«Noi sappiamo che cos’è una donna». Così recita uno striscione retto da un gruppo di signore immortalate sulla homepage dell’associazione For Women Scotland, che ha fatto appello alla Corte suprema del Regno Unito per garantire l’applicazione dell’Equality Act in favore delle «donne biologiche». Tra i cartelli che queste signore tengono in mano, pieni di definizioni a loro evidentemente chiare tra cui «grandi gameti» e «essere umano femmina adulto», ne spicca uno particolarmente inquietante, su cui c’è scritto «immutabile». Ciò basta a stabilire che queste signore hanno poco a che fare col femminismo. Per il femminismo, infatti, la domanda «che cos’è donna?» ha innescato un movimento sociale e la pratica di un discorso politico il cui primo gesto è stato affermare che la biologia non stabilisce il destino, che vincolare la definizione del concetto al possesso di «grandi gameti» è un atto del dominio patriarcale, che la risposta alla domanda non è data una volta per tutte e sono proprio le donne, con le loro pratiche singolari e collettive, a metterla in movimento.
Per la sua immobilità e nonostante i sorrisi, la foto di For Women Scotland è il misero e triste sfondo contrapposto alle piazze britanniche che si sono riempite per schierarsi dalla parte delle persone trans che subiranno gli effetti concreti della sentenza del 16 aprile e della politica reazionaria che essa legittima. Per confrontarsi con il suo significato, però, bisognerebbe andare oltre lo scontro binario e tutto sommato rassicurante fra femministe transescludenti e transfemministe e farsi alcune domande. La sentenza va letta nel suo campo, che è quello del diritto, ma pone problemi che vanno oltre il diritto e riguardano la politica femminista e transfemminista, le parole che rendono possibile l’iniziativa, le pratiche della sua organizzazione.
Definizioni
La questione sottoposta da For Women Scotland alla Corte è se l’Equality Act del 2010 tratti una donna con un certificato di riassegnazione di genere «come una donna a tutti gli effetti nell’ambito delle sue disposizioni» o se invece, quando parla di «donna» e «sesso», faccia solo riferimento alla «donna biologica» e al «sesso biologico», come loro ritengono debba essere. Questa questione è stata sollevata in relazione alle politiche di pari opportunità (affirmative actions) previste nel 2018 da un atto del Parlamento scozzese per garantire l’inclusione di «persone con caratteristiche protette» negli uffici pubblici del paese.
Appellandosi a diverse autorità politiche e giudiziarie, For Women Scotland ha quindi contestato l’interpretazione estensiva del «sesso» come «caratteristica protetta» da parte del Parlamento scozzese, che aveva esplicitamente incluso nel sistema delle quote riservate alle donne anche le persone «che stanno vivendo come donne e si propongono di sottoporsi, si stanno sottoponendo o si sono sottoposte a un processo (o parte di un processo) per diventare femmine». Fino a questo momento, tutte le risposte ricevute da For Women Scotland hanno confermato quest’interpretazione estensiva, che è stata contestata anche da alcune associazioni di donne lesbiche, preoccupate di essere accusate di discriminazione se rifiutano di ammettere come membri anche le donne trans. Ora la Corte suprema ha invertito la rotta.
Il principio guida della sentenza è che, nell’interpretazione e applicazione di qualsiasi legge, i termini usati devono avere un significato costante e prevedibile, cioè che non possono avere due significati diversi nello stesso testo di legge. L’argomentazione della Corte si svolge tenendo conto di altre leggi statutarie – come il Sex Discrimination Act del 1975 e il Gender Reassignment Act del 2004 – e delle sentenze relative alla loro contestazione o applicazione emesse in precedenza in sede giudiziaria. Il punto dirimente, dunque, è che l’Equality Act, parlando di discriminazioni basate sul sesso, in alcuni articoli fa riferimento alla gravidanza, alla maternità e all’allattamento al seno. Dal momento che si tratta di prerogative del sesso femminile, ovvero delle donne biologiche, l’unica interpretazione univoca, prevedibile e costante del termine sesso può essere quella che lo identifica con il sesso biologico.
