∫connessioni precarie

Gli scarponi del lavoro vivo, ovvero per farla finita con l’Europa di guerra

Sezione

These boots are made for walkin’
And that’s just what they’ll do
One of these days, these boots are gonna walk all over you
(N. Sinatra, These Boots Are Made for Walkin’)

Si può parlare oggi di Europa solo partendo dalla sua fine. Non per inseguire il tramonto dell’Occidente o di quel che ne resta. Partire dalla fine dell’Europa non significa infatti annunciarne la morte. Significa, invece, fare della fine dell’odierna Europa di guerra un punto di partenza della nostra politica. Non abbiamo niente da guadagnare da questa Europa. Eppure, questa Europa è lo spazio transnazionale in cui le nostre vite e le nostre lotte si intrecciano a quelle di milioni di altri uomini e donne. Si tratta, allora, di affrontarla con chi cerca l’Europa nonostante questa Europa: con chi la sfida sfuggendo alla trappola mortale dei suoi confini, chi lotta per attraversarli e non smette di lottare una volta che ci mette piede, chi strappa permessi di soggiorno, pezzi di salario e di welfare, chi vi trova spazi di libertà di movimento e libertà sessuale. Chi, migrando da lontano o dall’Est europeo, o lavorando e vivendo come precario o precaria nel cuore dell’Europa, ha provato e prova a cambiarla materialmente con i piedi, le mani e tutto quello che ha a disposizione per organizzarsi, lottare e guadagnarsi pezzi di vita e di libertà.

Dall’Europa dei diritti all’Europa di guerra

C’è stato il tempo di un’Europa dei diritti. L’Europa della Carta di Nizza, a cavallo degli anni 2000, non prometteva certo la fine dello sfruttamento, ma lasciava intravedere un orizzonte sovra-nazionale per liberare cittadinanza e welfare dalle chiusure territoriali degli Stati, per organizzarsi attraverso confini che facevano la faccia feroce perché già allora non reggevano più, e per lottare per i diritti, sì, ma soprattutto per qualcosa di più.

Lasciamo volentieri ad altri i lunghi elenchi di maschi bianchi morti, padri fondatori più o meno immaginari di un’Europa che, in verità, non ha mai smesso di praticare la guerra. Non ci interessa, d’altronde, rincorrere un passato che non c’è più, ma registrare che l’Europa dei diritti è finita. Dell’Europa è rimasto ormai solo un ricordo di cui possiamo anche fare a meno. A rianimarla non sarà la riscoperta tardiva del manifesto di Ventotene, buono, tutt’al più, a impegnare qualche lettura domenicale. E non sarà neanche un’introvabile Europa costituente, che dai municipi resisterebbe ai diktat di Bruxelles e del capitale globale: non solo perché c’è rimasto ben poco per cui resistere, ma soprattutto perché il rapporto di forze non depone a favore della resistenza neomunicipalista. Non si può fermare l’Europa di guerra dentro le mura della propria città, né ignorare l’evidenza bellica che le istituzioni europee sono ormai una corazza impenetrabile a tentativi paraistituzionali.

D’altra parte, sull’Europa dei diritti è già calata da tempo la mannaia dell’Europa dell’austerity più brutale: l’Europa imposta alle donne e agli uomini greci, mentre sull’intero continente scendeva una ventata neoliberale di lavoro povero e precario, smantellamento del welfare, rigurgiti patriarcali e razzismo dispiegato. Eppure, i movimenti contro l’austerity e le tempeste di donne e uomini migranti hanno mostrato a più riprese – specie all’altezza della crisi siriana del 2015 – che il neoliberalismo e il razzismo non sono il destino dell’Europa. Nella congiuntura dettata da crisi pandemica e crisi climatica le molteplici insorgenze del lavoro vivo hanno poi svelato tutta l’inconsistenza del progetto di governo neoliberale dell’Europa, incapace di provvedere alla riproduzione di una società che chiedeva salario, reddito e welfare e non ‘lavori essenziali’ da sfruttare più duramente nelle fabbriche e nei campi e lavoro di cura imposto a donne e migranti.

Nonostante i loro limiti, il Recovery Plan e il Green Deal sono figli di questa stagione di lotte che, sia pure momentaneamente, ha sospeso la durezza del comando neoliberale. Mentre i fondi del Recovery Plan sono in via di esaurimento e la transizione ecologica ha lasciato il posto alla transizione militare, quello che ci resta è un’Europa di guerra. Come farla finita con questa Europa è la domanda con cui dobbiamo fare i conti.

