Il movimento che accompagna la Global Sumud Flotilla è un movimento già nato, che pure non c’era mai stato. Fin dal febbraio 2022, il rifiuto della guerra proveniente dall’Ucraina è risuonato fin dentro l’Europa e oltre. Rifiuto di diventare carne da macello della geopolitica, rifiuto del militarismo e della sua politica del sacrificio, rifiuto dei confini e della loro violenza, rifiuto di rimanere schiacciati dalla Terza guerra mondiale che stava già allora prendendo forma. Questo rifiuto ha accompagnato il movimento contro il genocidio delle e dei palestinesi che Israele porta avanti da ormai due anni. Lo ha accompagnato, ma è rimasto in sottofondo: gli ha dato delle parole, senza mai conquistarlo del tutto. L’enormità dei crimini israeliani, lo scempio quotidiano delle vite palestinesi, di fronte al quale il diritto internazionale e il suo umanitarismo sanno solo impallidire o tacere, hanno d’altronde stabilito una priorità. Il genocidio va arrestato, ma il terrore impunito di Israele ha lasciato il movimento in preda a parole che mimano altra guerra e che generano senso di frustrazione e smarrimento, resi ancora più acuti di fronte all’urgenza di fare qualcosa.
L’urgenza e il rifiuto
Serviva un’altra rotta, così come serviva dare un piano di concretezza per rispondere a un’urgenza non più rinviabile. La Flotilla ha risposto a questa urgenza perché urlare alla luna serve a poco, certo, ma chi pensa di poterla tenere sotto assedio va fermato a ogni costo. Rompere il vile assedio israeliano a Gaza, allora, spezzarne la politica di fame e bombe: un’ambizione necessaria che non si è fatta prendere in ostaggio dai diktat della guerra e ha prodotto una mobilitazione di massa transnazionale, riaccendendo un assopito senso della possibilità.
Ecco, dunque, il movimento già nato, che pure non c’era mai stato. Non in questa forma, almeno. Non ci interessa infatti misurare il grado di purezza ideologica di chi in Europa e Nord Africa ha sostenuto o partecipato alla Flotilla, ma semmai valorizzare la composizione eterogenea, inedita e transnazionale, oltre a far valere la scommessa che ha messo sul tavolo: per mare o per terra, opporsi al genocidio è ancora possibile e deve essere fatto ora. È scaduto il tempo del never again: è ora di mettere fine al crimine che non può essere commesso, ma che pure continua a consumarsi senza tregua. L’urgenza di fronte a cui non avremmo voluto essere messi, il tempo che ci manca, ha lavorato ad allargare i confini della mobilitazione, così da intercettare coloro i quali rifiutano che la guerra, con il suo corollario militarista di coazione al lavoro, patriarcato e razzismo, sia il nostro ineluttabile destino.
Urgenza e rifiuto non possono essere disgiunti, ma devono essere ricompresi in un progetto di opposizione politica alla guerra espansivo e di più lungo periodo rispetto ai tempi giustamente contingentati della Flotilla. La Flotilla ha, così, aperto uno spazio affinché la lotta contro il genocidio delle donne e degli uomini palestinesi diventi parte di una lotta contro una guerra mondiale che, con intensità e crudeltà diverse, si abbatte ovunque sul lavoro vivo.
Palestina e Ucraina transnazionali
Certo, il governo israeliano ha anticipato la Flotilla e ha invaso Gaza per attuare una nuova Nakba, un’altra e più sanguinosa catastrofe che si abbatte sulla questione palestinese per apporvi questa volta la parola fine.
Lo esige – dice Netanyahu – la sicurezza di Israele che, nel frattempo, con la costituzione del blocco E1 in Cisgiordania, ha di fatto messo una pietra sopra all’ipotesi di uno Stato palestinese, mentre fa terra bruciata in Medio Oriente in nome di un ‘più grande Israele’. Il fatto è che la questione palestinese è diventata un problema per il consolidamento di reti del valore che corrono tra Europa e Sud-Est asiatico e che hanno nel Medio Oriente uno snodo centrale. Come ogni problema, essa richiede una soluzione. Israele l’ha trovata nella pulizia etnica a maggior gloria del capitale, dimostrando agli investitori di tutto il mondo che non solo è pronto a tutto per salvaguardare il loro profitto, ma può anche garantirgliene di nuovi. La centralità della lotta contro la guerra a Gaza, dunque, non sta tanto nel suo essere un modello per le altre lotte, quanto, tra le altre ragioni, nella condizione transnazionale in cui si dispiega.
