venerdì , 26 Luglio 2024

Ragazze ribelli che non si adeguano. Un’intervista a Rita Segato

di PAOLA RUDAN

Una versione abbreviata di questa intervista è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 5 luglio 2018.

L’intervista è stata realizzata lunedì 2 luglio a Bologna, durante la Summer School «The Human in Question», organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory, dove Rita Segato ha tenuto un corso intitolato Race Patriarchy in the Light of the Perspective of the Coloniality of Power e mercoledì 4 luglio, insieme a Paola Rudan, ha partecipato, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, a un Dialogue on Ni una Menos. Il 5 luglio, l’antropologa latinoamericana sarà presente – insieme a diverse attiviste provenienti da Argentina, Ecuador, Messico e Colombia, all’assemblea organizzata da Non una di meno Bologna e Ni una Menos Argentina su La struttura della violenza patriarcale. Razzismo, precarietà e giustizia femminista.

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Vorrei partire dalle immagini di un milione di voci che esultano di fronte al Congresso Argentino il 14 giugno, quando è stata data la media aprobación alla legge sull’aborto. La mobilitazione per l’aborto libero, sicuro e gratuito è cominciata molti anni fa, ma solo ora ha conquistato la forza necessaria a conseguire questo risultato storico, benché ancora parziale. Da che cosa dipende secondo te questo salto in avanti, pensi che abbia un rapporto con la lotta contro la violenza patriarcale che in America Latina, come in tutto il mondo, le donne hanno portato avanti con crescente intensità negli ultimi anni?

La mobilitazione per l’aborto va avanti da molti anni, ha coinvolto donne ‒ come Martha Rosenberg e Nelly Minyersky ‒ a cui bisogna rendere onore per avere portato avanti questa lotta così a lungo. Ci sono le socorristas, un gruppo molto importante di donne che aiutano altre donne a praticare l’aborto, un gruppo molto ben organizzato. È importante ricordarle in questo contesto. Queste donne, le mujeres soccorristas, non condividono l’idea di un «diritto» all’aborto, perché la loro pratica è la disobbedienza, ed è più complicata. All’interno del movimento ci sono state delle rotture e dei conflitti, proprio perché alcune non volevano una «concessione» da parte dello Stato, affermavano semplicemente di praticare l’aborto e così facendo esprimevano il loro sospetto verso lo Stato. Questo lo comprendo. Ma nella situazione presente le donne colgono ogni occasione per unirsi. La battaglia per l’approvazione dell’aborto alla Camera – e la legge deve ancora passare dal Senato – è stata un modo per unirsi e mostrarsi insieme di fronte allo Stato e alla società. L’aborto è una pratica importante, la proibizione e la criminalizzazione dell’aborto sono uno stupro di Stato, perché tu hai nel tuo corpo un pezzo di carne che non è tuo e che non vuoi, questo è stupro. Obbligarti a tenerlo è uno stupro di Stato. Questo è un argomento cruciale. Ma nel femminismo c’è stata una divaricazione in relazione all’importanza dello Stato e alla possibilità di esercitare la tua libertà senza il permesso dello Stato. È una questione complicata, ma adesso le donne sono tornate insieme e ogni occasione che riguarda loro e il loro corpo è un’occasione per mostrarsi insieme, perché sono già organizzate e questo è fondamentale. Quello che non deve essere dimenticato è anche che in Argentina negli ultimi trent’anni c’è stato un costante incontro tra le donne. Quando il 3 giugno del 2015 c’è stata la prima grande manifestazione, e poi con lo sciopero dell’8 marzo, le manifestazioni sono diventate moltitudinarie, ma questo è stato anche dovuto anche all’importanza crescente che per trent’anni hanno avuto questi incontri, senza partiti, senza associazioni, senza un’egemonia. È un movimento senza egemonia e questa è la storia veramente importante che confluisce oggi nelle manifestazioni delle donne. Ora è davvero visibile, ma non è del tutto nuovo.

Il dibattito e la divaricazione di cui parli hanno avuto luogo anche in Italia negli anni ‘70 a proposito della legge sull’aborto che è stata approvata nel 1978. Alcune femministe sostenevano di non volere una legge che lo regolasse, ma solo una liberalizzazione e depenalizzazione, perché vedevano lo Stato come parte del problema patriarcale. E in effetti la legge sull’aborto dichiara per esempio che la maternità è un «valore sociale», non una possibilità tra le altre per le donne, e in questo modo definisce un loro specifico ruolo. Ma questo movimento di massa che tiene insieme milioni di donne e non solo donne sta anche aprendo una breccia in un ordine come quello neoliberale, di cui il governo di Macri è espressione, che semplicemente rifiuta di accettare qualsiasi istanza collettiva proveniente dalla società, da donne, precari, migranti. Il fatto che un movimento sociale ottenga qualcosa forse è già di per sé importante, un cambiamento rispetto alla percezione di una completa assenza di ogni possibilità di cambiamento.

