venerdì , 19 Aprile 2024

La Bolivia dopo Evo Morales e il rompicapo dei governi progressisti

di CAMILLA DE AMBROGGI e CLEMENTE PARISI

Da oltre un mese la Bolivia vive una profonda crisi politica. Le proteste iniziate in seguito alle controverse elezioni del 20 ottobre hanno portato alle dimissioni e alla fuga di Evo Morales e si sono trasformate in una vera e propria guerra civile quando la presidenza è stata assunta dall’ex-vicepresidente del Senato Jeanine Añez. Gli scontri violenti e le mobilitazioni di quei giorni hanno lasciato sul terreno decine di morti e centinaia di feriti soprattutto per mano della repressione di Stato, evidenziando una spaccatura nel paese che si consuma sui simboli, sulle parole e sulla interpretazione dei fatti che hanno seguito la diffusione dei risultati elettorali. L’accusa di golpe è rimbalzata per giorni da una parte all’altra nel tentativo di stabilire chi per primo abbia forzato le procedure democratiche. L’eterogenea opposizione considera la rinuncia di Morales come una restaurazione della legittimità democratica che ricuce la spaccatura prodotta dal suo tentativo di essere eletto per un quarto mandato dopo che il referendum del 21 febbraio del 2016 lo aveva esplicitamente rifiutato. I sostenitori del Movimiento al Socialismo (MAS) e buona parte dell’opinione pubblica latino-americana, al contrario, guardano con comprensibile sospetto gli eventi che hanno portato all’uscita di scena di Morales. L’esecutivo di Añez si è d’altronde contraddistinto fin da subito per la sua politica reazionaria. I negoziati tra il nuovo governo e il MAS, il partito di Evo Morales maggioritario nelle due Camere, si sono conclusi il 24 novembre con l’approvazione di una legge che stabilisce le condizioni per nuove elezioni presidenziali e legislative a cui non potrà presentarsi il binomio uscente Morales-García Linera. Allo stesso tempo, tuttavia, il «governo provvisorio» ha legittimato le Forze Armate a reprimere le proteste contro il suo autoritarismo, esentandole addirittura da responsabilità penali. Il governo è composto per lo più da personalità provenienti da Santa Cruz de la Sierra, la capitale della zona agroindustriale dell’Oriente boliviano e del blocco oligarchico-imprenditoriale. In più, esso ha dato voce al blocco conservatore che ha cercato di imprimere il proprio marchio sulle proteste e di «riportare Dio e la Bibbia al palazzo». Espressione di questo blocco è la meteorica ascesa politica di Fernando Camacho, imprenditore cruceño e leader de Comité Cívico de Santa Cruz[1]. El Macho Camacho, come si fa chiamare, si è distinto nelle ultime settimane per la sua retorica «bolsonariana» e per l’esplicito tentativo di intestarsi un discorso sociale e politico fortemente patriarcalista e segnato dal disprezzo per le classi subalterne, con esplicite venature religiose. In questo modo, Camacho si è accreditato insieme a Marco Pumari, leader del Comité Civico di Potosì, come figura centrale dell’opposizione a Morales e candidato alle prossime elezioni.

La nuova fase politica aperta con il governo Añez, quindi, sembra confermare un elemento ormai tipico dell’avanzare delle destre in Sudamerica: il nesso strutturale tra unconservatorismo violento e razzista e il progetto neoliberale. Questa nuova fase boliviana mostra tale nesso attraverso il tentativo aggressivo di fare piazza pulita dell’eredità politica, materiale e simbolica, dell’ultimo ventennio e di chiudere lo spazio nel quale, a partire dalle rivolte dei primi anni duemila, i settori operai, campesini e indigeni hanno costruito una linea di conflitto e di lotta contro il neoliberalismo. Siamo dunque di fronte al tentativo di rispondere alla politicizzazione di vari soggetti che hanno fatto emergere il legame tra l’oppressione etnica e quella sociale ed economica, alla presa di parola collettiva di migliaia di donne che hanno rotto l’isolamento al quale le politiche neoliberali e le strutture patriarcali comunitarie le relegavano, alla rivendicazione dell’accesso al potere politico e alle residue capacità redistributive dello Stato. La crisi delle ultime settimane ha rimesso in campo il razzismo e il revanscismo antipopolare, i continui tentativi di squalificare le mobilitazioni e la politica dei settori indigeni e campesinos come eterodirette, «barbariche» e vandaliche.

