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I segreti laboratori dei distretti industriali

di ELEONORA CAPPUCCILLI

Pubblicato su «Il Manifesto» del 29 giugno 2017

Stampe di Warhol appese nei calzaturifici di Louis Vuitton poco distanti dalle fabbriche dormitorio; la perizia artigiana che vive accanto alle catene di montaggio elettriche; il lusso degli abiti indifferente alla povertà dei salari. Ecco il ritratto dell’alta moda in Italia, in cui forme di lavoro e di salario diversificate si mescolano all’esibizione di un’etica della produzione in un tutto apparentemente incoerente. È in questi segreti laboratori della produzione a rete globale che sono entrati Davide Bubbico, Veronica Redini e Devi Sacchetto con il loro ultimo libro I cieli e i gironi del lusso. Processi lavorativi e di valorizzazione nelle reti della moda (Guerini scientifica, 2017, pp. 207, 19,50 euro). Il volume ricostruisce il modo in cui le imprese leader dell’alta moda danno forma a un «lavoratore collettivo transnazionale», mettendo a valore alcune peculiarità e asimmetrie di tre distretti industriali italiani tra Veneto, Toscana e Campania, ad esempio esaltando l’abilità delle maestranze italiane e invisibilizzando il lavoro di quelle cinesi, oppure nascondendo accuratamente al pubblico gli stabilimenti in Transilvania, dove ogni settimana si producono migliaia di scarpe con l’etichetta made in Italy o made in France. A partire dall’Italia, il libro getta luce sui confini che continuano a differenziare giuridicamente, socialmente e politicamente lo spazio globale della produzione.

Attraverso circa settanta interviste il libro dà voce a tutti gli attori coinvolti nel processo produttivo, dalle operaie agli imprenditori, mettendo in luce una doppia dinamica di centralizzazione del comando capitalistico e dispersione della forza lavoro. Da una parte, vi è il tentativo datoriale di imporre alle operaie e agli operai una piena disponibilità di sé e del proprio tempo; dall’altra, vi è lo spezzettamento della catena della produzione: la delocalizzazione in Est-Europa va di pari passo con la rilocalizzazione in Toscana, dove proliferano i laboratori cinesi. Al contempo persiste la seclusione delle donne che si portano il lavoro – suole, pacchi, abiti da rifinire – a casa. Lo spazio della moda mette dunque in scena il regime del salario nello spazio globale della produzione, uno spazio-soglia in cui entrano in collisione vecchi e nuovi modi di lavorazione, vecchie e nuove mete di produzione, vecchi e nuovi strumenti di comando, dentro e fuori i luoghi di lavoro.

Emerge così la razionalità complessiva dello sfruttamento, che fa leva su caratteristiche etniche e sessuali costruite e imposte ma anche sulle gerarchie prodotte dall’incrocio di salario, sistemi differenziati di welfare e limitazioni alla libertà di movimento, come pure sulle condizioni ‘ambientali’ ritenute migliori. In questo quadro, nel napoletano e casertano la presenza della camorra è altrettanto funzionale all’organizzazione della produzione delle multinazionali quanto la disponibilità di un ampio bacino di operaie a domicilio pagate a cottimo, che possono svolgere mansioni di estrema precisione senza che il committente badi al tempo speso. Con buona pace di chi pensa che a mancare di senso civico sia la popolazione partenopea.

Da questa dimensione industriale ciò che sembra perdersi è il conflitto. Evocato all’inizio del primo capitolo, con lo sciopero del 2007 di 400 operaie cinesi in un’impresa italiana di abbigliamento in Romania, e poi richiamato sotto forma di «microconflittualità», lo sciopero come interruzione totale del rapporto di capitale scompare inequivocabilmente. Per gli autori, la ragione del crollo della conflittualità operaia va ricercata nella trasformazione della natura del sindacato. Davanti alla crisi oggettiva causata dalla profonda ristrutturazione della produzione della moda in Italia e alla nuova composizione della forza lavoro – mobile, migrante, irregolare –, il sindacato ha compiuto scelte precise che lo hanno reso complice della precarizzazione. Facendo proprie le preoccupazioni economiche delle associazioni datoriali, promuovendo la fondazione di enti bilaterali, sponsorizzando il welfare aziendale, chiudendo uno o due occhi sulle forme di lavoro irregolare e pretendendo in ultima istanza di rivolgersi a individui che chiedono servizi, il sindacato ha rinunciato a farsi portavoce della rabbia operaia.

Proprio a partire dalla produzione a rete globale e all’altezza delle connessioni politiche esistenti o ancora da costruire, si può forse rintracciare e valorizzare quella conflittualità che sembra perdersi guardando solo all’industria e al sindacato in Italia. Di sicuro lo sminuzzamento delle condizioni e la stretta contiguità di lavoro nero, grigio e ‘regolare’ rendono obsoleti i tradizionali schemi interpretativi e impongono un radicale rinnovamento degli studi sul lavoro. Bubbico, Redini e Sacchetto fanno un importante passo in questa direzione.

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