di OVID POP e VALENTIN CERNAT (Alternator, Romania) da Transnational Social Strike Platform
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Pubblichiamo questo articolo di Valentin e Ovid, membri del collettivo rumeno Alternator. Con questo contributo, che anticipa di poco la pubblicazione del secondo numero del giornale Climate Class Conflict (qui il primo), gli autori mettono in luce i processi di privatizzazione ed espropriazione attualmente promossi in Romania sotto l’egida della transizione verde. L’articolo fornisce, inoltre, una nitida immagine di come le politiche di guerra occidentali siano racchiuse nel rafforzamento delle politiche verdi e dei processi di riforma neoliberale del mercato.
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È passato più di un anno dall’imposizione delle sanzioni alla Russia, in seguito all’escalation del conflitto in Ucraina. Ricordiamo che tutto è cominciato con la festante intenzione, per conto dell’amministrazione americana, di “mandare il rublo a rotoli” [turn the ruble into rubble]. Adesso la popolazione europea è verosimilmente più che mai vulnerabile alle fluttuazioni del mercato, essendo stata esposta, nel 2022, a uno storico tasso di inflazione del 9,2% (più del triplo del valore annuo del 2021): l’aumento dei prezzi dell’energia, l’insicurezza alimentare e il calo generale degli standard di vita. Siamo testimoni di un interessante fenomeno, unico nella storia centenaria delle sanzioni economiche, in cui i paesi che impongono l’embargo soffrono gli effetti di un duro contraccolpo. Questo è vero, almeno per quanto riguarda l’Europa. In questo contesto, il mercato europeo viene inondato da denaro che gli stati membri ricevono sotto forma di sovvenzioni e prestiti, con lo scopo (citando la piattaforma web della Commissione Europea) di “ripristinare la nostra natura” assicurando “trasporti ed energia puliti” e promuovendo, tra l’altro, nuove tecnologie e la digitalizzazione. Si tratta del Piano di Ripresa e Resilienza. 723,8 miliardi di euro verranno pompati nell’anziano corpo dell’industria tecnologica europea entro il 2026, di modo da garantire questa “transizione verde”. In altre parole, gli affari fioriscono mentre le persone soffrono nell’angoscia.
Le sanzioni statunitensi, sostenute dall’Unione Europea, hanno avuto come conseguenza la riduzione delle forniture di materie prime e altri prodotti russi. Le carenze di gas e petrolio sono certamente gli esempi più noti e di rilevanza maggiore, ma l’embargo ha influenzato anche le importazioni di cereali, minerali, ferro e così via. Le sanzioni hanno generato un’onda d’urto che si è propagata nelle catene di rifornimenti, creando nuovi intermediari e fornitori di idrocarburi, una nuova infrastruttura per il trasporto e lo stoccaggio che ha aggravato la dipendenza economica dell’Europa dalle imprese americane. Dal sabotaggio del Nord Stream 2 (in tutta probabilità condotto o avallato dagli Stati Uniti[1]), le catene logistiche delle due economie stanno diventando sempre più intrecciate. In effetti, questo fenomeno, reiterato e approfondito, ha avuto inizio durante la pandemia di Covid, con la disgregazione delle catene di approvvigionamento. Il riassetto del settore energetico in Europa, una conseguenza della guerra e delle sanzioni, procede di pari passo con il piano di rinnovare il settore tecnologico e sbarazzarsi dell’industria fossile.
Sorge dunque una domanda: le sanzioni sarebbero state comunque implementate senza lo stanziamento dei Fondi Europei di Ripresa e Resilienza (ERRF), il piano che è stato lanciato solo pochi mesi prima dello scoppio della guerra? Oppure, da un altro punto di vista: gli investimenti nella transizione verde sarebbero stati sostenibili per le grandi aziende, senza che fosse limitata in qualche modo l’offerta? Guardando alle dichiarazioni entusiastiche rilasciate dagli investitori privati che accolgono sia l’ERRF sia le sanzioni con un fervore pressoché religioso, saremmo spinti a rispondere che no, non sarebbero stati sostenibili. C’è una posta in gioco. Il business aziendale è entusiasta perché trova nella guerra una buona opportunità per elevare la sua base industriale a un nuovo stadio, uno che suppone di essere più rispettoso dell’ambiente, ma la vera scommessa – e questo è cruciale – è di aumentare la competitività sul mercato globale. Le aziende europee hanno bisogno di conservare quel vantaggio tecnologico, fintanto che lo ritengono nella competizione con USA e Cina, e al contempo mantenere il controllo del processo politico. L’ERRF risponde a questa precisa esigenza: un’impalcatura legale e finanziaria assicura che il potere rimanga concentrato nelle mani della troika e del capitale finanziario. L’indipendenza verde non è nient’altro che questo: la volontà di pagare con denaro pubblico l’innovazione tecnologica di cui la grande industria ha bisogno. Questo New Deal non cambia la matrice dello stato neoliberale: denaro pubblico per lo sfruttamento privato delle imprese. E ciò prescinde dalle tensioni interne in cui sono regolarmente coinvolti i capitalisti europei, quando i loro interessi specifici collidono; il loro assetto politico deve rimanere al suo posto, mantenendo lo status quo.
