venerdì , 19 Aprile 2024

Il governo della mobilità 3. La disfatta dell’Europa dei diritti e la libertà condizionata di movimento. Parte II

di GABRIELLA – Leeds Solidarity Network

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Government of MobilityIIIPubblichiamo la seconda parte dell’analisi sulle trasformazioni del welfare e sul governo mobilità in Europa proposta da Gabriella del Leeds Solidarity Network. La prima parte era uscita con il titolo: Il Regno (Unito) del workfare contro il welfare per i migranti.

→ Vedi anche Il governo della mobilità #1: Libertà condizionata e mobilità vigilata

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Il modo in cui la Germania e le Istituzioni europee stanno rispondendo alla retorica del «turismo del welfare» è decisamente ipocrita. L’ipocrisia dell’UE emerge nel doppio registro adottato in molte delle sue ultime dichiarazioni e memoranda che sottolineano, da un lato, la rimozione delle barriere al libero movimento dei lavoratori e, dall’altro, rassicurano gli Stati membri della legittimità del loro diritto a proteggersi dall’abuso dei loro sistemi di welfare. Il Memorandum della Commissione Europea (25 settembre 2014) conferma il fatto che dopo tre mesi coloro che sono «inattivi», compresi gli studenti e i pensionati, devono provare di avere sufficienti mezzi finanziari per mantenersi altrimenti diventano un «fardello irragionevole» per il paese ospitante che potrebbe mettere fine al loro diritto di residenza.

Proprio la Germania, il presunto baluardo dei principi cardine dell’UE, con i suoi recenti interventi sulla limitazione dei diritti dei migranti «inattivi» incoraggia a spazzare via i principi della libertà di movimento nella loro componente sociale. Queste tendenze sono state chiaramente espresse recentemente dalla Corte Europea di Giustizia nel caso di una cittadina rumena alla quale è stata negata, assieme a suo figlio, l’assistenza e il contributo sociale per la casa e per i costi di riscaldamento. Questa sentenza implica il rafforzamento della legittima possibilità di rifiutare i benefici di welfare a coloro che non forniscono prove dei loro reali tentativi di «integrarsi» nel mercato del lavoro; si conferma quindi il principio di punire il «turismo del welfare». A Dano, la cittadina rumena, il diritto all’assistenza è stato negato perché è stata ritenuta responsabile di essersi recata in Germania solo per ottenere l’assistenza sociale e senza avere le risorse sufficienti per pretendere il «diritto di residenza». Questa logica circolare tra residenza e accesso ai diritti ricorda i tipi di «condizionalità» legati al permesso di soggiorno dei migranti non comunitari, che devono mostrare di essere autosufficienti o di avere un contratto di lavoro per entrare nel paese e che non hanno diritto ai fondi pubblici.

Mentre con questa sentenza la la Corte Europea di Giustizia ha confermato il principio dell’occupabilità come condizione per ottenere diritti di welfare, ci sono ancora alcune tensioni che attraversano le diverse retoriche e agende politiche dei vari Stati membri. La sentenza potrebbe essere interpretata come una vittoria per Cameron perché sostiene l’introduzione di ulteriori misure per perseguire gli abusi da parte dei migranti comunitari. Eppure, essa non fa sorgere un dibattito più ampio sulla riforma della libertà di movimento dal punto di vista tedesco. Per capire cosa sta succedendo nell’emergente governo della mobilità dal punto di vista dei due principali paesi di destinazione possiamo pensare a una differenziazione tra la libertà di movimento con trattamento uguale solo per i lavoratori (Germania) e la libertà di movimento ma senza accesso ai diritti sociali nemmeno per i lavoratori (Gran Bretagna). Mentre gli inglesi, infatti, spingono per la revisione del sistema esistente a livello europeo – inclusa la disponibilità di benefici per i migranti comunitari che stanno lavorando ‒ il diritto dei lavoratori a un uguale trattamento rimane un caposaldo per gli Stati più europeisti come la Germania.

Inoltre, mentre in seguito alla sentenza sul caso di Dano l’accesso dei lavoratori all’assistenza sociale e alla sicurezza sociale sembra essere salvaguardato sulla carta, i regolamenti dell’UE stabiliscono delle differenze tra categorie di lavoratori, mentre alcuni, come i «lavoratori stagionali» (cioè i lavoratori che solo per poco tempo lavorano in un altro Stato) e i lavoratori a contratto utilizzati tramite appalti pubblici restano esclusi da questi diritti «uguali». In questi casi il principio di uguale trattamento è ignorato sulla base del loro status speciale come dipendenti temporanei e intermittenti.

