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Il velo alzato sul mondo dei morlock

Vecchi_Regimedi BENEDETTO VECCHI

La recensione dell’ebook Il regime del salario, di Lavoro Insubordinato, pubblicata su «Il Manifesto» del 10 ottobre 2015.

L’inferno degli ate­lier della pro­du­zione non è neces­sa­ria­mente un luogo dove ci sono forni accesi, rumori assor­danti, caldo insop­por­ta­bile e dove gli umani sono ridotti a bestie. Il lavoro può essere infatti svolto in ambienti lindi dove viene dif­fusa musica rilas­sante e pia­ce­vole; oppure in case dove la sovrap­po­si­zione tra vita e lavoro è la regola e non l’eccezione. L’immagine più forte del lavoro non è data certo da Tempi moderni di Char­lie Cha­plin. L’omino con baf­fetti, cap­pello e bastone risuc­chiato negli ingra­naggi delle mac­chine rap­pre­senta con lie­vità l’orrore della catena di mon­tag­gio. Strappa un sor­riso di fronte la disu­ma­nità dell’organizzazione scien­ti­fica del lavoro. Ma la rap­pre­sen­ta­zione del lavoro non è viene più nep­pure dalla folla rab­biosa di Metro­po­lis di Fritz Lang. Sono due film dove è pre­sente l’imprevisto dell’insubordinazione, della rivolta. Ma in tempi di pre­ca­rietà dif­fusa, occorre leg­gere le pagine o far scor­rere i foto­grammi del film tratto dal libro di Her­bert George Wells La mac­china del tempo per avere la misura di come è cam­biato il lavoro.

Il romanzo dello scrit­tore inglese è utile non tanto per­ché ci sono gli eloi, umani ridotti a ebeti che pos­sono con­su­mare di tutto in attesa di essere divo­rati dai morlock umani-talpa che vivono nel sot­to­suolo per pro­durre chissà cosa. La mac­china del tempo è un testo signi­fi­ca­tivo per­ché rap­pre­senta una società che ha occul­tato gli ate­lier della pro­du­zione, li ha sot­tratti allo sguardo pub­blico. Sono come le community gated delle metro­poli: zone dove lo stato di ecce­zione – limi­ta­zione dei diritti e della libertà per­so­nale – è la nor­ma­lità. Per gli atti­vi­sti e ricer­ca­tori del gruppo «Lavoro insu­bor­di­nato» sono espres­sione di un regime che non cono­sce faglie distrut­tive e dove la crisi è la chance che il capi­tale ha usato per affi­nare e ren­dere più sofi­sti­cate, e dun­que più potenti, le forme di assog­get­ta­mento e di com­pres­sione del sala­rio del lavoro vivo. Lo scrivono in un ebook dal titolo pro­gram­ma­tico Il regime del sala­rio, che può essere scaricato dal sito inter­net di ∫connessioni precarie. Ha un’intro­du­zione di Ferruccio Gam­bino e saggi di Lucia Gior­dano, Isa­bella Con­so­lati, Roberta Fer­rari, Piergiorgio Angelucci, Eleo­nora Cap­puc­cilli, Flo­riano Milesi e Fran­ce­sco Ago­stini. Sono testi sulle nuove nor­ma­tive che rego­lano il rap­porto di lavoro, dal Jobs Act all’introduzione dei voucher al job sha­ring. E se per il Jobs Act il lavoro cri­tico è faci­li­tato dalla mole di mate­riali usciti sulla legge varata in pompa magna dal governo di Mat­teo Renzi come pana­cea per la pre­ca­rietà dif­fusa e la disoc­cu­pa­zione di massa, meno facile è invece restituire il valore per­for­ma­tivo che le dispo­si­zioni sui vou­cher e il job sha­ring hanno per l’intero «regime del salario».