Nel frattempo, la moneta perde potere d’acquisto a causa dell’inflazione, il che significa più lavoro spremuto dai lavoratori e alle lavoratrici in tutta Europa, per la stessa quantità di prodotti che essi consumano. Non c’è da meravigliarsi se l’angoscia e la rabbia popolare ribollono. Proteste, scioperi e sit-in sono scoppiati nella maggior parte dei paesi occidentali, dal Regno Unito alla Spagna, dalla Francia alla Germania e alla Repubblica Ceca, solo per nominare i più rilevanti. In seguito a un tragico incidente ferroviario avvenuto in Grecia, proteste che accusano lo stato di privatizzazioni criminali vengono organizzate settimanalmente.
Il 41% del Piano di Ripresa e Resilienza Europeo (ERRP) destinato alla Romania è stato allocato per garantire la transizione verde. Gran parte del denaro, €3.9 miliardi, è stato dedicato alla modernizzazione delle ferrovie. Somme minori sono state destinate per la mobilità urbana (infrastruttura per veicoli elettrici), €1.8 miliardi, ed efficientamento energetico degli edifici (settore delle costruzioni), €2.7 miliardi. Tuttavia, sono state allocate solo somme minori per porre rimedio ai danni causati dal capitalismo commerciale degli ultimi 32 anni: la produzione di energia pulita, €0.8 miliardi, e la protezione ambientale e della biodiversità, €1.1 miliardi.
Se qualcuno fosse ancora convinto delle buone intenzioni della classe imprenditrice europea, diamo uno sguardo all’infrastruttura ferroviaria in Romania. Nel 1989, l’anno prima della caduta dei regimi socialisti, circa l’82% del prodotto nazionale veniva trasportato su rotaia — 69.000 milioni di tonnellate km. Oggi la percentuale è quasi del 20%, sempre significativamente più alto del timido 8% della media UE. Le vicine repubbliche socialiste — Polonia, Ungheria, Bulgaria — mostrano, in proporzione, simili tendenze e prestazioni. Ad ogni modo, quella su ferro è la forma di trasporto più verde che esista dato che comporta un impatto ambientale molto basso e i commissari dell’UE ne sono ben coscienti. Di fatto, l’UE si è recentemente impegnata a portare la percentuale di merci trasportate su rotaia sino al 35% entro il 2035 e a dimezzare il trasporto su strada entro il 2050. Tutto molto bello. Ma il business aziendale ha dovuto prima distruggere la logistica socialista e nei primi due decenni, tra il 1990 e il 2010, la sua preoccupazione principale era solo quella di smantellare l’infrastruttura ferroviaria, in quanto inefficiente, tecnologicamente obsoleta, ecc. In un raptus di accumulazione primitiva, tutto ciò che era disponibile per la privatizzazione — vagoni ferroviari, magazzini, strutture di manutenzione ecc. — è stato privatizzato, svenduto, svalutato, concentrato nelle tasche di un manipolo di proprietari privati. Come risultato collaterale, i lavoratori sono stati licenziati e il sindacato più forte del Paese, quello dei ferrovieri, ben organizzato e con decine di migliaia di iscritti, se non di più, è stato frammentato in unità più piccole e poi sciolto. Parallelamente, l’infrastruttura stradale è stata estesa e adattata al sistema intermodale di trasporto che collega navi container e transatlantici a camion sulle autostrade. In poco più di dieci anni, la cosiddetta rivoluzione logistica (inaugurata negli Stati Uniti negli anni ’60) ha stravolto le infrastrutture rumene. Nel 2010, quasi il 70% del prodotto nazionale era trasportato su strada. Quindi, ancor prima di iniziare a discutere della prospettiva di transizione verde, le imprese dovevano assicurarsi che le modalità di circolazione del capitale corrispondessero ai loro interessi — la massimizzazione del profitto. E che la proprietà fosse strappata dalle mani dello Stato. Inoltre, occorreva disperdere il pericolo politico che le grandi infrastrutture comportano, come nel caso delle infrastrutture ferroviarie socialiste, nonostante il loro vantaggio ambientale. In altre parole, c’è sempre qualcosa per il presente sepolto sotto le macerie “comuniste” dell’Europa orientale.
