varie possibili opzioni alternative che in alcuni contesti vengono discusse. Ci sono dei luoghi di conversazione israelo-palestinesi. C’è un movimento molto forte, soprattutto civile e senza un rappresentante politico. È un movimento che si chiama Standing Together. Sono molto attivi ed è un movimento molto giovane. Il problema è che non hanno una rappresentanza politica e le rappresentanze politiche che ci sono nel parlamento israeliano, per esempio dei partiti palestinesi o con delle componenti palestinesi, vengono represse e perseguitate.
Quindi questa relazione è molto difficile. Credo che nessuno, sicuramente nel movimento per la liberazione degli ostaggi, si ponga ora questa domanda. Anche per questo è nato il Black Flag. Una della serie di incontri che organizzano si chiama Eyes on Gaza proprio per questo, perché all’interno del mainstream anche critico israeliano di Gaza non parlava nessuno, non parla nessuno. Detto proprio brutalmente: liberate gli ostaggi e poi potete fare quello che volete.
CP: Da parte di molti atenei in Italia ed Europa c’è stata una richiesta da parte di movimenti studenteschi o di insegnanti per rompere tutte le relazioni con gli atenei israeliani. Esistono, a tua conoscenza, dei casi di collaborazione tra atenei a livello internazionale con gli atenei israeliani contro il massacro di Gaza?
CC: Che io sappia no. Il Black Flag è poco conosciuto, sta iniziando a diffondersi adesso. Io faccio parte del gruppo che si dovrebbe occupare delle relazioni diplomatiche, però è un po’ un’arma a doppio taglio, nel senso che poi può diventare un modo per edulcorare un po’ l’opinione pubblica israeliana. Se qualcuno si rivolge a noi dall’estero con delle richieste specifiche di venire a parlare, di spiegare cosa sta succedendo, volentieri. Però non deve diventare una cosa per cui noi siamo esentati da una responsabilità perché stiamo facendo questa cosa. Le università israeliane sono comunque profondamente coinvolte, embedded nel sistema, in un sistema oppressivo. Abbiamo tanti studenti palestinesi, è importante sostenerli, è la loro possibilità di accedere a un sistema accademico molto ben collegato con le università occidentali, però questo succede perché le loro università non possono svilupparsi come dovrebbero a causa dell’occupazione. Birzeit in Cisgiordania è completamente isolata, per esempio. Quindi è una cosa su cui bisogna riflettere molto. Credo che un’interruzione dei contatti a questo punto sia necessaria. Mi sembra non ci sia alternativa. Si possono però individuare singole persone con cui si può collaborare, certo, ma non a livello istituzionale.
CP: Dai media sembra quasi che non ci sia nessun intento di continuare a fare quella politica, già insostenibile, che c’era prima del 7 ottobre, ovvero un’oppressione generalizzata, un’occupazione violenta, però di intensità più o meno costante. Sembra che ci sia ora l’intento di Netanyahu di sterminare totalmente, cancellare Gaza e rendere la Cisgiordania totalmente una parte di Israele. Questa interpretazione, secondo te, è corretta?
CP: Sì. Non sono una politologa, quindi non voglio entrare nel merito di un discorso specialistico, nel senso che ti posso dire quello che leggo anch’io nei media, i giornalisti israeliani che seguo. Se non è l’intenzione di Netanyahu, sicuramente è l’intenzione del suo governo. E Netanyahu fa quello che gli permette di mantenere in piedi questo governo. Sull’occupazione di Gaza c’è un relativo consenso sul fatto che ci siano dei vantaggi, perché comunque era già occupata da vari decenni, fino all’inizio degli anni 2000, e quindi viene considerato un ritorno a Gaza. Con la Cisgiordania è la stessa cosa – il ministro che è responsabile della Cisgiordania è Bezalel Smotrich. Questo era chiaro però anche prima del 7 ottobre. L’annessione de facto, non de jure, della Cisgiordania stava già avvenendo prima del 7 ottobre. Il 7 ottobre da questo punto di vista per l’estrema destra è stato un regalo. Non voglio fare teoria del complotto, però è una questione che viene sollevata spesso. Bisogna ricordare che i kibbutzim del confine con Gaza sono per la maggior parte kibbutzim di sinistra. Sionisti, sicuramente – la categoria di sinistra va usata con cautela – ma non sono i settler che ci sono in Cisgiordania. Sono attivisti per la pace, gente che portava abitanti di Gaza negli ospedali israeliani, gente che credeva a una possibilità di pace e di convivenza. C’è un discorso all’interno della sinistra israeliana secondo cui queste persone sono state sacrificate da un governo di estrema destra a cui di queste persone non importa molto.
A me ha colpito molto un film documentario molto bello su Gaza, “Close, Closed, Closure” di Ram Loevy, girato all’inizio degli anni 2000, durante la seconda intifada e l’inizio della chiusura di Gaza – quello che in ebraico si chiama segher, il blocco. Questo documentario segue questo sviluppo dalle due parti, intervistando sia abitanti di Gaza che abitanti dei kibbutzim che poi sono stati attaccati il 7 ottobre. C’è una scena in cui alcuni degli abitanti di uno dei kibbutzim stanno manifestando al confine contro l’occupazione. C’è Chaim Perri, una delle persone anziane che sono state poi prese in ostaggio da Hamas, che ha un pezzo di cartone con su scritto, in ebraico, “l’occupazione ci uccide”. E effettivamente questo signore non è più tornato poi da Gaza, e secondo me questo è molto significativo. All’interno del movimento degli ostaggi c’è una figura molto toccante, Yocheved Lifshitz, una signora anziana che è stata presa in ostaggio insieme al marito, che è morto a Gaza. È stata una delle prime a essere liberata a ottobre 2023, nel primo accordo. La scena è famosa: quando è stata liberata ha stretto la mano e ringraziato i rapitori. Ha dichiarato di essere stata trattata bene. Da quel momento le conferenze stampa sono state controllatissime. Si tratta insomma di attivisti. Si può parlare della problematicità del sionismo ab origine, ma in queste circostanze, si tratta di persone che avevano un’altra visione.