La cosa importante è il processo che porta le donne a unirsi, a stare insieme, e in questo la legge sull’aborto è un’opportunità di diventare visibili a se stesse, di far crescere una pratica che stabilisce dei vincoli. C’è la produzione di una cultura che riguarda il modo di fare le cose, che nasce dalla pratica dello stare insieme nei luoghi pubblici. Il processo è la dimensione più importante di quello che sta succedendo, forse anche più importante del risultato. Si dà vita a un modo di stare insieme, un modo di costruire una vita insieme. In questo senso penso che il processo sia la cosa più importante. Le manifestazioni delle donne sono completamente diverse da quelle degli uomini, dei sindacati, dalle manifestazioni politiche intese in senso convenzionale. Non appaiono allo stesso modo, non sono sentite nello stesso modo, non funzionano nello stesso modo, c’è un diverso modo di apparire e di fare, una diversa atmosfera delle donne che marciano insieme. Il risultato è importante, ma bisogna focalizzarsi sul processo.

Ho ascoltato il dibattito parlamentare prima del voto sulla legge…

Vergognoso per molti versi…

Sì, davvero. Quello che ho notato è che ci sono stati anche rappresentanti dei partiti di sinistra che si opponevano all’aborto. Per esempio i peronisti che dicevano che siccome la povertà impedisce a molte donne di avere figli, bisogna opporsi all’aborto e rivendicare la maternità contro la povertà, e questa posizione è stata sostenuta anche da molti curas de villeros, ma allo stesso tempo persino i conservatori dovevano ammettere che quello che stava succedendo per strada, un milione di persone, Ni una menos, lo sciopero delle donne, tutto questo non poteva essere ignorato. La cosa che mi pare importante, per chiarire quanto dicevo prima, è la percezione che si sia accumulata una forza tale da poter pensare di cambiare le cose, una forza che non può essere ignorata in un’epoca in cui sembra che niente possa essere cambiato, che il proprio destino sia una sorta di condanna. Questa presa e manifestazione di forza mi pare fondamentale per sostenere il processo di cui parli.

Una delle cose che possiamo imparare è che se partiamo dalle questioni che le donne pongono, dalla posizione delle donne, noi possiamo vedere la storia in un modo radicalmente diverso. I peronisti alla fine hanno votato come dovevano, ma all’inizio il movimento justicialista aveva dichiarato che avrebbe votato contro. Qui si vede un modo di fare politica tradizionale che è stato spazzato via, che ha perso il suo significato. Ci ho pensato molto; questo dibattito mostra precisamente che un momento nuovo sta cominciando. Quando vedi che c’è un rimescolamento complessivo della scena politica, della politica tradizionale di destra e di sinistra a partire dalle istanze femministe. Ci sto ancora riflettendo, ma mi torna in mente il dibattito costituzionale brasiliano del 1998, quando una ONG femminista ha realizzato un’inchiesta con i membri del Parlamento a proposito del disegno di legge costituzionale. In questo disegno c’erano cose positive per le donne, come l’abolizione della patria potestà e anche aperture sull’aborto – queste però non si sono realizzate – e la grande sorpresa è stata che alcuni partiti comunisti, membri del parlamento, esponenti della sinistra, si sono opposti a queste misure, mentre alcuni della destra tradizionale le hanno sostenute. Era solo un’analisi delle dichiarazioni di voto, ma mi ha sorpresa moltissimo che parte della sinistra tradizionale fosse contro le donne e che la destra avesse improvvisamente posizioni illuminate. Questa è una storia ormai lontana, ma oggi sta avvenendo qualcosa di simile. E io credo che abbia anche a che fare con il fatto che i voti sono stati dichiarati a partire da posizioni di partito, che dovevano essere affermate come tali, senza nessuna autonomia. E d’altra parte questo è il problema della politica rappresentativa come tale. Quello che ha caratterizzato la politica tradizionale è stata l’idea di accumulare forza per prendere il potere statale e da lì cambiare le cose. Ma bisogna considerare questa storia come uno specchio per capire che questa politica è fallimentare. Il mio sogno è una politica senza egemonia. Il mio maestro, Anibal Quijano, che ha avuto su di me una grande influenza, mi ha sempre detto «non parliamo dei movimenti sociali, ma dei movimenti della società». Questa cosa per me è fondamentale, questa politica della società, questo rimescolamento della società. Ho una specie di fede storica che mi dice che nessuno cattura la storia, nessuno la controlla, che la storia procede. L’idea della sinistra tradizionale di accumulare forza per poi metterla in una specie di camicia di forza ha fallito troppe volte e dalla storia dobbiamo imparare. Dobbiamo nutrire tutti i movimenti che nella società producono incertezza, indefinizione, e la sinistra non è nella condizione di farlo, non sono in grado di cogliere l’incertezza come qualcosa di positivo. E questo è un modo femminile di guardare alla storia. Perché è un modo pragmatico, pratico, ha a che fare con la capacità di improvvisare per riuscire a difendere la vita, è qualcosa di topico e non utopico. È difficile per me esprimermi anche perché cerco, mentre penso, di creare le parole che permettano di vedere la storia in modo completamente differente. Io credo che l’utopia abbia un carattere autoritario e che l’unica utopia ancora viva sia l’utopia dell’incertezza, della struttura tragica della storia, e la sinistra non è in grado di vederlo. Le donne lo stanno facendo.

