Non ci stupisce che la morte di papa Francesco abbia fatto clamore. Nemmeno ci stupisce che il governo italiano ne abbia approfittato per togliersi dall’impaccio della Liberazione proclamando il lutto nazionale. Non fate chiasso, è morto il papa. Nel frattempo, però, abbiamo assistito all’urgenza dei compagni e persino delle compagne di dire la loro bonaria ultima parola sul papa. Su questo non abbiamo un’ultima parola da dire, ma qualche parola pensiamo che vada spesa.
Abbiamo letto che papa Francesco è stato la stella polare del movimento per la pace. Forse perché questo movimento nei fatti non c’è e in pochi hanno il coraggio di ammetterlo, ma diversi hanno il coraggio di pensare che le alleanze strategiche che non riusciamo a fare tra movimenti e tra soggetti di lotta le potremmo fare dietro le parole d’ordine di un certo cattolicesimo. Si sa che la religione, complici certi discorsi decoloniali, è tornata di moda. C’è persino chi disturba Marx per dire che essa è il sospiro della creatura oppressa e invece l’ateismo è l’oppio dei militanti. Non a caso anche gli illuminati fondamentalisti di Hamas e Hezbollah hanno mandato le loro condoglianze sentite all’uomo del Vaticano che ha difeso pubblicamente i e le palestinesi a Gaza. Si potrebbe obiettare che questa pratica del dialogo interreligioso non arriva a toccare le migliaia di donne palestinesi, iraniane, curde e siriane che ogni giorni devono fare i conti con la violenza religiosa di questi gruppi. Vige però una sorta di orientalismo rovesciato che impone di non criticare ciò che avviene tra gli “ultimi della terra”, per cui questi “effetti collaterali” non possono impedire la riscoperta della rilevanza universale della religione. Così, ancora una volta l’oppressione delle donne viene ridotta a una contraddizione secondaria – persino dalle femministe, alle quali pare sfuggire che il pacifismo del papa riposa non solo sulla fratellanza e la riconciliazione fra i popoli, ma anche sulla stessa sacralità della vita che ha sostenuto il suo antiabortismo –, mentre viene riproposto come una novità quello che Togliatti aveva predicato e praticato con successo alcuni decenni fa. La versione aggiornata dell’incontro con le masse cattoliche va persino oltre quella togliattiana: seguendo uno schema ormai consolidato, i compagni nostrani si sono affrettati a identificare il nemico del nemico come loro amico, arruolando il papa nell’asse della resistenza.
Affinità e convergenze tra il compagno papa e noi, si potrebbe dire. Si sa però che, per affermare le affinità, qualcosa deve essere necessariamente e tatticamente taciuto. Francesco non si è stancato di predicare la pace, ha dichiarato l’immoralità della povertà e del trattamento dei carcerati, ha chiesto il rispetto della vita di migranti e rifugiati. Tutto questo non si può negare. Poi ha continuato imperterrito a definire l’aborto come un assassinio. Ha combattuto la corruzione nella chiesa, ma ha salvato dalla galera per violenza sessuale il vescovo argentino Gustavo Oscar Zanchetta, nominandolo assessore dell’Amministrazione della sede Apostolica. Si potrebbero fare altri nomi e ricordare altre violenze, ma il problema per noi non è quello che ha fatto o non fatto Francesco. Francesco ha fatto il papa di Santa Romana Chiesa, che da secoli è in grado di tenere insieme le contraddizioni più stridenti. Il problema è l’assunzione della sua rassicurante figura come simulacro che nasconde quello che non riusciamo a fare noi. Un movimento che passa dalla nostalgia degli anni Settanta all’elogio dell’avanguardismo del papa ha problemi seri. Che per pensare la nostra lotta accanto alle e ai migranti, o il rifiuto della guerra e del genocidio, ci servano le parole del papa dimostra che la guerra è già qui e produce i suoi effetti devastanti lasciandoci senza parole e senza capacità di azione. Altro che “ora e sempre resistenza”. Il problema non è il papa, ma questo laicismo che trova nell’attivismo di un papa la forma rovesciata della propria impotenza. E si autoassolve.
Che papa Francesco riposi in pace. Si è meritato il suo riposo. Noi dovremmo andare oltre la condanna morale, oltre la speranza, oltre il mero rispetto, oltre il pacifismo e praticare politiche di pace, connettere politicamente donne e uomini, proletari, lavoratori, migranti. Dovremmo mostrare che ci sono divisioni insanabili, per le quali non basta il laico rispetto dei rispettivi campi d’azione. Il problema è che cosa abbiamo da dire noi anche a chi oggi vuole farla finita con la politica del sacrificio e della rassegnazione a un presente senza alternative in terra, e lottare insieme per cambiare le condizioni materiali di questa miseria.