In ogni caso, sia in Germania sia in Inghilterra il principio dell’uguale trattamento con i cittadini del paese in termini di accesso al welfare è ora ufficialmente sotto attacco per quei migranti che non provano la loro intenzione di lavorare o non possono mantenersi. Dopo tutto, il principio dell’uguale trattamento era già stato reso dipendente dal diritto di residenza e questo può anche essere revocato da uno Stato membro quando un cittadino diventa un fardello per lo Stato. Questo «diritto» di espellere è stato esercitato ampiamente ad esempio in Belgio – dove più di 7000 migranti sono stati espulsi negli ultimi due anni. La possibilità dei governi dei paesi della EU di espellere e di deportare è ora estesa ai migranti comunitari e sembra essere ulteriormente rafforzata nel clima attuale. E’ preoccupante vedere che ulteriori restrizioni del governo della Gran Bretagna affermano che «i cittadini della UE che dormono in strada o mendicano saranno deportati e sarà loro vietato il rientro per 12 mesi». Questo scenario diventerà sempre più realistico considerando che da Aprile 2014 i migranti comunitari sono stati banditi dai sussidi per l’alloggio.

Dai controlli sulle migrazioni alle sanzioni del welfare

È quindi chiaro che uno Stato membro spinge per impedire «la libertà di movimento» in quanto la sicurezza sociale e l’assistenza sociale hanno un impatto diretto sulla posizione dei migranti comunitari nel mercato del lavoro e indirettamente sul loro potere di negoziazione: coloro che non possono fare affidamento sullo stesso livello di assistenza sociale dei lavoratori indigeni saranno inevitabilmente spinti ad accettare più facilmente lavori con bassi salari e lavori temporanei e flessibili. Il problema chiave qui è la stessa definizione di chi è economicamente attivo o inattivo in un contesto dove la disoccupazione diventa sempre più intermittente mentre i livelli salariali (soprattutto quelli associati con il tipo di lavoro che i migranti di solito fanno) sono incapaci sempre più di consentire un livello di vita decente. I criteri di esclusione in Gran Bretagna (e sempre più della UE) nel regime di workfare sembrano essere più rigidi proprio per quei cittadini UE che non sono lavoratori, cioè proprio quelli che dovrebbero ricevere benefici sociali.

Ciò che sta dietro alla logica neoliberale del governo inglese della «libertà economica» applicata al campo del welfare e della migrazione è in realtà la coazione al lavoro precario. Sia migranti sia autoctoni sono sottoposti a un regime di controllo che accresce la precarizzazione del lavoro e che forza gli individui ad accettare lavori con bassi salari e precari. Dal 2012 sono stati imposti criteri più rigidi per coloro che richiedono sussidi e una serie di «punizioni» se sono scoperti a «fregare» il sistema. Coloro che fanno domanda sono puniti con il fatto che viene loro tolta una parte o tutto il loro sussidio per un certo periodo a seconda della gravità dell’«offesa» per aver infranto la Jobseeker’s Allowance e la Emplyment and Support Allowance. Mentre il criterio per ottenere benefici è di dimostrare ogni settimana che stanno cercando attivamente un lavoro, in molti casi le persone sono punite semplicemente perché saltano un appuntamento al job center, perché non completano un formulario o perché cominciano un lavoro volontario e non riescono a essere presenti a tutti gli incontri (questo è buffo considerando che il lavoro volontario è spesso incoraggiato come un modo per rendersi più «occupabili»!) o perché non partecipano a un corso di formazione. La natura coercitiva e disciplinante di un tale regime è spietata per coloro che cercano lavoro: la riduzione o il completo ritiro dei benefici possono essere applicati in casi in cui il richiedente ha lasciato il lavoro volontariamente, l’ha perso per cattiva condotta, non ha accettato un’offerta di lavoro, non ha dato la disponibilità ad accettare un lavoro o a ricercarlo attivamente.

Gli unici casi in cui la sanzione non è applicata sono quelli in cui si può dimostrare che si hanno avute «buone ragioni» per giustificare l’azione che ha portato alla sanzione. Ma la natura di queste «buone ragioni» non è definita dalla legge. Mentre questo teoricamente consente qualche flessibilità nel giudicare i casi individuali in base alle varie circostanze (ad esempio disabilità, salute mentale, il ruolo in famiglia ecc.), c’è una crescente preoccupazione perché l’imparzialità degli sportellisti può essere ostacolata dal fatto che sono messi sotto pressione e sono minacciati di provvedimenti disciplinari se non tolgono abbastanza persone dai registri e non aumentano il numero di sanzioni. Se a questo si aggiungono le domande sempre più dettagliate a cui i migranti sono sottoposti a causa del loro status specifico, è facile immaginare che migranti recentemente arrivati e con difficoltà linguistiche siano i più esposti alle sanzioni. La concessione differenziale di indennità di disoccupazione costituisce, così, un meccanismo centrale del «governo della mobilità».