L’impianto ana­li­tico pro­po­sto è effi­cace e con­di­vi­si­bile. Più pro­ble­ma­ti­che sono le pro­po­ste poli­ti­che avan­zate nel volume. Non per­ché impos­si­bili, ma per­ché pro­ble­ma­tica è la pro­spet­tiva indi­cata come neces­sa­ria: orga­niz­zare l’inorganizzabile, cioè quelle nuove figure del lavoro, disperse, fram­men­tate, sem­pre più indi­vi­dua­liz­zate. È con que­sta pro­spet­tiva che occorre fare i conti. Il limite che emerge dalle pro­po­ste avan­zate è infatti il limite che si incon­tra quando si cerca di lace­rare il velo che occulta il lavoro con­tem­po­ra­neo. Fanno dun­que bene gli autori a nomi­narlo. Non ci sono infatti facili scor­cia­toie da imboccare.

Il mime­ti­smo che paga

Il Jobs Act è rite­nuto la forma giu­ri­dica che isti­tu­zio­na­lizza la pre­ca­rietà. Mat­teo Renzi e la sua squa­dra di governo hanno aggi­rato lo sta­tuto dei lavo­ra­tori vigente, modifican­done l’articolo 18 (quello sul licen­zia­mento senza giu­sta causa), ma non si sono mai sca­gliati con­tro la «filo­so­fia» garan­ti­sta dello Sta­tuto. Hanno mime­tiz­zato l’obiettivo – ren­dere nor­male la pre­ca­rietà – con la reto­rica di svi­lup­pare forme di tutela per i giovani pre­cari. Così facendo sono però riu­sciti a pro­durre con­senso all’istituzionalizzazione della pre­ca­rietà, visto che il Jobs Act per­mette il licen­zia­mento e pre­vede forme di signi­fi­ca­tivi sgravi con­tri­bu­tivi per le imprese, moti­vando le misure come incen­tivi all’assunzione dei lavo­ra­tori a tempo deter­mi­nato e dun­que alla cre­scita occu­pa­zio­nale, cre­sciuta sopra il 10% dopo il 2008 a causa della crisi eco­no­mica glo­bale. Che que­sto non sia acca­duto è oggetto della pole­mica poli­tica quo­ti­diana, con errori e omis­sioni da parte del Mini­stero del lavoro, come ha testi­mo­niato e denun­ciato la ricer­ca­trice Marta Fana sulle pagine di que­sto gior­nale. Nel volume di «Lavoro Insu­bor­di­nato» viene però messo in evi­denza un altro aspetto, meno pre­sente nella discus­sione pub­blica. Il Jobs Act rati­fica anche la compres­sione sala­riale in auge da decenni in Ita­lia. Pre­ca­rietà e salari sta­gnanti sono inol­tre le fon­da­menta della pro­gres­siva e ten­den­ziale tra­sfor­ma­zione del lavoro vivo in un eser­cito di wor­king poor.

Recensione_Regime_MorlockMa que­ste, direb­bero i soliti buon infor­mati, sono cose note. Meno evi­dente è la diffu­sione dei vou­cher e del job sha­ring. Sull’uso dei vou­cher poco si sa. Le recenti statistiche par­lano di una cre­scita espo­nen­ziale del loro uso da parte delle imprese. Si tratta della pos­si­bi­lità da parte delle imprese di «assol­dare» lavo­ra­tori e lavo­ra­trici per brevi periodi, ma anche per poche ore in cam­bio di un vou­cher che può essere riti­rato dal sin­golo in alcuni luo­ghi pre­po­sti. Si tratta di un’attivazione al lavoro – l’espressione tec­nica parla di lavoro occa­sio­nale — che non pre­vede nes­suna forma di rego­la­men­ta­zione della pre­sta­zione lavo­ra­tiva. Il sin­golo, infatti, non ha un con­tratto o una forma di collaborazione codi­fi­cati dal diritto del lavoro. È solo fis­sato un tetto eco­no­mico – i voucher non pos­sono supe­rare la cifra dei 7mila euro l’anno per il sin­golo lavo­ra­tore – ma nulla più. È una delle forme più radi­cali di pre­ca­rietà che sono state impo­ste al lavoro vivo. E con­tem­pla anche una colo­niz­za­zione del tempo di vita: il sin­golo deve essere pronto a lavo­rare in ogni momento. A ragione, i vou­cher sono con­si­de­rati la forma assunta da una logica di «usa e getta», che sca­rica inol­tre sui sin­goli l’attivazione di tutele indi­vi­duali riguardo la pen­sione, la for­ma­zione, la salute. Devono cioè intra­pren­dere la discesa negli inferi della pri­va­tiz­za­zione del wel­fare state. Lo stesso si può dire del job sharing, cioè la con­di­vi­sione tra due per­sone della stessa mansione.

