venerdì , 11 Ottobre 2024

Chi dice donna? Perché la dice? Dove la dice?

«Why can’t we say woman anymore?» (Perché non possiamo più dire donna?) è il titolo di un articolo di Rosie DiManno condiviso su Twitter da Margaret Atwood qualche giorno fa. La condivisione dell’articolo, pubblicato sul quotidiano canadese «Toronto Star» (#1 e #2), ha suscitato aspre reazioni che allineano Atwood a J.K. Rowling tra le fila del femminismo radicale transescludente. L’articolo in questione lamenta la scomparsa del termine «donna» dal linguaggio usato dalle istituzioni per parlare di diritti riproduttivi, e segnala il rischio che esso scompaia anche dalle conversazioni comuni. DiManno si dichiara favorevole alle battaglie per il riconoscimento e la visibilità condotte dai movimenti Lgbtq+, ma considera l’eclissi del termine donna una conquista pericolosa, perché oscurerebbe una realtà nella quale sono per la maggior parte donne coloro che rimangono incinte e devono abortire. DiManno osserva anche che non si registra un’analoga attenzione, nel linguaggio istituzionale, alla decostruzione inclusiva dei termini maschili: la celebre rivista medica «Lancet» – in un suo recente articolo che ha destato scalpore ‒ ha parlato di «persone con vagina», ma ben di rado si legge di «persone con pene». L’intento polemico dell’articolo di DiManno è esplicito, il piglio è sarcastico – comincia parodiando l’ipotetica scomparsa del termine «donna» dal testo di canzoni iconiche come A Natural Woman ‒ l’uso della statistica discutibile: che vi sia un numero esiguo di trans o queer che si trovano a dover abortire sembra essere per lei un motivo sufficiente a ignorare la discriminazione che possono incontrare quando questo accade. L’episodio, evidentemente, non è interessante per stabilire se Atwood possa essere considerata davvero una femminista transescludente, ma per i problemi che pone ai movimenti femministi e transfemministi che negli ultimi anni, in ogni parte del mondo, hanno usato l’estetica del Racconto dell’Ancella per contestare le istituzioni e la violenza patriarcali.

Di questi movimenti sono state protagoniste le donne, che non hanno lottato per affermare un’identità femminile fondata sull’anatomia, ma per contestare la posizione sociale, la sessualità subalterna, i ruoli e i comportamenti che il dominio maschile pretende di imporre loro in virtù del loro sesso. Di questi movimenti sono state protagoniste anche lesbiche, trans e queer che hanno fatto del genere un campo di battaglia reclamando e praticando la possibilità di vivere la propria sessualità e la propria vita senza dover sottostare all’ingiunzione patriarcale che stabilisce quali sono le posizioni, i desideri, i ruoli e i comportamenti legittimi per ciascun sesso. Dentro a questi movimenti il significato di «donna» è stato continuamente conteso dalle donne che si sono sollevate in massa contro la violenza maschile avanzando la pretesa di definire se stesse contro il comando patriarcale. Dentro a questi movimenti quel comando è stato contemporaneamente sfidato dalla moltitudine di soggetti che fanno del genere un quotidiano terreno di lotta per affermare una pretesa di libertà.

Dalla realtà di questi movimenti dovrebbe partire ogni disputa sul linguaggio, che non è mai soltanto una questione di correttezza politica o di evoluzioni lessicali, ma riguarda la produzione di un discorso femminista e transfemminista capace di nominare, estendere e amplificare un antagonismo praticato da soggetti che non saranno mai riducibili a un’identità, e neppure possono dissolversi nella moltiplicazione delle identità. Come suggeriscono alcune delle voci intervenute per criticare la condivisione dell’articolo da parte di Atwood, parlare di «persone gestanti» o di «individui con utero e ovaie» è tanto la registrazione di una realtà di fatto – possono rimanere incinte oppure avere un cancro all’utero anche queer che non si riconoscono come ‘donne’ ‒ quanto la condizione di possibilità per accedere a un diritto o a un servizio – l’aborto o cure mediche adeguate – senza subire discriminazioni. Tutto questo non può essere ignorato, come sanno benissimo le donne che per decenni hanno combattuto e tutt’ora combattono per vedersi riconosciuto il diritto di abortire e non essere costrette a farlo clandestinamente. Se però c’è un problema, in questa pratica inclusiva del linguaggio, è che inavvertitamente riafferma una sorprendente centralità del corpo come fatto biologico privo di significato sociale, mentre ripropone il lessico patriarcale centrato sulla «persona», un universale fittizio spogliato di ogni determinazione di sesso, genere, razza e classe che oscura anziché rendere visibili i rapporti sociali di dominio. Può un discorso femminista e transfemminista rinunciare a parlare di donne quando vi sono soggetti che, invocando singolarmente e collettivamente questo nome, lottano per non essere identificate socialmente con la funzione procreativa del proprio utero e con la posizione che questa dovrebbe imporre loro nella divisione sessuale del lavoro? Non è proprio la rottura di quell’identità che muove anche chi, riconoscendosi come trans oppure queer, rifiuta la definizione patriarcale del genere femminile basata sul possesso di un utero? Un movimento femminista e transfemminista non può formalizzare una volta per tutte l’uso legittimo delle parole senza chiudere gli spazi di politicizzazione che si danno attraverso la presa di parola dei soggetti che lo animano e senza oscurare le diverse condizioni materiali in cui quei soggetti vivono e lottano.

Non possiamo correre il rischio di replicare inavvertitamente il gesto sovrano delle femministe transescludenti, che pretendono di stabilire che cosa è donna a partire dal valore simbolico che esse attribuiscono a un’autenticità genitale certificata. Dire donna non ha mai significato nominare un soggetto omogeneo perché la classe, la linea del colore o il possesso di un permesso di soggiorno stabiliscono posizioni diverse nella società e altrettanto diverse possibilità di praticare la libertà sessuale, accedere all’aborto o sottrarsi alla violenza maschile e allo sfruttamento. Scioperando contro la violenza maschile le donne non si sono affermate come identità basata sul sesso, ma come una parte che contesta l’identità basata sul sesso e la subalternità imposte dal dominio maschile e dal suo ordine sociale. Allo stesso modo, è difficile pensare che l’acronimo in movimento Lgbtq+ possa definire un universale finalmente realizzato in virtù della sua pluralità, come se il genere e la sessualità fossero l’unica determinazione politicamente rilevante dell’esistenza individuale. Allora forse il problema non è l’inclusività del linguaggio – che finisce sempre per supporre l’esistenza di un’autorità che la garantisca, prima di tutto lo Stato – ma appunto la comunicazione politica e la capacità del discorso femminista e transfemminista di individuare la linea del conflitto lungo la quale produrre connessioni tra posizioni che non sono solo diverse, ma reclamano la propria differenza come momento politico di rottura. Praticare un discorso che non si limita a riconoscere le molteplici identità stabilendo tra di loro gerarchie del privilegio o dell’oppressione, ma indicare terreni possibili in cui le identità sono fratturate da una presa di posizione. Dopo tutto se non esiste Gilead – la distopia patriarcale immaginata da Atwood – è precisamente perché il dominio maschile è materialmente sfidato ogni giorno da chi rifiuta le posizioni sessuate e le identità di genere che esso pretende di imporre.

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