Dai margini del governo della mobilità. Un terreno potenziale di unità?

La figura del migrante «occupabile» che può esercitare il suo diritto alla libertà di movimento solo nella misura in cui dimostra la sua capacità di «integrarsi» nel mercato del lavoro e non essere un fardello per lo Stato ospitante condensa le attuali modalità di controllo della mobilità del lavoro e del management del diritti di welfare. Questa logica rende la mobilità e il diritto di residenza dipendente dalla possibilità dei migranti di lavorare, se non sono in possesso di un contratto di lavoro. Ciò rispecchia il vecchio principio della dipendenza creato dal sistema del permesso di soggiorno legato al contratto di lavoro che a lungo è stato applicato a migranti non europei. Cosa significa un’«autentica possibilità di trovare lavoro» dopo tre mesi che si ricevono benefici, se non che alla persona è già stato offerto un lavoro? Nel migliore dei casi, la definizione ampia di un’«autentica possibilità di trovare lavoro» come condizione per ottenere lo status di jobseeker in vigore dal novembre del 2014 apre un ampio margine di interpretazioni a sfavore dei richiedenti sussidi che solo i lavoratori del job center particolarmente illuminati o una decisa critica del sistema di workfare possono contrastare.

Le regole più dure per i migranti che vogliono avere accesso ai benefici devono essere lette alla luce del nuovo clima anti-immigrazione e del più ampio attacco ai richiedenti welfare nell’estensione del regime delle sanzioni. L’idea di doversi meritare l’indennità che caratterizza il sistema inglese di workfare è trasversale alla differenziazione della cittadinanza, in quanto colpisce sia i migranti sia i non migranti. In effetti la nozione di un autentico jobseeker è parte costitutiva di quella condizione di «occupabilità» usata ampiamente per obbligare le persone al lavoro precario. Eppure è esattamente in questo incrocio tra strategie di controllo delle migranti e del welfare che sono emerse nuove opportunità di coordinamento tra diversi gruppi che lottano per i diritti di migranti e disoccupati.

Il movimento «boicotta il workfare» in Gran Bretagna sta crescendo e si sta sviluppando in una varietà di azioni dirette, di campagne, di iniziative di solidarietà per opporsi al sistema che attacca coloro che sono già in una posizione altamente vulnerabile. Sta anche costruendo una narrazione alternativa per contrastare l’idea che coloro che non riescono a lavorare sono «senza valore» e non si meritano l’accesso al welfare e sottolineare, piuttosto, che le persone che ricevono benefici sono spesso coloro che svolgono lavoro riproduttivo. Molti gruppi di rivendicazione del welfare attraverso il paese mostrano come sia possibile costruire solidarietà attraverso reti di supporto e denunciano gli effetti devastanti che le misure punitive e oppressive del regime di workfare hanno sulle persone isolate, costringendoli alla povertà e a volte anche alla morte.

A Leeds, nel nord-ovest dell’Inghilterra, un gruppo chiamato Hand Off Our Homes nato per contrastare i tagli e la «bedroom tax» per coloro che richiedevano sussidi abitativi, ha cominciato una campagna contro le sanzioni nel welfare che ha come obiettivo anche quello di coinvolgere i gruppi pro-migranti che sono preoccupati dal crescente clima di razzismo che alimenta la discriminazione contro i migranti richiedenti benefici. Allo slogan di «welfare per tutti» gli attivisti del Leeds Solidarity Network, una coalizione di diversi gruppi che lavorano attorno al welfare e ai diritti dei migranti, stanno anche mettendo in questione il fatto che i migranti siano presi come capro espiatorio, in un contesto in cui i discorsi elettorali e nei media alimentano la tensione sociale. Il loro sforzo è di evidenziare le condizioni che accomunano migranti e lavoratori poveri non migranti, mostrando che resistere ai costanti attacchi del welfare e combattere per rafforzare i diritti sociali e del lavoro, piuttosto che opporsi alla migrazione, è la via per combattere la precarietà e il regime attuale di controllo del welfare e delle migrazioni, in Gran Bretagna come in Europa.

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