Paolo Virno (14 maggio 1952 – 7 novembre 2025) non ha avuto paura di parlare di controrivoluzione perindicare lo scarto epocale determinato dalla sconfitta operaia dei decenni seguiti alle lotte della seconda metà del secolo scorso. Il suo Diario della controrivoluzione non utilizza un’iperbole abusata, non ricorre a un termine che esaspera l’attitudine reattiva di una restaurazione d’ordine. All’opposto: ha parlato di controrivoluzione per registrare una risposta che si colloca all’altezza dell’orizzonte di fuoriuscita dal rapporto sociale di capitale che quelle lotte avevano potentemente coltivato, “oltre l’epoca del pane”. Una trasformazione complessiva che tuttavia proprio per questo stenta, o forse non riesce, a produrre ordine, riattivando ora modalità feroci che sembrano rimandare indietro a un passato creduto superato.
Ma non di questo si tratta e a nulla serve rialzare vecchie bandiere, vecchie parole d’ordine, vecchie rivendicazioni, già consunte dalla critica pratica delle lotte. Con questa consapevolezza Virno ha portato inuno scenario nuovo e diverso il proprio percorso, la riflessione e l’esperienza militante di quegli anni, senza autocritici aggiustamenti consolatori e senza perdere il punto. Il carattere moltitudinario del lavoro vivo che ridetermina la nozione di classe senza facili contrapposizioni, l’impossibilità di ridurre a lavoro semplice il lavoro intellettuale non per farne una teoria della stratificazione, ma per aprire un discorso sulla forma attuale della cooperazione sociale e del suo dominio capitalistico, la percezione della fruibilità capitalistica delle differenze che rischiano la feticizzazione identitaria: sono già i temi di Grammatica della moltitudine, un libro del 2001 che è stato non un punto d’arrivo, ma di partenza.
Lo scavo portato avanti negli anni successivi mostra quanto poco avesse in comune con il post-modernismo di certi discorsi di movimento. L’intreccio fra riflessione filosofica e riflessione politica degli ultimi decenni, dove la connessione non significa mai sovrapposizione, costituisce una sorta di programmatico “un passo indietro, due in avanti”, dove fermarsi a capire non è stato mai surrogato dell’agire, ma sua parte integrale. Di lui piangiamo la perdita, grati delle molte sollecitazioni e anche delle inquietudini che ci ha regalato. Ripartire da queste è ciò che gli dobbiamo.