Tornando al Piano Europeo di Ripresa e Resilienza, rivolgiamo la nostra attenzione alle spese stanziate e utilizzate per le infrastrutture di trasporto. Qui notiamo che importanti somme del totale allocato per la transizione verde sono destinate alla costruzione di autostrade e raccordi stradali, l’ammodernamento delle ferrovie, così come investimenti in centri di logistica e infrastrutture all’interno e nelle vicinanze del porto di Costanza, sul Mar Nero. Gli scopi e gli usi di questi investimenti sono molteplici. In primo luogo, notiamo che i fondi allocati dall’ERRP portano avanti e sviluppano ulteriormente un vecchio piano attraverso il quale vengono costruite, riabilitate e ampliate le infrastrutture di trasporto che ora collegano la costa del Mar Nero nella Romania orientale con la rete logistica dell’Europa occidentale, la cosiddetta TEN-T, Network di Trasporto Trans-Europeo. Lo stesso sta avvenendo con la modernizzazione del sistema di trasporto ferroviario. Una volta assorbita nell’orbita neoliberale, la ferrovia è infine matura per gli investimenti. Ora che gli investitori sono certi della loro parte del leone, la rete è pronta per entrare nella fase di transizione verde, rivestita di questo nuovo abito da sposa. In quale momento potrebbe essere più saggio usare questi fondi europei se non ora, quando servono sia la militarizzazione (ovvero gli interessi del complesso militare-industriale americano) sia le élites aziendali occidentali?!
Tutti questi investimenti contengono elementi “ecologici” che possono essere visti per ciò che realmente sono: il rinnovo di sistemi tecnologicamente obsoleti, il ricambio del parco automobili con vetture elettriche tedesche, lampadine led e pannelli fotovoltaici in centri logistici, stazioni di ricarica per le auto elettriche, l’automazione a basso consumo nel trasporto merci, tecnologie conformi ai più recenti standard europei, ecc. Nella loro concretezza fisica possiamo vedere il futuro del capitalismo materializzarsi. Ma le stesse innovazioni tecnologiche oscurano lo scopo economico-politico della transizione verde, che rimane nascosto all’occhio nudo. Gli stati sono messi a servizio del capitale, l’economia viene gradualmente militarizzata, i monopoli commerciali si consolidano attraverso questo processo di ri-tecnologizzazione e tutto questo è nascosto dietro il vetro opaco delle misure ecologiche. Gli effetti di questa trasformazione sono percepiti dalla popolazione europea nel sempre crescente costo della vita, che dimostra soltanto come la guerra di classe sia oggi combattuta attraverso strumenti finanziari e di mercato. Trasformazione verde… Ciò che ci serve è una rivoluzione verde. Una metamorfosi radicale del principio politico, cui farà seguito la tecnologia. La rivoluzione è il principio sostenibile per il pianeta, non la transizione. Del resto, i popoli dell’Europa orientale hanno un vivido ricordo della parola transizione, che in ogni orecchio evoca il più selvaggio saccheggio della ricchezza collettiva e l’impoverimento della popolazione. Per i primi vent’anni dopo il 1989, “transizione” è stata la parola che ha soffocato la nostra vita pubblica, lasciando dietro di sé un deserto su cui è sorto l’attuale sistema di classi. Ora che i salari reali in Europa si stanno riducendo e la proprietà collettiva dello sviluppo tecnologico è sotto attacco, si parla di nuovo di transizione. Questo dovrebbe metterci in allarme.
[1] Sebbene le investigazioni europee ufficiali abbiano concluso che si tratti solo di sabotaggio, il resoconto fornito dal giornalista Seymor Hersh è, almeno per adesso, la più dettagliata analisi degli eventi che hanno portato alla distruzione del Nord Stream 2.