L’ultima parte della sentenza chiarisce che nell’Equality Act ci sono due diverse caratteristiche protette, il «sesso» e la «riassegnazione di genere», e che la sentenza non ridurrà le tutele nei confronti delle persone trans, ma anzi permetterà loro di beneficiare anche di alcune protezioni basate sulla caratteristica protetta del sesso, come quelle dedicate a maternità e gravidanza che sarebbero così estese anche agli uomini trans. Secondo la Corte, perciò, la sentenza non comporterà la decadenza della protezione prevista dall’Equality Act per coloro che hanno effettuato una transizione di genere, anche se non è chiaro quali conseguenze avrà su quanto stabilito dal Gender Reassignment Act. Quello che certamente cambia è che, nella contabilità delle quote riservate, saranno considerate solo le «donne biologiche» e non quelle «certificate», che le associazioni lesbiche potranno mantenere la loro stretta osservanza separatista e che – questa la cosa più rilevante – l’intera politica degli spazi (dalle toilette alle scuole, dalle carceri agli ospedali) e dei servizi organizzati secondo criteri di separazione sessuale (come una perquisizione poliziesca) dovrà essere adeguata alla sentenza, con effetti inevitabili e negativi sulle condizioni in cui le persone trans potranno fruirne.
Al mercato dei diritti
La Corte suprema ha cercato di delimitare in maniera molto precisa il campo della sentenza, affermando che questa non propone una generale interpretazione dei termini «sesso», «uomo» o «donna», ma soltanto di stabilire il loro significato all’interno e per i fini dell’Equality Act. Prendendo sul serio questa affermazione, bisogna però riconoscere che per godere della «protezione» del diritto è necessario che chi lo amministra abbia il potere di definire i termini con cui lo applica, cioè di assegnare un significato univoco alle parole. Sotto questo aspetto, allora, la sentenza diventa l’occasione per fare i conti con le cosiddette identity politics, che sono il terreno su cui questo scontro si è consumato. Qui la posta in gioco non è l’affermazione di un principio universale di uguaglianza, ma il riconoscimento della propria differenza dal quale dipende, molto concretamente, la gestione di quel che resta del welfare state. Stiamo parlando cioè della determinazione dell’età pensionabile, dell’assegnazione di case popolari o di posti nei dormitori pubblici, di compensazioni salariali o di quote riservate nelle assunzioni.
Diviene allora chiaro che non è sufficiente affermare che non dobbiamo mettere in opposizione i diritti delle donne e quelli delle persone trans, perché sono proprio le identity politics neoliberali a fare dei diritti un terreno di competizione, definendo e frammentando le identità che possono ottenerli e sancendo la fine di ogni prospettiva universalistica in cambio di compensazioni che possono forse risarcire le disuguaglianze, ma non modificano i rapporti sociali che le producono. Così si spiega la frantumazione dell’acronimo LGBTQ, da cui le associazioni coinvolte hanno espunto le identità Trans e Queer: queste, infatti, mettono in questione il binarismo necessario a definire l’orientamento sessuale di lesbiche, gay e bisessuali, e quindi minano i presupposti della loro riconoscibilità giuridica e delle politiche affermative a loro vantaggio. Negli stessi termini si spiega la difesa delle quote riservate alle donne biologicamente certificate da parte di associazioni come For Women Scotland, che però restano allegramente indifferenti al fatto che ci sono interi settori già ‘riservati alle donne’ secondo una divisione sessuale del lavoro che obbliga milioni di loro a svolgere lavori di servizio in condizioni di sfruttamento che nessuna politica dell’identità potrà mai risarcire.
