mercoledì , 11 Dicembre 2024

New York 03/20. La vigilia dei virus

di FELICE MOMETTI

Sabato, tarda mattinata. La Brooklyn Promenade ‒ location icona di molti film e serie Tv nonché meta turistica ‒ è quasi vuota. Attorno ai tavoli in legno del Brooklyn Bridge Park, oltre il fiume, si intravedono i grattacieli di Wall Street, c’è silenzio. Non ci sono gruppi di amici, famiglie che approfittano della giornata di sole per fare il solito picnic a base di carne alla griglia. Sulla banchina della stazione di Borough Hall, in attesa della metro numero 4 per Manhattan, ci sono pochissime persone ben distanziate. Attraversando questi luoghi sembra che il tempo sia sospeso in un presente dilatato. Si attende l’arrivo della tempesta sotto forma di virus.

Da un paio di giorni ci sono code ai supermercati e, dopo la conferenza stampa di Trump ‒ che ieri ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale ‒, sembra che la gente cammini più velocemente sui larghi marciapiedi di Atlantic Avenue. Non abbiamo le conoscenze e le competenze in infettivologia per sostenere l’una o l’altra scuola di pensiero che puntualmente e un po’ caoticamente la CNN propone a ciclo continuo. Si discute di progressione geometrica dei contagi, di modelli matematici per prevederne il picco, dell’arrivo di un virus ormai indebolito, del negazionismo di Trump, ma si elude una domanda fondamentale: come reagirà New York, la metropoli simbolo del capitalismo contemporaneo? Una costellazione urbana che, allo stesso tempo, racchiude in sé e proietta verso il mondo un immaginario, dei simboli e una realtà dagli effetti performativi.

Le 150 nazionalità del Queens, il 70 per cento di popolazione afroamericana sulla soglia di povertà di Brownsville, i redditi milionari di Manhattan, le comunità del Bronx che parlano solo spanglish, un misto di spagnolo e inglese, non avranno certo lo stesso accesso ai test e alle cure necessarie per combattere il virus. E quindi si teme che all’orizzonte appaia un secondo cigno ancora più nero del virus: una metropoli completamente fuori controllo come nel blackout del 1977. Andrew Cuomo, governatore democratico dello Stato di New York, non ci ha pensato due volte a schierare la guardia nazionale a New Rochelle, piccola città colpita da alcune centinaia di contagi confinante con il Bronx. Più una scelta esemplare che un modello da estendere a tutta New York. Il potere e il dominio non sono esenti da contraddizioni e il «sovrano» che decide non sempre mostra certezze.

Nel 2013 durante la rivolta di East Brooklyn, per l’ennesima uccisione di un giovane afroamericano da parte della polizia, fu sperimentata la «frozen zone». Una specifica zona della città in cui sono stati congelati i diritti costituzionali e le istituzioni rappresentative e tutti i poteri sono stati trasferiti alla polizia. Il coronavirus farà sperimentare uno stato di eccezione puntiforme? La risposta si avrà nel giro di non molti giorni. Ciò che sembra improbabile è l’applicazione sia del modello cinese del Wuhan, con l’intervento di uno Stato centrale autoritario che militarizza il territorio, sia il modello italiano per gradi successivi e ravvicinati di contenimento del virus attraverso il blocco degli spostamenti della popolazione.

Un dato è certo: quello che succederà a New York, il modo in cui si articolerà la governance di una metropoli in profonda tensione inciderà sulla futura produzione dello spazio urbano non solo negli Stati Uniti. I due cigni neri sono in volo, bisogna vedere se e come uno solo o entrambi arriveranno a destinazione.

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