sabato , 27 Aprile 2024

Alcune domande a La scienza del valore di Michael Heinrich

di ISABELLA CONSOLATI

La tesi principale di La scienza del valore. La critica marxiana dell’economia politica tra rivoluzione scientifica e tradizione classica di Michael Heinrich, pubblicato la prima volta 1999 e ora disponibile in traduzione italiana per PGreco, tradotto da Stefano Breda, è che la teoria marxiana comporta una rivoluzione scientifica nella storia delle scienze sociali. Marx non si sarebbe limitato a elaborare una nuova teoria, ma avrebbe contributo a creare un nuovo campo scientifico. In altre parole, egli avrebbe introdotto una problematica del tutto nuova, se confrontata non solo con l’economia politica classica, ma anche con la successiva scuola marginalista. Heinrich indica molto chiaramente quali sono i pilastri dell’economia politica che Marx distrugge: antropologismo, individualismo, astoricità ed empirismo. L’intero volume è dedicato a un’analisi dettagliata e approfondita di questa innovazione concettuale e dei punti in cui invece Marx non è stato in grado di distaccarsi interamente dai terreni che altrimenti contesta.

Vorrei porre una serie di questioni al volume di Heinrich a partire da un punto di vista su Marx che non è esclusivamente quello della critica della teoria economica, ma ruota piuttosto attorno al problema della politica e della storia in uno scenario globale. Nel leggere Marx, mi sono costantemente confrontata con la distinzione – che prendo in prestito dal marxista di origini armene Harry Harootunian – tra due livelli di analisi che non possono essere disgiunti: il problema del tempo storico del capitale, della sua logistica, e il problema del rapporto tra capitale e storia, tra capitale e differenza storica. Per non scindere i due piani, non si può che considerare il “Marx globale”, ovvero non separare lo scienziato dall’uomo che è stato attivo nella costruzione di un movimento politico della classe operaia, il quale per affermarsi doveva sì affrontare il potere del capitale, ma anche un’enorme varietà di condizioni storiche, divisioni interne, processi di individualizzazione, nazionalismi, dinamiche connesse agli Stati, alle guerre e alla stessa natura. La Scienza del valore non è, certo, rappresentativo dell’intera produzione di Heinrich e discuterlo in isolamento rispetto ai suoi testi successivi rischia di non rendere merito al suo autore. Ma lì senz’altro Heinrich disgiunge radicalmente i caratteri che compongono il Marx vivente. Mentre mutua da Louis Althusser l’idea di una rottura epistemologica che separa l’approccio antropologico del giovane Marx dai suoi successivi lavori “scientifici” (come spiega Vittorio Morfino in un saggio su Heinrich e Althusser che segue la lunga introduzione di Riccardo Bellofiore), Heinrich rifiuta il successivo ripensamento di Althusser, secondo il quale al cuore di quella rottura ci sarebbe una posizione “teorico-pratica” di classe, una posizione politica e non esclusivamente epistemologica. All’autocritica althusseriana, Heinrich risponde che la filosofia e la scienza non possono essere ridotte a un campo di battaglia, se non al rischio di volgarizzare Marx e minare l’oggettività della sua scienza.

In attesa di occasioni per un confronto allargato all’intera prestazione di Heinrich, non si può che domandarsi a quale concetto di scienza egli faccia riferimento in La scienza del valore. Heinrich sottolinea che Marx innova il campo scientifico e non aggiunge semplicemente una nuova teoria a una serie di teorie economiche. Eppure, in questa innovazione, i parametri di che cosa vale come scienza – vale a dire oggettività, neutralità, dimostrabilità e anche in una certa misura quantificabilità – sono interamente presupposti. In questo modo si introduce una sorta di trascendentale scientifico che riconduce l’opera di Marx all’interno della scienza economica, ristabilendo una continuità al di là della radicalità della rottura epistemologica. Ogni comprensione politica della scienza è poi derubricata a una forma debole di standpoint theory che relativizza ogni riferimento all’oggettività. Mi ha sempre colpita la definizione un po’ hegeliana che Marx dà in Miseria della filosofia del comunismo, nel suo lato teorico, come “la scienza prodotta dal movimento storico”. Suggerisce, mi sembra, l’entità del ripensamento nel quale era impegnato. D’altra parte, nel discorso inaugurale dell’Internazionale dei Lavoratori, parlando della riduzione a 10 ore della giornata lavorativa normale, Marx dichiara che, dopo 30 anni di lotte, “per la prima volta alla luce del sole l’economia politica della classe media è stata sconfitta dall’economia politica della classe operaia”. La scienza ricostruita da Heinrich, invece, finisce per negare qualsiasi connessione con la classe operaia. Un problema che riemerge nelle conclusioni dedicate alla transizione al socialismo, in cui Heinrich si sofferma sulla critica delle letture che individuano elementi normativi nell’interpretazione marxiana del nesso tra capitalismo e crisi. Heinrich scrive, infatti, che “può esserci un socialismo scientifico ma non una scienza socialista”, sostenendo che Marx ed Engels intendevano “gettare le fondamenta scientifiche del socialismo a partire dalle tendenze evolutive della società capitalistica”. Il prezzo del certificato di scientificità sembra essere la rinuncia a qualsiasi possibilità di azione della classe operaia dentro a queste tendenze.