Tuttavia, guardando sotto la superficie, si osserva l’esistenza di una tensione politica che non può essere ridotta alle dinamiche istituzionali e che non può essere sintetizzata solo attribuendo la responsabilità della violenta crisi politica o del golpe all’una o all’altra fazione. La protesta delle ultime settimane, infatti, è stata animata da un soggetto eterogeneo, difficile da inquadrare, che include un’ampia parte dei settori popolari-indigeni. Poco prima che le Forze Armate «suggerissero» a Morales di uscire di scena, Juan Huarachi, leader della Central Obrera Boliviana, uno dei sindacati più rappresentativi del paese ben radicato nelle zone minerarie, aveva chiesto la rinuncia di Morales. Tuttavia, l’esempio forse più significativo dell’impossibilità di dare solo una lettura solo militare o istituzionale alla crisi in atto è l’emergenza potente e simultanea di vari gruppi femministi che, nel pieno della crisi e seguendo l’idea lanciata dal collettivo Mujeres Creando, hanno convocato nelle maggiori città boliviane (La Paz, Cochabamba, Santa Cruz), il Parlamiento de las Mujeres, un’assemblea pubblica che ha come obbiettivo quello di costruire uno spazio politico femminista in cui affrontare la crisi boliviana fuori da ogni semplificazione. In apertura della prima assemblea a La Paz, l’intellettuale aymara e attivista femminista Silvia Rivera Cusicanqui ha invitato a non legittimare con l’idea del golpe il governo di Evo Morales nel suo momento di maggiore declino, invitando piuttosto a «pensare a come questo declino sia iniziato». Questo invito va preso sul serio se si vogliono comprendere le ragioni della crisi boliviana e leggerla nella cornice di un più generale processo di trasformazione della realtà sociale e politica, che ha tratti comuni con tutta la regione sudamericana uscita dal ciclo dei cosiddetti governi progressisti che hanno reagito alle catastrofi del neoliberalismo. Pensare all’inizio del declino dell’esperienza politica di Evo Morales vuol dire pensare la mobilitazione di una parte dei settori popolari-indigeni come risposta alla tensione costante che ha attraversato la Bolivia e le sue forme organizzative a partire dal ciclo di rivolte popolari dei primi anni 2000 e che ha accompagnato il processo di istituzionalizzazione di quelle istanze sociali nel corso del cosiddetto proceso de cambio.

Durante i 14 anni di governo del MAS la valorizzazione dell’identità indigena e della condizione contadina è stata un grande strumento di coesione sociale, ma è progressivamente venuta meno di fronte alla diversità delle condizioni materiali e dei posizionamenti di diversi settori della società boliviana. La politica economica portata avanti dal governo Morales, sotto l’influenza delle teorie del sociologo e vicepresidente Alvaro García Linera, inizialmente prevedeva il re-investimento dei ricavi dell’esportazione di materie prime in un sistema di welfare per integrare la società boliviana in circuiti di produzione e consumo più ampi, favorendo la creazione di una sorta di classe media indigena e campesina in grado di portare avanti la «modernizzazione» dello Stato boliviano e, conseguentemente, di eliminare le dinamiche di potere neocoloniali che per secoli hanno escluso i soggetti indigeni e le classi subalterne dalla partecipazione politica. In 14 anni di governo, questa strategia ha portato a triplicare il PIL pro capite, a diminuire l’inflazione cumulativa annua e a includere nella gestione del potere statale vasti settori popolari che precedentemente non vi avevano accesso. Tuttavia, negli ultimi anni, dopo aver funzionato come un utile strumento politico e discorsivo di coesione, la retorica della descolonizaciòn si è esaurita nella legittimazione dell’uso intensivo delle risorse del sottosuolo e delle monocolture, in particolare la soia, destinate al mercato e all’esportazione. Tra il 2010 e il 2015, l’84% dei ricavi dell’esportazione è stato reinvestito in nuovi progetti estrattivi e in infrastrutture, mentre solo il 16% è stato impegnato in salute, educazione, ricerca ed eradicazione della povertà estrema. Infine, Linera ha anche concordato con la Cina il più grande finanziamento mai accordato allo Stato boliviano (7,5 miliardi di dollari, pari al 17% del suo PIL), finalizzato a un ambizioso programma di megaprogetti nella regione ‒ tra infrastrutture, dighe idroelettriche e miniere ‒ ma totalmente affidato, per la sua esecuzione, ad aziende cinesi.