In altri termini, dalle sorti delle centinaia di migliaia di donne e uomini palestinesi sotto il tiro delle bombe israeliane dipende anche la possibilità o meno di fare della Striscia di Gaza una «miniera d’oro» per il capitale transnazionale, come sostiene un compiaciuto ministro israeliano. Una miniera ricolma di cadaveri non disturba il capitale che nelle guerre contemporanee trova sempre più un’occasione di valorizzazione, né si lascia spaventare da un’eventuale scarsità di forza lavoro che può sempre procurarsi altrove. Esso, anzi, avanza nel fango della guerra con la stessa fame di sangue con cui è venuto al mondo.
Lo sta facendo a Gaza, come lo sta facendo in Ucraina, dove la ricostruzione è già diventata un affare assai attraente, tanto più che, nell’uno come nell’altro caso, si verificherà una marcata compressione dei salari. È per questo che riconosciamo nella lotta per Gaza un pezzo irrinunciabile della lotta di classe transnazionale. Dobbiamo lottare per Gaza così come non possiamo lasciare l’Ucraina nelle mani di chi vorrebbe scacciare l’invasore russo solo per farne un paradiso di pace e profitto per fondi di investimento come Blackrock.
Frammenti di sciopero
È possibile che la ferocia dell’esercito israeliano arrivi a bombardare le imbarcazioni della Flotilla, ma siamo certi che non potrà spegnere la mobilitazione contro la guerra. Anzi, se l’invasione di Israele ha trovato la risposta pronta, immediata e in massa delle piazze italiane, in larga misura lo dobbiamo alla mobilitazione innescata dalla Flotilla. Una mobilitazione che sta spingendo i sindacati a chiamare scioperi come non si vedeva da tempo e a una rincorsa di date che, in ogni caso, conferma l’urgenza di fare qualcosa che emerge a livello di base e che nessun sindacato può ignorare. Così come le piazze delle città italiane si riempiono con chiamate dell’ultimo minuto e con una composizione che va ben oltre i recinti organizzativi del movimento. La fine del genocidio a Gaza trova ora sempre più posto in un discorso contro la guerra, dove non solo ricompare l’Ucraina colpita da una recrudescenza della violenza militare russa, ma si mostrano anche i nodi sociali della guerra.
C’è un’indisponibilità diffusa e collettiva a un futuro sotto il segno della guerra che va evidentemente colta e che si intreccia a un impoverimento diffuso del lavoro, all’eterno ridimensionamento del welfare e dei servizi educativi piegati a ideologie reazionarie, a un rigurgito di violenza patriarcale e a un indurimento delle condizioni di vita per le donne e gli uomini migranti. Lo abbiamo visto nella marcia dei diecimila operai che hanno occupato la tangenziale di Bologna, lo vediamo nelle lotte nel settore tessile a Prato, nelle mobilitazioni nelle università e nelle scuole, come in altre vertenze. Continuiamo a vederlo nelle maree femministe che nella guerra e nel militarismo hanno sempre smascherato la presenza mai discreta del patriarcato, che si accanisce con più ferocia sulle donne migranti. Non smettiamo di vederlo anche nei movimenti delle e dei migranti che, nonostante i piani carichi di militarismo razzista di Meloni, Merz o von der Leyen, continuano a muoversi attraverso i confini.



Si tratta, perciò, di riannodare fili di movimenti e mobilitazioni altrimenti disperse e che le destre al potere puntano a tenere separate, quando non a reprimere con inusitata durezza. Riannodare i fili significa intrecciare la solidarietà transnazionale alle donne e agli uomini palestinesi con la condizione del lavoro vivo, a partire dall’Europa, sapendo che non si tratta di una ricomposizione o di una convergenza scontata. Il processo organizzativo avviato dagli scioperi per Gaza può segnare sotto questo aspetto delle tappe importanti per quello che per noi deve essere l’orizzonte condiviso: uno sciopero europeo contro la guerra, capace di intercettare le condizioni e le domande del lavoro vivo. Per ora, abbiamo solo frammenti di questo sciopero. Come metterli in movimento rimane la domanda sul tavolo.
Apprendisti stregoni sull’orlo dell’abisso
Quello che sappiamo è che il piano nazionale non è sufficiente per contrastare la guerra. Questa è una guerra mondiale a cui gli Stati nazionali non potranno mai mettere fine. Non c’è nessuna Versailles, neanche una Versailles del capitale, ad attenderci al termine della guerra, se non altro perché il capitale transnazionale non ha bisogno della pace, ma ha imparato a fare affari perfino in mezzo a un genocidio. Ci sono invece Stati alla disperata ricerca di un’impossibile rinazionalizzazione e potenze un tempo egemoni costrette a rinunciare all’egemonia per palese insufficienza degli strumenti per imporla: insufficienza a cui si vorrebbe rispondere con una politica dei dazi per riassestare i fondamentali economici statunitensi, che tuttavia deve essere di volta in volta rinegoziata non solo con i governi nazionali ma più spesso con i principali esponenti del capitale transnazionale.