Heinrich, inoltre, espone con grande precisione e abbondanti riferimenti la teoria monetaria del valore di Marx, che lo distingue dagli economisti politici, per quanto in alcuni punti egli stesso ricada in una teoria non monetaria del valore. Heinrich si sofferma in maniera convincente sulla centralità del denaro come nuovo sovrano e rappresentante della forma valore. Il denaro è determinante nella definizione di lavoro astratto perché è solo attraverso il denaro nello scambio che diversi lavori possono essere equiparati tra loro. La centralità assegnata allo scambio è la ragione per cui tanto la produzione quanto la riproduzione hanno un ruolo molto defilato nel volume. Le fabbriche e il processo lavorativo sono sorprendentemente poco presenti. Questa scelta ha il merito di enfatizzare la capacità del capitale di trasformare l’intera organizzazione della società. Lo sfruttamento del lavoro non ha solo a che fare con la relazione tra capitalisti e operai nella fabbrica. La fabbrica, del resto, non è il solo luogo in cui il rapporto di capitale è attivo. Eppure, concentrarsi esclusivamente sullo scambio pone un problema non da poco. Marx scrive che l’operaio, nell’atto dello scambio della sua forza lavoro come merce, persegue il suo interesse e punta a valorizzare più che può la merce che lui o lei è. Qui lui o lei è ein Einzelne, un individuo. Tuttavia, in un passaggio chiave dei Grundrisse che è relegato a una nota a piè di pagina, Marx dichiara che, mentre l’acquisto di forza-lavoro funziona formalmente come uno scambio di merci, l’appropriazione di lavoro vivo nel processo lavorativo solo difficilmente può essere considerata uno scambio, anche se è la conseguenza di uno scambio tra equivalenti. Questo è il motivo per cui, come ha dimostrato Maurizio Ricciardi nel suo libro Il potere temporaneo, Marx ricorre così spesso alla semantica della schiavitù per descrivere questa appropriazione, anche se distingue nettamente schiavitù e lavoro libero. Inoltre, è nella sfera della produzione e a ridosso di questa appropriazione, quando il capitale è costretto a entrare in rapporto con non-capitale, a emergere una dimensione collettiva, perché il processo di valorizzazione è anche un processo di lavoro. La lotta che ha avuto come risultato i factory acts è, secondo Marx, la lotta tra due soggetti collettivi: il capitalista collettivo e l’operaio collettivo. Nel volume di Heinrich, der Einzelne dello scambio è presente in maniera del tutto predominante rispetto al riferimento alla Arbeiterklasse, che è menzionata una manciata di volte. Non si tratta, certo, dell’individuo originario dell’economia politica, ma dell’individuo prodotto da un processo di individualizzazione tramite la forma valore e lo scambio. Così facendo, però, viene eclissato il problema della costituzione di un soggetto collettivo che è senz’altro una priorità per Marx, il quale è tornato senza posa sul problema dell’organizzazione della classe operaia come movimento politico, certamente non solo nella fabbrica ma in tutta la società. Alla fine, il cerchio si chiude e, oltre la rottura epistemologica, l’operaio finisce per essere considerato una sorta di homo oeconomicus, un individuo depoliticizzato che segue esclusivamente una razionalità economica.

