mercoledì , 24 Aprile 2024

Che cosa significa transizione ecologica?

di CLIMATE CLASS CONFLICT ITALY

Pubblichiamo la traduzione del contributo di Climate Class Conflict – Italy (CCC-IT) comparso sul giornale del percorso transnazionale Climate Class Conflict promosso dalla piattaforma Transnational Social Strike, che sarà presto disponibile integralmente in italiano. Il giornale, che raccoglie i contributi di compagni e compagne provenienti da Germania, Regno Unito, Francia, Svezia, Bulgaria e Italia, è un primo risultato di una discussione collettiva aperta lo scorso settembre a Sofia durante il meeting transnazionale organizzato dal TSS. Il testo che qui ripubblichiamo evidenzia gli effetti che la guerra in Ucraina sta avendo sui piani di transizione ecologica dei governi europei, legittimando discorsi come quelli promossi dal governo Meloni in Italia che, facendo della transizione verde un discorso di sicurezza nazionale, continuano a subordinare gli interessi di precari e precarie, lavoratrici e lavoratori, donne e migranti alla sicurezza della produzione e del profitto. Un’iniziativa politica dentro e contro la transizione verde come accumulazione del capitale non può quindi essere un compito lasciato agli specialisti del clima, né a lotte territoriali scollegate fra loro. È piuttosto il compito di un movimento sociale transnazionale che indaghi la relazione costitutiva delle politiche climatiche con la guerra in Ucraina che le sta ridefinendo radicalmente e con le altre lotte, cogliendo le connessioni esistenti per renderle esplicite. Per questo saremo a Francoforte, in Germania, dal 10 al 12 febbraio 2023, per il meeting transnazionale organizzato dal TSS insieme a Interventionistische Linke.

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Che cosa significa oggi ‘transizione ecologica’? Non sappiamo dare una risposta secca, ma ci pare che la guerra in Ucraina con i suoi effetti mondiali abbia complicato le risposte a questa domanda, e con esse anche la possibilità di fare della transizione ecologica un campo di battaglia cui guardiamo dall’Italia, ma che pensiamo vada praticato su scala transnazionale. La transizione ecologica è infatti oggi al centro di un conflitto climatico e di classe tra i movimenti ecologisti, che negli ultimi anni hanno rivendicato con forza una ‘transizione giusta’ che imponga un cambiamento di sistema, e le politiche ‘green’ dei governi impegnati ad assicurare un futuro di profitti e disuguaglianze piuttosto che ad arrestare il cambiamento climatico. Come rendono evidente le mobilitazioni degli ultimi anni e le politiche di accumulazione ecologica, nessun sistema che devasti l’ambiente e preservi ingiustizie e disuguaglianze potrà essere rovesciato senza la forza di un movimento transnazionale che guardi a come la transizione ecologica influenza i piani industriali e l’organizzazione del lavoro di milioni di uomini e donne in tutta Europa.

In Italia abbiamo avuto per quasi due anni un ministro ‘per la transizione ecologica’ che a forza di ‘piani per la transizione energetica sicura’, appelli per il ritorno al nucleare, sblocco delle trivellazioni e incentivi alle imprese edili per l’efficientamento energetico ci ha spiegato molto bene che cosa significasse per lui ‘transizione’: recepire le normative europee sulla transizione green e digitale per permettere alla produzione italiana di adattarsi alle trasformazioni del mercato globale, mettendo in salvo il capitale.

Oggi quel ministero non esiste più, sostituito da quello per la ‘salvaguardia dell’ambiente e della sicurezza energetica’. Per il nuovo governo conservatore l’ecologia è innanzitutto un problema di “ambiente” che deve essere “protetto” e “conservato”, e la questione dell’energia è solo un problema nei termini di “sicurezza” della nazione. Al di sotto di questa dimensione ideologica, però, si possono rintracciare alcune continuità materiali coerenti con la nuova fase del conflitto dentro la transizione ecologica aperto dalla guerra in Ucraina. Nel dicembre del 2021 la commissione europea a guida von der Leyen aveva varato la propria tassonomia verde includendo il gas tra le fonti di energia strategiche per la transizione alle rinnovabili. Tuttavia, oggi la militarizzazione di quella risorsa ha reso gli approvvigionamenti più insicuri e il bisogno di proteggere il mercato europeo dalla speculazione della finanza e delle grandi compagnie più urgente che mai. Le politiche di guerra hanno subordinato i tempi lunghi della transizione verso le fonti rinnovabili all’urgenza di fare i conti con una crisi di riproduzione sociale che le politiche ambientali ed energetiche degli ultimi anni hanno contribuito a produrre, mentre in nome della guerra esse vengono ora ulteriormente legittimate. In altre parole, la guerra sta imponendo la sua ecologia, fatta dall’insostenibile violenza delle armi, da inflazione e caro bollette che rubano salario, da militarismo e nazionalismo che consolidano gerarchie razziste e sessiste. Una parte di questa ecologia passa dalla legittimazione di investimenti il cui colore grigio e nero si fa strada dietro l’erosa patina di verde che fatica ad attecchire sopra trivelle, rigassificatori, o allargamenti di snodi logistici strategici. Non che prima della guerra la transizione verde promettesse un futuro libero da ricatti inquinanti, o dall’intensificazione dello sfruttamento che si nasconde al loro interno. Semplicemente, la guerra e le politiche con cui gli Stati e l’UE continuano a farvi fronte mostrano ogni giorno di più sia che nessun accordo tra governi ci restituirà il clima che essi hanno alterato, sia che la crisi prodotta dal mutamento climatico attraversa ambienti tra loro non omogenei.