Se partiamo dalla posizione di queste donne al lavoro, diventa anche necessario prendere sul serio il problema della biologia. Questo non si risolve negandola e nemmeno appellandosi alla canonica distinzione tra sesso e genere, ma riguarda le condizioni materiali in cui la differenza sessuale è vissuta e le posizioni sociali che impone a milioni di individui nati femmina, come pure le loro lotte. L’identificazione delle donne con il sesso non esiste solo se Donald Trump la decreta con un ordine esecutivo, o nella paranoia di alcune donne e molti uomini che queste misure dovrebbero mettere al sicuro dalla minaccia di una destabilizzante libertà sessuale. L’identificazione delle donne con il sesso vive nelle innumerevoli politiche della natalità che si affermano a ogni latitudine e comandano la famiglia come dovere, si trova nella sistematica svalutazione salariale del lavoro femminile, agisce nella negazione della libertà di abortire che pretende di assoggettare la sessualità delle donne e la loro capacità procreativa al dominio maschile e alla riproduzione del capitale, persiste nella violenza privata e istituzionalizzata che punisce ogni loro atto di insubordinazione al patriarcato.
D’altra parte, fare i conti con la posizione del corpo sessuato significa riconoscere che ci sono donne che scelgono di usarlo per essere madri. La mistica della maternità di alcune femministe di queste latitudini non dice niente della loro lotta quotidiana per il salario o per il rinnovo di un permesso di soggiorno per sé e le proprie figlie e figli, né la maternità come unica identità che permette di accedere al welfare attenua il peso del doppio carico di lavoro con cui quelle madri fanno i conti. Togliere agli uomini e allo Stato, ai giudici e ai padroni, il potere di stabilire che cosa è donna e farne il significante di una liberazione non può portarci a cancellare il significato sociale del corpo sessuato. Negare la biologia come destino è parte di una politica femminista perché si oppone alle condizioni patriarcali e razziste in cui le donne sono sfruttate, dentro e fuori casa, così come alle condizioni sociali in cui opera il dominio maschile. Proprio per questo, il femminismo non può ridurre il suo gesto alla rivendicazione di una sovranità soggettiva sul proprio corpo, o all’invocazione del diritto personale a gestire il proprio utero, senza che la giuridificazione del suo linguaggio e l’individualizzazione della libertà che reclama soffochino il suo portato sovversivo.
La domanda aperta
Nonostante le dichiarate intenzioni della Corte suprema, la sua sentenza non resta confinata al diritto, avrà effetti materiali e simbolici sulla vita di donne e uomini trans – anche se non potrà cancellare la loro esistenza, né la loro pretesa di libertà – e proprio per questo ha suscitato le più sguaiate celebrazioni reazionarie. Prendere le distanze da quelle che possiamo chiamare bio-femministe, che stanno irresponsabilmente o apertamente prestando il fianco alla reazione patriarcale è politicamente necessario. Ciò significa stare dalla parte delle persone trans e di ogni donna che si scontra con gli effetti materiali e simbolici del corpo in cui è nata. Ma schierare sesso e genere in un fronte unito contro un comune nemico, il patriarcato e le destre trionfanti, non basta. La logica del nemico, che la Terza guerra mondiale sta imponendo inesorabilmente, non risponde al problema di costruire la parte amica, e nemmeno lo fa invocare l’intersezionalità come pratica da manuale per la militante femminista o transfemminista. Dovremmo almeno fare i conti con il modo in cui le politiche dell’identità hanno dato forma ai discorsi e alle pratiche dei movimenti, non solo di quello femminista.
Quelle politiche hanno sostituito la forza collettiva di cui questo è stato capace nelle sue molteplici emersioni planetarie con l’immaginario delle identità sotto assedio, sulle quali incombe una minaccia costante di violazione e che sono per questo bisognose di «protezione» e di spazi separati e più sicuri, in cui ogni conflitto finisce per essere anch’esso una minaccia, anziché la condizione per mettere in connessione le nostre differenze. Bisogna scegliere, in altri termini, se lottare per la propria identità assoluta, per la sua definizione incontrovertibile, praticando la competizione neoliberale per i diritti, oppure aspirare ancora a rovesciare l’ordine che pretende di dire, una volta per tutte, «che cos’è donna».