Infine, vorrei tornare sul problema della riproduzione sociale. In un rapido passaggio, Heinrich menziona alcune critiche femministe che hanno contestato a Marx di non considerare la relazione tra il lavoro riproduttivo non pagato delle donne e la determinazione del salario. Non mi interessa tanto la relazione economica tra il lavoro riproduttivo non pagato e il lavoro salariato, ma il modo in cui Heinrich inquadra il problema della subordinazione delle donne che è evidentemente la precondizione del loro lavoro gratuito. Oltre a dimostrare che lo sfruttamento persiste anche laddove il lavoro riproduttivo venga socializzato o organizzato dal pubblico, Heinrich invita a non confondere condizioni storiche specifiche con la possibilità generale dello sfruttamento. Così, emerge che il lavoro riproduttivo non pagato è solo una condizione storica, che caratterizzerebbe in maniera predominante il “Terzo mondo”. “Il fatto che una gran parte del lavoro riproduttivo sia ancora realizzato nella famiglia è più un residuo di un passato pre-capitalistico, e caratteristico di un capitalismo non completamente sviluppato, più che essere una condizione generale dello sfruttamento”. Si può certamente contestare il fatto che, eliminando il lavoro riproduttivo non pagato, si elimini lo sfruttamento. Più difficile, però, è scindere le condizioni generali dello sfruttamento dalle condizioni storiche in cui si danno, tanto più se si osserva a livello globale il variegato ma costante intreccio tra patriarcato e capitalismo. A meno che non si voglia relegare il patriarcato al cosiddetto “Terzo mondo”, trasformare l’emancipazione femminile in un esito del pieno sviluppo capitalistico e suggerire che esso segue una serie di stadi necessari.

Heinrich sostiene che l’impiego di entrambi i membri di un nucleo familiare è più conveniente al capitale perché diminuisce il valore della singola forza-lavoro, dal momento che due salari invece di uno pagano i costi riproduttivi di un’unica famiglia. Non voglio soffermarmi sui tecnicismi relativi alla determinazione del prezzo del lavoro, ma richiamare il fatto che altre letture, penso a quella di Immanuel Wallerstein, rilevano invece che è sorprendente quanto, dopo 400 anni di capitalismo, la quantità di lavoro interamente proletarizzata nell’economia-mondo sia molto bassa. La possibilità di poggiare su forme di lavoro non pagato e non completamente governato dallo scambio è decisiva per mantenere basso il valore della forza-lavoro. Anche quando il lavoro riproduttivo è parzialmente monetizzato, come nel caso delle lavoratrici domestiche migranti, c’è un intero dispositivo patriarcale che coniuga sessismo e razzismo per mantenere il valore del lavoro delle donne migranti quanto più basso possibile.

Questo è per dire che, più che separare condizioni storiche e condizioni generali, forme incompiute e forme pienamente sviluppate, andrebbe considerato il modo in cui il capitale riposiziona forma passate di dominazione. Ciò però richiede di considerare il problema del lavoro riproduttivo delle donne non semplicemente dal punto di vista del calcolo economico del valore, ma considerando le condizioni politiche dello sfruttamento. Una parte del lavoro costa meno anche sul mercato perché è considerato “naturale” e perché naturale e sottosviluppata è considerata la sua “portatrice”. La misura dei salari è il risultato anche di una svalutazione politica, del tentativo costante di deprezzare il lavoro di alcune, sulla base del sesso e della razza, come meno di valore, meno disciplinato, meno qualificato di quello di altri. Questo è del tutto evidente nelle aree metropolitane con il lavoro migrante. Non serve sottolineare che questo riguarda anche il problema di come ripensare oggi la classe operaia.

In generale ciò investe quelle che Heinrich chiama le “condizioni extra-economiche” del capitalismo. Egli sostiene che, una volta che il capitale si è affermato nella sua forma completamente sviluppata, non gli serve altro che la muta coazione dei rapporti economici. Ciò significa anche che bisogna in qualche modo aspettare finché le condizioni siano mature perché qualcosa cambi. Heinrich sostiene, inoltre, che la violenza dello Stato serve per dare vita al rapporto di capitale ma, una volta che esso è compiutamente istituito, è sufficiente che lo Stato ne assicuri il normale funzionamento, garantendo i rapporti di proprietà. Sarebbe interessante discutere che ne è, in questo quadro, delle funzioni repressive e di disciplinamento dello Stato. Al di là di questo, per tornare ancora sul problema della legislazione di fabbrica: Heinrich la legge come la conferma della capacità dello Stato di garantire il normale corso dell’accumulazione capitalistica, rappresentando il capitalista collettivo anche contro l’interesse immediato dei capitalisti individuali. Questo è senz’altro vero, come Marx stesso sottolinea, ma perché allora egli la considera una vittoria della classe operaia? Non credo che sia perché quella legislazione costringe il capitale a svilupparsi e a intensificare la sussunzione del lavoro, approssimandosi così al suo crollo finale. Questa logica ascetica del sacrificio non si trova da nessuna parte in Marx. Egli la considera una vittoria politica perché concepisce lo Stato come un campo di battaglia e come l’arena sulla quale il movimento politico della classe operaia non può che fare “pressione” dall’esterno. Altrimenti non resta che consegnarsi alla muta coazione del capitale e alle sue ferree leggi evolutive.  

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