Penso però che sia possibile pensare l’egemonia in un modo che non ha a che fare con la tradizionale politica dei partiti. Le donne ci sono sempre state, hanno sempre portato avanti le loro pratiche, ma quello che sta succedendo ora non si radica semplicemente nelle pratiche quotidiane. Possiamo dire che sono state storicamente costrette a occupare una certa posizione e fare determinate cose e che ora stanno partendo da quella posizione per realizzare un cambiamento. Ma solo ora, proprio perché si stanno mobilitando in massa, perché si stanno organizzando come tu stessa hai detto, le cose stanno cambiando. E questo evidentemente mette radicalmente in questione le modalità note di organizzazione, non c’è un percorso già scritto…

A me pare che ci sia una sorta di politica gestionale che le donne stanno praticando, anche nel modo in cui comunicano globalmente, il che vuol dire non avere soluzioni ma domande, la certezza dell’incertezza, accettare l’idea dell’instabilità dell’adesso, dell’attualità radicale. La critica dell’utopia, che ci ha portati nella storia a troppi errori, mi pone il problema di come comportarmi qui e ora. L’utopia non permette di pensare il presente. Le donne hanno una storia. Che cosa significa essere una donna? Significa avere una storia differente, non ha a che fare con la biologia. Quelli che dicono di non parlare del «genere» non considerano che è il termine che abbiamo scoperto per affermare che il nostro corpo non ci identifica, mentre d’altra parte i corpi hanno una storia che è estremamente complicata perché non è sempre la stessa. Per le popolazioni indiane il corpo non significa la stessa cosa che in Occidente, per esempio. Per le popolazioni indiane il femminile non deve essere incarnato in un corpo di un certo tipo, è una posizione, un ruolo, riguarda la divisione sessuale del lavoro. Essere donna oggi significa recuperare una storia che nel transito alla modernità è stata censurata, si è cancellata la storia politica della posizione femminile. Queste mobilitazioni femministe in un certo senso stanno recuperando il senso di quella storia, stanno facendo esplodere il senso della politicità domestica che ci hanno obbligato a dimenticare. Lo stile della politica femminile che nel transito alla modernità abbiamo dimenticato. E questo modo di fare politica con uno stile femminile è qui e ora. Dobbiamo recuperare la topicità più che l’utopia. La modernità è un modo di essere futurista, perché il futuro dà valore al presente, ma questo non è parte della storia femminile per come io la concepisco.

Ho qualche difficoltà a trasformare la storia in uno «stile». Credo sia importante pensare il «femminile» come una posizione che deve essere storicizzata, ma nell’atto di politicizzare questa posizione si esprime un atto di liberazione dalla storia che ci ha oppresso, ed è un atto che apre il futuro come possibilità di essere libere. Non sappiamo come questo avverrà, ma forse possiamo dire che questa pratica di libertà non è individualistica. Questo movimento coinvolge gli individui imponendo una trasformazione soggettiva, ma quello che è nuovo è che non stiamo reclamando una libertà per noi come individui o come donne, ma una libertà contro l’oppressione, per noi e per gli altri che sono oppressi…