Il riarmo europeo e gli scarponi del lavoro vivo

Boots on the ground, scarponi sul terreno: è il gergo militare per indorare la pillola delle operazioni di terra. Scarponi che in Europa non sono ancora stati mobilitati in massa. Ciò non toglie che la guerra sia già entrata nella ‘casa comune’ europea. Già dopo lo scoppio della guerra in Ucraina abbiamo visto crescere di giorno in giorno un’ondata di militarismo, riproposizione in armi del mantra neoliberale non c’è alternativa, che vorrebbe imporre «l’obbedienza cadaverica del soldato» a chi continua a lottare per un altro mondo plausibile.

Il militarismo è l’ideologia della Terza guerra mondiale in atto, la cui posta in gioco è perfino più alta del controllo di territori e terre rare. La guerra mondiale non è infatti solo una competizione tra Stati, ma una contesa per il comando sul lavoro vivo globale e la sua libertà di movimento. Essa è il portato delle contraddizioni insite nell’impossibile governo politico globale dei processi capitalistici e nell’antagonismo che li caratterizza. Proprio perché ogni ipotesi di ordinamento politico del disordine transnazionale si è rivelata illusoria, la cattura dell’antagonismo di operai, precari, migranti, donne e persone lgbtq+ è diventato il bottino più ambito di questa guerra.

ReArm Europe è, certo, un piano di difesa militare. Ma la difesa dell’Europa, oggi, passa per la messa in sicurezza del comando sul lavoro vivo. Il riarmo è il salto di specie del militarismo e della guerra in casa. Gli 800 miliardi in allentamento delle regole fiscali e prestiti messi sul tavolo dalla Commissione europea, la programmazione della spesa militare attorno al 4% del Pil dei singoli Stati, non sono tanto un segnale a Putin, ma una minaccia a milioni di donne e uomini europei e migranti che con la coazione al lavoro povero e la fine del welfare pagheranno il loro tributo alla guerra. Sono, inoltre, il segnale del passaggio dalla transizione verde alla transizione verde militare, con Rheinmetall e Leonardo pronte a rilevare gli stabilimenti dell’automotive in crisi per farne delle fabbriche di armi.

ReArm Europe, dicono, segna la fine della lunga epoca dei ‘dividendi di pace’ goduti dall’Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Noi ricordiamo che ogni cosa strappata è stata pagata a caro prezzo. Nonostante il prezzo pagato all’alleato statunitense per garantire la sua difesa militare, l’Europa si è ricostruita secondo un progetto di pace continentale, crescita economica e welfare che, se universalistico non è mai stato, è stato il risarcimento dovuto a milioni di proletari e proletarie che l’hanno liberata dal nazi-fascismo, pronti a reclamarlo nei cicli di lotta che da subito hanno scosso le fabbriche e la società. Se il riarmo è il congedo da un mondo che non c’è più, lo è soprattutto perché assume un piano di guerra con cui l’Europa intende stare dentro il conflitto mondiale per riprodurre il capitale sulla pelle del lavoro vivo. Trovare nuove leve per la valorizzazione del capitale, colpendo nel frattempo con la scure dell’austerità ogni illusione di condivisione. Sacrificare pace e welfare per inseguire l’eterna promessa della crescita economica, agganciando la riproduzione della società e delle sue gerarchie alla guerra: ecco la strategia dell’UE.

Sbaglia chi vede in questo piano un rafforzamento dell’Unione, che ritroverebbe così nelle sue radici belliche la ragione della sua esistenza. Non intendiamo sottovalutare i costi sociali di questo piano, che saranno durissimi, bensì trattarlo come un piano di emergenza, come una reazione al disordine alimentato dal capitale transnazionale e selvaggio che sfugge a ogni tentativo di controllo politico. Un piano abbozzato in fretta dalla Commissione von der Leyen dopo il voltafaccia dell’alleato statunitense, mentre la pax trumpiana non solo non mette a tacere le armi, ma ha lanciato una guerra commerciale in grande stile che, per giungere a una tregua, esige che il ReArm europeo si serva alle fabbriche di armi statunitensi.

