lunedì , 29 Aprile 2024

Con chi sta il popolo palestinese? Una politica di pace per non soccombere alla guerra

Con chi sta il popolo palestinese? È dal 7 ottobre che ognuno risponde con la sua verità. Sta con Hamas o contro Hamas, sta con la violenza o contro la violenza, vuole uno Stato, due Stati o nessuno Stato, vuole cancellare Israele o lo vuole riportare ai suoi antichi confini, vuole la vendetta o la pace? E mentre le verità vengono snocciolate, si distingue tra palestinesi buoni e palestinesi cattivi, tra terroristi sanguinari e arabi dal cuore d’oro, oppure si scomoda, senza poterlo interpellare, Fanon e la necessaria violenza del colonizzato, destinato, secondo alcuni, a ripetere la violenza del colonizzatore, perché in fin dei conti del colonizzatore non potrà liberarsi mai, nemmeno quando spezza le catene davanti ai suoi occhi increduli.

Non crediamo alle distinzioni che sedano le coscienze dei falsi amici dell’umanità, ma neanche al determinismo sui colonizzati. Non aggiungeremo però verità a verità, ché di verità in giro ce n’è pure troppa. Vogliamo lasciarci rodere dal dubbio che non ci sia un popolo palestinese per come ci viene raccontato. Che non ci sia cioè un popolo palestinese che si lascia arruolare nei nostri schemi e nei nostri binarismi. Nel crescente movimento di palestinesi che da giorni sta lasciando Gaza City per andare verso Sud non c’è quel popolo palestinese idealizzato da chi problematicamente strizza l’occhio all’autodeterminazione dei popoli e alla nazione in armi – come se il nazionalismo di sinistra fosse poi così migliore di quello di destra. Ci sono menti, gambe, braccia, cuori, sangue, ferite, uomini e donne in carne e ossa, che fuggono dalle bombe caricate a democrazia, sangue, fango e Occidente dallo Stato di Israele. Bombe sganciate per liberare terra e spazio a un altro popolo, che pure si vuole presentare come bellicosamente compatto, ma che è in realtà ben più diviso e in alcune sue parti sta denunciando l’orrore che si ripete e che non deve ripetersi. È lo stesso orrore che centinaia di migliaia di persone stanno denunciando nelle piazze di tutto il mondo, dove risuona più forte la voce di arabi, neri e latinos contro una violenza e un’apartheid che non sono un’esclusiva dello Stato di Israele. Ed è sempre lo stesso orrore che donne e uomini ebrei in tutto il mondo rifiutano che sia commesso in loro nome. Nel movimento verso Sud di donne e uomini palestinesi ci sono allora i bisogni, le speranze, i desideri che la guerra nega e deve negare per continuare a essere una logica di sangue e di oppressione. Quella stessa guerra che ha lasciato sotto le macerie i bisogni, le speranze e i desideri di troppi dei loro familiari, amici e compagni a cui mancherà pure la compagnia delle lacrime. Questa è la guerra. È morte, è solitudine, è assenza.

La guerra non è democrazia ma non è neanche liberazione. La lotta è, semmai, liberazione. E allora non c’è resa nella bandiera bianca che con coraggio uomini e donne palestinesi portano per esorcizzare le bombe israeliane che sulla loro strada continuano a cadere, così come non c’era resa tra le donne e gli uomini ucraini che fuggivano dalle bombe russe. C’è una lotta per non soccombere alla guerra. C’è la volontà di sottrarsi al comando al martirio che viene dai dirigenti di Hamas, senza per questo compiacere chi a Tel Aviv sta accarezzando nuove ambizioni coloniali sulla striscia di Gaza. Ci sono affetti, ci sono case, ci sono ricordi, ci sono storie lasciati oggi alle spalle certo non per scelta, ma perché la guerra lo impone. Negli sguardi di chi sta lasciando Gaza City c’è desolazione e c’è rabbia. C’è però anche la scelta di non lasciare alla guerra e alla sua logica ciò che rimane della propria libertà sotto le bombe. Di non lasciarsi cioè sequestrare quella libertà con cui lottare per riprendersi la propria vita tenuta oggi sotto scacco dalla guerra.  

Questa non è, non può e non deve essere una nuova Nakba. Questo non è l’esito di una guerra che si è scelto di combattere e si è persa. Questo è un movimento di donne e uomini contro quello che la guerra è: una logica che cade brutalmente sulle loro teste, perché perdano di vista chi è il nemico e lo scambino con il o la migrante, l’operaio, il precario che sta dall’altra parte di un confine che non esiste. Quel rifiuto vale più di tutti i nostri appelli e di tutte le nostre verità. Quel rifiuto occorre riconoscere nella nostra opposizione alla guerra, quel rifiuto occorre sostenere per costruire una nostra politica di pace. Il rifiuto di chi, su entrambi i lati del fronte, non vuole soccombere alla guerra e alla sua logica, di chi non vuole arruolarsi, di chi si muove per cercare libertà, forzando confini, sfidando eserciti, leggi e governi, di chi è costretto a fuggire, ad abbandonare la sua casa, di chi sceglie di vivere anche dove questa scelta rimane l’unica possibile e anche per questo odia la guerra. Il cessate il fuoco è ciò che va chiesto ora e subito. Tuttavia resta inevasa la questione di come sostenerli in questa lotta, come fare nostro il loro rifiuto ci pare essere la questione iniziale, ma fondamentale per una politica di pace da questa parte del mondo. Una politica di movimento ancora più necessaria mentre si progettano lager extraterritoriali per rinchiudere la libertà di chi si muove contro le guerre, contro lo sfruttamento, contro l’oppressione. Dalla parte degli oppressi contro gli oppressori: qui sta ferma la loro e nostra bandiera bianca contro la guerra.

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