Imma­gi­nata come una forma di tutela per le donne entrate nel mer­cato del lavoro ma che non vogliono rinun­ciare alla cura dei figli, il job sha­ring rivela anche in que­sto caso il pro­gres­sivo abban­dono dello Stato nei ser­vizi sociali. L’assenza di asili nido, scuole materne ricade sulle donne: cosa anche que­sta nota. Ma que­sto si tra­duce in una condizione di assog­get­ta­mento delle donne che con­di­vi­dono lo stesso lavoro. È infatti prero­ga­tiva loro tro­vare la com­pa­gna di «avven­tura»; e ricade su di loro la per­dita di salario e una scan­sione della gior­nata che solo i «crea­tivi» della pub­bli­cità pos­sono rappresen­tare come espres­sione di una onni­po­tenza fem­mi­nile che passa dal lavoro sotto padrone a quello di cura come se niente fosse, sem­pre senza mai scom­porsi e man­te­nendo un sedu­cente sor­riso sulle labbra.

Nep­pure i cosid­detti ammor­tiz­za­tori sociali sono omessi in que­sto volume: ogni acro­nimo e sigla usata nasconde la ridu­zione delle tutele a ele­mo­sine per i «senza lavoro». La disoc­cu­pa­zione è ridotta a fatto dome­stico, pri­vato, del quale lo Stato non si cura, se non nelle forme com­pas­sio­ne­voli dell’assistenza ai poveri.

Orga­niz­zare l’inorganizzabile

È da qual­che lustro che mino­ranze intel­let­tuale e gruppi di atti­vi­sti segna­lano che uno degli effetti delle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste è la tra­sfor­ma­zione dell’insieme del lavoro vivo nella mar­xiana «fan­te­ria leg­gera del capi­tale». Pos­sono essere molte le forme giu­ri­di­che usate, ma rimane il fatto, incon­te­sta­bile, che l’universo dei diritti sociali di cit­ta­di­nanza è stato sosti­tuito da dispo­si­tivi dove la cit­ta­di­nanza è vin­co­lata all’accettazione del «regime del sala­rio». Quello che veniva defi­nito come ten­denza, è quindi dive­nuto realtà.

Quale pro­spet­tiva poli­tica atti­vare per un lavoro vivo fram­men­tato, disperso, che spesso non ha luo­ghi dove incon­trarsi? «Orga­niz­zare l’inorganizzabile» non è solo una sugge­stione, bensì un pro­gramma di lavoro poli­tico per ren­dere mag­gio­ranza ciò che è patri­mo­nio di mino­ranze teo­ri­che e poli­ti­che. Il primo passo è il red­dito di cit­ta­di­nanza, va da sé, ma c’è un sug­ge­ri­mento del libro del quale fare tesoro.

Il red­dito di cit­ta­di­nanza non può essere imma­gi­nato come una inge­gne­ria istituzionale, dele­gando alla Stato sia le forme che le moda­lità di ero­ga­zione. Se così accadesse tutte le forme di ricatto e di nuovo assog­get­ta­mento dalle quali il red­dito di citta­di­nanza favo­ri­rebbe l’emancipazione ritor­ne­reb­bero sulla scena dei rap­porti di lavoro. Per que­sto va messo in rela­zione pro­prio con il regime del salario.

La presa di parola pro­prio del lavoro vivo nella sua ete­ro­ge­neità è certo un fat­tore pri­ma­rio, ma non riso­lu­tivo del pro­blema. Serve imma­gi­nare forme di scio­pero sociale efficaci. E atti­vare coa­li­zioni sociali, sot­traen­dole però alle alchi­mie auto­con­ser­va­tive che asse­gnano alle orga­niz­za­zioni sin­da­cali date e della cosid­detta società civile il ruolo di gate kee­per delle stesse coa­li­zioni sociali.

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