Sotto la velina ideologica di un ritorno per via bellica di Stati sovrani e addirittura imperiali c’è, in verità, il disordine transnazionale e selvaggio che la guerra ha pienamente scoperchiato. Un disordine in cui ogni regola è saltata e quello che un tempo sarebbe stato chiamato Stato canaglia si sente autorizzato non solo a commettere un genocidio e a bombardare gli Stati limitrofi, ma perfino a uccidere i negoziatori impegnati nelle trattative per mettere fine alla guerra che esso stesso ha provocato.
Quello che Israele ha compiuto a Doha è amaramente istruttivo, così come lo è il discorso sullo stato dell’Unione di Ursula Von der Leyen. Un discorso da nemico alle porte e guerra in casa, che invoca la militarizzazione del bilancio europeo e individua l’obiettivo comune degli Stati UE in investimenti ad ampio raggio in un settore della difesa ormai onnivoro, che non risparmia, cioè, ricerca, produzione industriale, intelligenza artificiale e tecnologie green. Facendo eco alle sue «gentili parole», Draghi è stato ancora più chiaro di Von der Leyen: «la linea di confine tra economia e sicurezza è sempre più sfumata».
La guerra che cala sull’economia, fino a diventare tutt’uno con essa e con la società, è il sogno a occhi aperti di questi sonnambuli e apprendisti stregoni che ballano sull’orlo dell’abisso in cui vorrebbero risucchiarci. Il piano Rearm Europe messo sul tavolo dalla Commissione UE è la sua trascrizione istituzionale: 800 miliardi di euro per preparare l’Europa alla guerra entro il 2030 e, nel frattempo, preparare il lavoro vivo a un comando sempre più ferreo e privo di garanzie sociali, all’interno di società in cui l’irrigidimento dell’ordine interno – di classe, razziale e sessuale – dovrebbe compensare il disordine imperante nello spazio transnazionale. In altre parole, un piano per ordinare un mondo in guerra attraverso la mobilitazione bellica che, inevitabilmente, condurrà ad altra guerra. I mezzi sono i soliti. È il loro fine a essere ormai completamente pazzo.
Per uno sciopero europeo contro la guerra
Nel suo discorso finale all’Assemblea nazionale francese, l’ex primo ministro Bayrou ha detto che essere dominati da una potenza straniera o essere dominati dai creditori per eccesso di debito pubblico è sostanzialmente la stessa cosa. Ripeteva, in altra salsa, la stessa logica del piano di riarmo: è bene che donne, operai e migranti si preparino a versare lacrime e sangue, perché l’imperativo della difesa e della sicurezza non fa sconti. La risposta dalle piazze ai luoghi di lavoro è stata: «blocchiamo tutto!». Dobbiamo far sì che questo grido oltrepassi i confini e trovi una capacità organizzativa transnazionale, traendo forza tanto dal movimento cresciuto attorno alla Flotilla, quanto dal rifiuto sempre più diffuso di un mondo fatto di guerra, oppressione, razzismo, patriarcato e sfruttamento.
Dobbiamo agire al più presto per fermare lo sterminio delle e dei palestinesi. Non possiamo però rinunciare a un progetto complessivo di opposizione politica alla guerra che richiede tempo e la capacità di intercettare le insubordinazioni sociali che scuotono le nostre società dentro la Terza guerra mondiale. Abbiamo bisogno di nuove coordinate e di nuove parole, di tattiche e strategie da discutere e pensare insieme, perché non possiamo accontentarci della nostra insufficienza.
Che il movimento si sia rianimato attorno a esigenze condivise è per noi un fatto importante e, anche per questo, mentre stiamo e continueremo a stare nelle mobilitazioni e negli scioperi che in queste settimane e nei prossimi giorni attraverseranno piazze, luoghi di lavoro e Università, rilanciamo l’incontro della rete Reset che si svolgerà a Bologna il prossimo 11 ottobre. Non si tratta più di cercare solo un modo per salvare la pelle, ma di insistere nella costruzione di spazi e possibilità di organizzazione per impedire che la guerra continui a pesare come un macigno sopra le nostre vite.