Sì c’è la pretesa che quello che noi cambieremo cambierà tutto. Non mi piace la parola nemico – anche se abbiamo dei nemici – ma ci sono antagonisti del nostro progetto storico che lo sanno e da qui viene il cascame fondamentalista, l’opposizione a quella che chiamano «ideologia del genere», perché riconoscono l’importanza di quello che noi stiamo facendo. E quindi reagiscono, reagiscono contro questo movimento, contro il movimento delle donne, LGBTQI, perché vedono che è una minaccia. Capisco la tua preoccupazione, ma dobbiamo trattenerci da questa preoccupazione. Siamo stati addestrati così a fare politica dall’Occidente ‒ e tutti abbiamo imparato a fare politica dall’Occidente, quella sindacale, quella rappresentativa, la rivoluzione comunista, il movimento nero o quello LGBTQ ‒ e questo impone un carattere coloniale ai movimenti sociali. Il problema è proprio che il modo Occidentale di fare politica riguarda il controllo. C’è qualcosa che queste donne mostrano nelle strade ed è il rifiuto del controllo, il rifiuto dell’egemonia, il fatto che le cose si giocano da sole e trovano il proprio posto da sole, la società deve cambiare e sta cambiando, ma se pretendi di controllare questo processo compi un gesto patriarcale.

A proposito di questo cambiamento, nei documenti dello sciopero femminista, in ogni paese, non ci sono solo rivendicazioni delle donne come donne, ma la libertà di movimento per donne e uomini migranti, la fine del debito, la lotta contro la precarietà, e tutto questo è messo in relazione con la violenza patriarcale. Questo è un modo di concepire questa lotta parziale come una lotta che ha valore generale. Allora mi chiedo come si stanno costruendo concretamente queste connessioni.

Queste rivendicazioni sono presenti in tutte le manifestazioni, che denunciano la fine di ogni oppressione, e io le condivido, ma sono poste in modi diversi, ogni cosa ha una forma diversa. Nei movimenti per l’uguaglianza degli anni ‘60 e ‘70, i movimenti della sinistra insorgente in America Latina da cui provengo io e le persone che mi sono vicine, c’erano rivendicazioni simili, ma oggi sono pronunciate in modo diverso. Perché l’oppressione delle donne è la prima scuola di tutte le altre oppressioni. A Buonaventura, nella Costa pacifica della Colombia, ci sono bande di sicari che uccidono le donne, e non solo le donne, in modo estremamente brutale per «ripulire» la terra e fare strada agli investimenti immobiliari, per costruire nuovi porti, hotel eccetera. Il porto di Buenaventura è un porto particolarmente importante per il commercio nel Pacifico, e quindi bisogna ripulire il territorio. Non puoi mettere fine a questa guerra contro le donne con un trattato tra le Farc e lo Stato, perché lo Stato è parte del gioco e lo sostiene anche se informalmente. E allora mi sono chiesta come si pone fine a questa situazione se non smantellando il «mandato di mascolinità», perché è questo che sta alla base del reclutamento degli uomini che ingaggiano questa guerra. Il mandato di mascolinità però fa male agli uomini come alle donne, se smantelli il mandato di mascolinità cambi il mondo, ne sono convinta. Gli uomini sono danneggiati, hanno una vita più breve in ogni parte del mondo, non solo dove c’è la guerra, perché sono obbligati a obbedire a quel mandato. Gli uomini devono combattere contro quel mandato per essere liberi e il movimento femminista è l’occasione per gli uomini di liberarsi dall’obbligo di dare prova della loro potenza. Se demolisci questo imperativo, che è la prima pedagogia della crudeltà e del potere, cambi il mondo, cambi la realtà. Per questo gli uomini devono venire fuori. Nella fase multiculturale, che è stata la fase tra la caduta del muro di Berlino e il presente, il cambiamento non c’è stato perché il multiculturalismo e le identità politiche non hanno toccato il tessuto del capitale, dell’accumulazione, della concentrazione che è invece cresciuta nel periodo multiculturale, come ho scritto in un mio libro (La nación y sus otros: raza, etnicidad y diversidad religiosa en tiempos de políticas de la identidad, 2007). L’impatto del movimento femminista sta anche nella possibilità che dà agli uomini di venirne fuori, perché realizzano la possibilità di aggredire il fondamento di ogni potere.

Un’altra domanda a proposito dello sciopero. Che cosa pensi del fatto che le donne abbiano scelto lo sciopero come pratica di lotta?