All’emergenza si aggiunge così la debolezza politica dell’Unione che, oltre a non disporre nell’immediato di infrastrutture produttive per centrare gli obiettivi militari, si ritrova Stati recalcitranti e fortemente indebitati come l’Italia e, dunque, impossibilitati a pagare per i piani di guerra europei. Il che evidentemente non significa che la fine dell’Europa di guerra possa passare da un ritorno a una politica degli Stati, da una qualche resistenza sovranista agita dal basso che non ha gambe né strumenti per imporsi nel disordine transnazionale. Chiunque cerca scorciatoie sovrane si infila in un pericoloso vicolo cieco. Perfino il protezionismo di Trump deve fare i conti con la verità incontrovertibile che il mercato mondiale in un paese solo semplicemente non c’è e non può esserci.

Non c’è però neanche un’Unione europea capace di imporre il destino della guerra all’intera popolazione dell’Europa. Il riarmo è, in verità, un piano tanto debole, quanto feroce e infine velleitario, perché è impossibile stabilire oggi, a qualsiasi livello, un governo politico del capitale transnazionale. Ma sarà un piano che farà fatica a mettere i suoi boots on the ground perché dovrà scontrarsi anche contro i nostri scarponi: scarponi fatti per muoverci liberi, non per marciare al passo militare. L’Europa di guerra non è invincibile. Si può e si deve battere.

Distanze infinite e organizzazione transnazionale

Il disarmo è oggi una delle risposte dei movimenti al riarmo europeo. Una risposta logica e necessaria, certo, ma insufficiente. Il disarmo presuppone che la Terza guerra mondiale non sia già una realtà, ma qualcosa di ancora evitabile o quantomeno rinviabile. Fermiamo dunque la corsa al riarmo dei sonnambuli incoscienti di Bruxelles e ci salveremo della guerra? Certo, se non fosse però che la guerra è già qui tra noi a dettare le condizioni della produzione e della riproduzione sociale, a riattivare un immaginario di violenza patriarcale e razzista ormai incistato nella realtà di tutti i giorni, a scatenare misure repressive contro chi protesta.

Se il militarismo ridefinisce le condizioni di messa al lavoro di precari, donne e migranti, non batteremo l’Europa di guerra recuperando la bandiera della democrazia dal fango in cui l’hanno gettata i governi europei. Le politiche securitarie e repressive promosse a colpi di decreto e di manganello sono solo un pezzo di una più ampia torsione autoritaria calata sulle fabbriche come sulle università, di una violenza agita nelle questure da zelanti funzionari del ministro della deportazione Piantedosi, così come nelle case da uomini violenti, esecutori di un mandato di virilità che la guerra sta rilegittimando. Questa torsione autoritaria vive nella guerra e della guerra in cui siamo: non la rovesceremo appellandoci alla democrazia o a un fronte comune contro l’eterno ma sempre meno efficace spauracchio del fascismo.

Democrazia non è oggi più neanche il nome di un problema, ma solo una parola vuota per accelerare i piani europei di guerra contro il lavoro vivo. A fronteggiare l’Europa della guerra c’è però oggi un’Europa che manifesta una diffusa domanda di pace. A questa domanda abbiamo saputo parlare solo in parte e, non a caso, è stata infine strumentalizzata dalla destra, che ha venduto la pace come una barriera, un muro per difendersi dal disordine transnazionale. È la pace trumpiana, ovvero la faccia nascosta della Terza guerra mondiale, che continua a mietere vittime in Palestina come in Ucraina, a sbarrare la strada e a deportare donne e uomini migranti, a rendere più odioso il comando sul lavoro vivo. Una pace che non c’è, volto beffardo e inseparabile dalla guerra dei dazi.

Più la guerra mondiale guadagna terreno e si fa strada nella ‘casa europea’, più essa suscita avversione tra chi in Europa ne subisce maggiormente gli effetti. Un’avversione che, se pure si mescola a stanchezza e rassegnazione, è nondimeno il rifiuto di condizioni sociali insostenibili e di mattanze e genocidi inaccettabili.

Finora la pace è stata un affare diplomatico tra Stati disposti al massimo a siglare una ‘Versailles del capitale’, ovvero una pace che indurirà le condizioni dello sfruttamento, del patriarcato e del razzismo. Strappare la pace agli Stati e alle destre, che se ne appropriano per continuare la guerra con gli stessi mezzi, è il primo passo da fare. Ma non basta. La pace che cerchiamo deve mettere in salvo le vite di chi sta sotto le bombe, ma anche fermare la guerra senza confini contro il lavoro vivo globale. Non ci interessa una pace che sia l’appendice di politiche campiste, che riproducono linee di divisione tra popoli a cui la guerra lavora già incessantemente.