‘Sicurezza’ è oggi il cappello ideologico e materiale sotto cui si muove la transizione energetica e verde dei governi e in quanto tale coincide con il tentativo di allineare gli interessi di milioni di uomini e donne, migranti, lavoratori e lavoratrici a quelli degli Stati. Questa trappola deve essere disattivata a ogni costo. Le retoriche nazionaliste con cui il governo Meloni ha cominciato la caccia ai «fanatici» ecologisti – rei di patire troppo, secondo il presidente, i naturali turbamenti della loro tenera età – devono perciò essere letti in continuità con il monito lanciato la scorsa estate dall’allora presidente del consiglio Mario Draghi, per il quale il risparmio energetico perorava a un tempo la causa del clima e della pace. Mentre prima per Draghi, e anche per altri in Europa, la transizione energetica dentro la guerra doveva comunque passare per investimenti in energie rinnovabili e diminuzione dei consumi, adesso in nome della “sicurezza energetica” qualsiasi fonte di approvvigionamento può andare bene. Questi appelli alimentano insostenibili alternative: tra pace e riduzione dell’inquinamento, tra sicurezza nazionale e abbandono dei combustibili fossili, tra “democrazia liberale occidentale” e “autoritarismo orientale”, tra lotta contro il cambiamento climatico e abbassamento dei costi delle bollette.

La guerra impone insomma la propria ecologia non solo perché influenza materialmente ogni campo di intervento della nostra iniziativa politica, ma anche perché essa è utilizzata come opportunità per sdoganare come ‘ecologiche’ cose che altrimenti difficilmente avrebbero potuto esserlo. Durante la guerra, ogni tipo di sicurezza è sempre subordinata alla sicurezza della produzione. In tempi di guerra e ‘insicurezza’ energetica, persino le trivellazioni – che peraltro non sono sufficienti a garantire una frazione rilevante del fabbisogno energetico italiano – possono essere fatte passare sotto le insegne della transizione ecologica. Allo stesso modo, investimenti nelle grandi infrastrutture – come l’allargamento di un’autostrada a Bologna o la costruzione di un rigassificatore a Piombino o a Ravenna – sono da tempo definiti come «simboli» della transizione verso nuove forme di consumo del suolo dietro cui si celano vecchie forme di sfruttamento del lavoro e di inquinamento. Eppure, anche la nuova configurazione logistica del mercato unico europeo in cui si inseriscono le grandi opere infrastrutturali, promosse in Italia e non solo, risente della nuova fase politica aperta dalla guerra. La centralità della logistica per la transizione ecologica mostra la necessità di un movimento transnazionale capace di contrastarla.

Per questo pensiamo che sia fondamentale collegare i diversi soggetti che lottano per non pagare il prezzo della guerra, delle grandi opere inquinanti, delle trivellazioni, così come dell’intensificazione dello sfruttamento e delle disuguaglianze sessiste e razziste che queste si portano dietro. A Piombino, in Toscana, ci sono state mobilitazioni contro il rigassificatore galleggiante considerato parte del piano per la “sicurezza energetica” italiana e a Bologna il 22 ottobre in migliaia sono scesi in piazza per portare avanti una lotta per la giustizia climatica che sia legata alle lotte sociali contro patriarcato, razzismo e sfruttamento. Dobbiamo imparare da queste esperienze così che le lotte che sapremo costruire non si limiteranno a ‘difendere’ un territorio, ma sappiano costruire connessioni con le condizioni sociali complessive che si nascondono dietro infrastrutture e progetti locali, il cui carattere politico è determinato a livello transnazionale.

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