Io credo che sia stato uno sciopero esistenziale, uno sciopero per un diverso tipo di esistenza e di politica nel senso che ti ho detto, in un modo topico, umoristico, celebrativo, comunalistico, capace di produrre vincoli tra me e te, e questo è ciò che definisco esistenziale…rompe la burocrazia, l’espropriazione. Le donne nel presente sono sequestrate dalla burocrazia che è storicamente legata all’egemonia. Non sono un’anarchica perché credo nell’organizzazione in comune che è basata sui legami, potrebbe essere un anarchismo etnico il mio. Sono tornata in Argentina e ho scelto di vivere nella città dove ho passato l’adolescenza, tra La Paz e Buenos Aires. Quando la modernità è arrivata nella città, quando lo Stato è arrivato nella città, le donne hanno perso la sovranità sul proprio corpo eppure tuttora ci sono rituali solo per le donne, una vita comune nei quartieri, segni di riconoscimento, un modo di relazionarsi in modo diverso. E poi sono un’antropologa e so che la comunità esiste ancora in America Latina, anche se in piccoli pezzi.

La comunità però non è stata disintegrata solo dalla colonizzazione o dal capitale, ma anche dalle donne che si sono sottratte al ruolo che la comunità riservava loro…

Le donne del Chiapas hanno dato una risposta al problema. I creoli hanno imposto la logica per cui prima bisogna lottare per il popolo, poi per le donne. Le donne del Chiapas hanno detto no, quando il vento della politica soffia, soffia per il popolo e per tutte le sue parti. Non c’è un’opposizione, non si escludono.

Non intendevo questo. Nei tuoi lavori tu parli di un patriarcato a bassa intensità che agisce nelle comunità e penso che le donne abbiano rotto i vincoli comunitari anche per sottrarsi al patriarcato, qualunque sia la sua intensità. Le migrazioni delle donne oggi rispondono anche a questa pretesa di libertà contro i vincoli patriarcali della comunità.

Io penso che dobbiamo capire questo nei momenti di transizione dalla comunità alla società, dalla vita comune alla cittadinanza, perché sono stati questi i momenti in cui in America Latina come in Spagna si è intensificata la violenza contro le donne. La maggior parte delle comunità oggi sono in questo momento di transizione. Anche se la cittadinanza astratta nei nostri paesi – non so in Europa – non si è mai realizzata, negli spazi coloniali c’è una storia diversa della storia del rapporto tra Stato e società, la società è stata costituita dallo Stato dall’esterno, come una copia dello Stato coloniale, ci sono metropoli coloniali che si sono trasformate in territori che hanno continuato l’amministrazione coloniale. E questo processo ha creato la società, le Repubbliche nei nostri paesi sono finzioni.

Credo però che questo sia vero anche in Europa, benché in modo diverso. L’omogeneità del popolo è sempre stata una finzione

Io credo comunque che questo si possa decifrare proprio grazie alla storia della violenza sulle donne e dall’incapacità dello Stato di dare una risposta. Nei momenti di transizione la posizione degli uomini è una posizione che sta in mezzo, l’espansione della colonia è una forma di castrazione che impone loro di restaurare la loro potenza attraverso la violenza. La violenza è una restaurazione della mascolinità contro la castrazione ed è questo che porta le donne ad andarsene. Ma nei luoghi in cui questo processo non si è dato, le donne rimangono nelle comunità e sono alla guida dei movimenti comunalisti, come Berta Cáceres in Honduras.

Questo però è un movimento globale. Tu parli del tuo immaginario politico topico, che parte dall’esperienza della comunità, ma quest’esperienza non è generalizzabile. Allora che cosa significa pensare la trasformazione femminista di cui hai parlato da una prospettiva transnazionale?

Per l’8 marzo alcune donne latinoamericane che vivono in Francia mi hanno chiesto di fare una dichiarazione per lo sciopero e io ho detto che la posta in gioco è la pluralità. Non possiamo unificarlo né possiamo pensare ora di essere tutte allo stesso modo. Ci sono rivendicazioni comuni, ma cercare un’unificazione sarebbe un errore. Si può unificare qualcosa su cui si ha presa, ma nessuno può avere presa su quello che sta succedendo. Il patriarcato pretende di avere presa su tutto e da questo dipende la sua vita, dal controllo. Noi non possiamo farlo, dobbiamo lasciar essere. Il rischio di aspirare all’unità è troppo grande. È come una bambina appena nata. Si può dire: devi essere bella, disciplinata, educata, devi studiare. Noi dobbiamo avere una bambina ribelle.  

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