La pace che vogliamo deve radicalmente rovesciare rapporti sociali di forza in una politica transnazionale che per noi comincia in Europa. Noi non ci accontentiamo di una pace populista, apparentemente cieca di fronte alle differenze, perché sappiamo che un immaginario ‘popolo della pace’ finirebbe inevitabilmente per tramutarle in gerarchie. Per noi la pace non è un’invocazione astratta né universalista, ma una politica di parte per costruire quel campo di visibilità in cui possano comunicare e organizzarsi operai, precari, migranti, donne, persone lgbtq+, ovvero quei soggetti che più di chiunque altro sopportano e rifiutano il peso della guerra.

Farla finita con l’Europa di guerra significa per noi fare dell’Europa uno spazio di lotta e di movimento. Un terreno da attraversare con gli scarponi del lavoro vivo, quelli che servono a calpestare il comando, l’oppressione e lo sfruttamento che nella guerra trovano una nuova sintesi. Serve dare forza e gambe a lotte in grado di connettere soggetti e condizioni che la logica di guerra costantemente divide e contrappone: una direzione su cui il movimento femminista si sta già muovendo, combinando rifiuto della guerra e lotta contro la violenza patriarcale. Se la lotta contro la guerra è una lotta del lavoro vivo, abbiamo allora bisogno di un’immaginazione politica capace di superare la consueta dialettica tra amico e nemico con cui, in mancanza d’altro, si cerca di camuffare la lotta di classe. Identificare il ‘nemico’ o dividere il mondo in fronti contrapposti non ci aiuta a organizzare il carattere mobile, differenziato ma, proprio per questo, politicamente dirompente del lavoro vivo.

Non basta né boicottare le fabbriche di armi, né ridurre la politica della pace alla politica delle alleanze più giuste o più pure. Abbiamo bisogno di un più ampio transnazionalismo che guardi all’Europa e oltre l’Europa. Un transnazionalismo che si misuri con la distanza apparentemente infinita che separa un operaio in mobilità dell’automotive europeo, una precaria dell’università italiana in sciopero e un uomo o una donna palestinese o ucraina che sfuggono alla furia omicida della guerra e alla violenza cieca di un genocidio. Non metteremo fine alla guerra, non avremo la pace, senza agire e pensare come parte di un’organizzazione transnazionale che faccia di questa distanza una connessione possibile e praticabile. Organizzazione, qui, non è tanto il frutto di una condizione condivisa, ma piuttosto di una estraneità comune a questo presente che trova nel nome della pace la ragione transnazionale della sua lotta.

Pace può essere allora la parola d’ordine di un lavoro vivo che fa valere la sua forza collettiva e transnazionale. Guerra è, invece, la parola con cui oggi l’Europa cerca sé stessa e la forza per frammentarlo e schiacciarlo. Lottare contro l’Europa di guerra, organizzarci per mandarla in pezzi, è un passo necessario di una politica transnazionale di pace.

Articoli ∫connessi

Pubblichiamo, contestualmente a un’anticipazione del primo capitolo sul sito di Machina, l’introduzione al libro Nella Terza guerra mondiale. Un lessico...

Non ci stupisce che la morte di papa Francesco abbia fatto clamore. Nemmeno ci stupisce...

Avvicinandosi le celebrazioni più sentite nel mondo della sinistra italiana, abbondano le riflessioni sul tempo...

Pubblichiamo, contestualmente a un’anticipazione del primo capitolo sul sito di Machina, l’introduzione al libro Nella...

Non ci stupisce che la morte di papa Francesco abbia fatto clamore. Nemmeno ci stupisce...

Avvicinandosi le celebrazioni più sentite nel mondo della sinistra italiana, abbondano le riflessioni sul tempo...

LEGGI ALTRO DA editoriali

Dove sono i nostri? La domanda si riaffaccia ogni volta che una destra con la bava alla bocca e il...

A quasi un anno dal 7 ottobre la necessità di dare corpo a un movimento...

→ English Nel passato più e meno recente, in Italia, l’invocazione alla “resistenza” è risuonata...

Dove sono i nostri? La domanda si riaffaccia ogni volta che una destra con la...

A quasi un anno dal 7 ottobre la necessità di dare corpo a un movimento...

→ English Nel passato più e meno recente, in Italia, l’invocazione alla “resistenza” è risuonata...