Queste contraddizioni nella gestione politica del MAS sono diventate evidenti fin dal 2012, quando è stata brutalmente repressa la marcha delle popolazioni indigene del Beni contro la costruzione di una strada – finanziata dalla Brazilian National Development Bank e parte integrante del mega-progetto infrastrutturale dell’IIRSA – che avrebbe dovuto collegare il tropico di Cochabamba con la frontiera brasiliana passando per il territorio indigeno protetto del TIPNIS. Il tema dell’incursione socialmente ed economicamente distruttiva delle multinazionali e delle politiche estrattive è poi tornato a mostrarsi nella sua urgenza in occasione degli incendi in Amazzonia ad agosto 2019, causati dall’autorizzazione al disboscamento tramite incendi controllati nei dipartimenti di Santa Cruz e Beni per lo sviluppo di attività agricole su terreni privati e comunitari. Allo stesso modo, nel Dipartimento di Potosì, una delle regioni più povere della Bolivia, a maggioranza indigena ed ex roccaforte del MAS, negli ultimi anni una serie di conflitti sul progetto statale di estrazione del litio ha portato la destra a guadagnare terreno nella politica locale. Durante le proteste dell’ultimo mese Marco Pumari, esponente del Comité Civico Potosinista e della Central Obrera Boliviana, è stato tra i leader della mobilitazione e si è presentato fin da subito come vicino a Camacho, cavalcando la percezione di abbandono dei gruppi indigeni, minatori e contadini della regione e l’insofferenza per le manovre politiche del MAS a livello locale.

In breve il «modello evista», che è stato a lungo usato strategicamente dai movimenti sociali per conquistare quote di ricchezza e potere politico, si è forzatamente integrato nelle reti del capitale transnazionale diventando un blocco dell’iniziativa politica autonoma capace anche di ricorrere al confronto violento e alla repressione per schiacciarla.Tutto ciò ha portato le organizzazioni sindacali e indigene, anche quelle che in un primo momento avevano fortemente appoggiato il governo Morales e avevano preso parte al proceso de cambio, a dividersi al loro interno tra masistas e organicas, cioè tra favorevoli o contrarie al MAS, per rispondere al restringimento degli spazi di politicizzazione offerti dal modello evista e all’esaurirsi della loro rappresentanza dentro il quadro discorsivo del blocco sociale popolare, indigeno e campesino. In questo senso va letta la mobilitazione dell’ultimo mese da parte di molti di questi soggetti contro la rielezione di Morales: si è trattato del rifiuto complessivo di un modello nel quale il MAS e la figura di Morales si sono imposti come centro istituzionale di mediazione tra il potere politico, i movimenti sociali e i militanti.

La lettura congiunta di questi elementi, quindi, dà la misura della complessità della situazione boliviana nel pieno di questa crisi politica e spiega le ragioni più profonde della protesta, al di là di una semplice difesa delle formalità e regolarità democratiche. Il rifiuto del risultato elettorale ha a che vedere anche con il graduale spostamento dei rapporti di forza avvenuto nella società boliviana nell’ultimo decennio. In primo luogo, l’insistenza di Morales per la propria rielezione ha definitivamente compromesso l’uscita concordata dalla crisi dei primi anni duemila, che si è retta sì su un’alleanza da una posizione di forza con i settori imprenditoriali dell’Oriente, ma allo stesso tempo ha inevitabilmente concesso il tempo e lo spazio grazie ai quali le forze neoliberali e conservatrici hanno potuto costruire la propria controffensiva che ha poi cavalcato l’accusa di «autoritarismo». In secondo luogo, il rifiuto della rielezione di Morales da parte delle fazioni organicas delle organizzazioni sociali e di alcuni collettivi femministi è il punto d’arrivo del progressivo deterioramento delle rappresentazioni e narrazioni che avevano sostenuto la complessa e precaria articolazione di quei rapporti di forza, nonché delle crescenti tensioni tra MAS e movimenti sociali. Infine, il continuo riaffiorare e intrecciarsi in forma inedita di fratture e linee di conflitto etniche, di classe e sessuali ha aperto spazi politici e di antagonismo nuovi dentro le forme «egemoniche».

Da questo punto di vista, il fatto che il deterioramento del proceso de cambio si sia dato spesso nella forma di uno scontro frontale sulle politiche estrattive è significativo. Questo fatto invita sia a ragionare sul dilemma con cui si sono confrontati tutti i governi del «ciclo progressista», sia sulle conseguenze che un ritorno della destra neoliberale e reazionaria in Bolivia può avere sull’intero continente latino-americano. L’estrattivismo sviluppista è la politica che ha permesso di far funzionare l’economia e ridurre la povertà. Allo stesso tempo, tuttavia, per raggiungere questi obbiettivi e creare mobilità sociale, ha necessariamente creato processi di politicizzazione operaia, campesina, femminista e indigena e quindi linee di frattura politica delle quali la destra conservatrice cerca di approfittare per riprendersi un potere che considera un suo monopolio esclusivo. Rimane da capire come i differenti momenti di insubordinazione e politicizzazione avvenuti in questo ventennio si riarticoleranno per non venire fagocitati dal nuovo governo che pretende di utilizzare il loro discontento verso il MAS per eliminare violentemente i residui materiali e simbolici della stagione progressista boliviana.

[1] In Bolivia i Comité Cívicos sono delle organizzazioni politiche presenti nelle maggiori città del paese che riuniscono varie forze istituzionali cittadine, spesso a difesa degli interessi imprenditoriali regionali.

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