lunedì , 7 Ottobre 2024

Il pensiero decoloniale: recuperi dal passato o poesia dal futuro?

di MICHELE CENTO

Decolonization is not a metaphor

La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento (R. Char)

Un recupero e un taglio. È in questo duplice gesto che per Salvo Torre risiede la proposta de Il Pensiero decoloniale, titolo del suo ultimo libro. Più precisamente, si tratterebbe di recuperare ‘una posizione perduta’, un mondo indigeno cancellato dalla modernità coloniale ed europea. Il che richiederebbe di praticare un taglio netto contro questa modernità, affinché sia possibile costruire ‘un tempo e uno spazio a venire’. Poiché questi sarebbero anche il tempo e lo spazio della politica e Torre non fa mistero dell’impatto che il dibattito decoloniale ha sulle ‘rivendicazioni politiche [e] l’azione dei movimenti sociali’, questo libro ci riguarda. 

La colonia si è fatta mondo?

Mai come negli ultimi mesi il riferimento al decoloniale ha occupato il discorso del movimento. La violenza genocida mossa da Israele contro il popolo palestinese ne è il motivo più immediato. Il terrore perpetrato dai coloni israeliani, il regime di cittadinanze graduate che sconfina nell’apartheid per i non ebrei, le operazioni di ‘polizia’ dell’IDF in Cisgiordania parlano, certo, la lingua della colonia. Il decoloniale fa però qualcosa di più: legge il genocidio in corso a Gaza nel quadro di un progetto di colonialismo di insediamento lungo un secolo e mezzo, che farebbe degli ebrei poi israeliani un popolo indistintamente composto da coloni senza una metropoli.

Il decoloniale opera dei tagli, ma è evidentemente meno abile con le distinzioni. Preferisce, invece, maneggiare entità omogenee, in Palestina come altrove. Il decoloniale, ci dice Torre, è assurto oggi a ‘cultura politica planetaria’ in cui, in diversa misura, confluiscono le lotte anticoloniali, femministe ed ecologiste. È l’effetto di un processo che Torre descrive con l’immagine della colonia che si fa mondo. Un’immagine suggestiva ma, a sua volta, omogeneizzante. Perché, da un lato, è vero che la colonia è giunta fino a noi sotto forma dei regimi speciali applicati a donne e uomini migranti e del moltiplicarsi dei processi di marginalizzazione che colpiscono figure in vario modo subalterne, ma nelle campagne, nelle fabbriche e nelle case dell’Occidente i ‘subalterni’ non sono mai mancati.

Non è chiaro neppure perché leggere indistintamente tutte le gerarchie sociali nella chiave decoloniale dell’alternanza reattiva tra oppressione e resistenza. La colonizzazione non spiega tutti i rapporti di oppressione che si danno in una società. Né può spiegarli sulla base di uno schema interpretativo in cui c’è un centro indistinto che opprime e una periferia altrettanto indistinta che subisce ed eventualmente resiste/reagisce. La logica decoloniale dell’omogeneizzazione continua così a lavorare. Tuttavia, l’esplodere della faglia post-coloniale, il carico di conflitti e disordine che si porta dietro, ha definitivamente logorato tale schema, che per altro non si è mai dato in questa forma neanche all’apice del colonialismo. Per ridargli lustro non basta muoverlo sul mappamondo e trapiantarlo nelle vecchie società coloniali in nome della colonia che si fa mondo.

In un mondo in cui l’egemone latita e le ‘periferie’ non stanno al loro posto, rimane però la promessa di liberazione espressa dalle lotte anticoloniali. E questa promessa ancora ci parla, se non altro perché è rimasta in larga misura inevasa. Di tale promessa il decoloniale vuole farsi una voce. Ma in che modo? Sotto forma, ci dice Torre, di un ‘pensiero della crisi’ che punta a decolonizzare la ‘geocultura’ occidentale dominante, ovvero l’insieme delle coordinate epistemiche con cui guardiamo al mondo. È qui che si consuma il taglio con l’Europa ed è su questo punto di cesura che il decoloniale ci riguarda direttamente.

Secoli di colonialismo ci hanno d’altra parte abituato all’idea che il margine avrebbe seguito la via occidentale all’emancipazione: che Stati, diritti, industrie, operai, partiti e sindacati fossero tutto ciò di cui il Sud globale aveva bisogno e si dà il caso che corrispondesse proprio a quello che avevamo da offrire. Di questa pretesa non si sono nutriti solo i cantori della modernizzazione e dello sviluppo, ma anche i nostri movimenti. Quante volte si è guardato con i paraocchi a insorgenze che, ai confini di quello che ci sembrava il mondo, non si manifestavano secondo il decalogo del bravo marxista?

Il pensiero decoloniale, al contrario, è il rifiuto di guardare all’Occidente in cerca del suo presunto sguardo liberatore. Per parafrasare Walter Mignolo, tra i fondatori del pensiero decoloniale, come ci rapportiamo ai dannati della terra quando si prendono il centro della scena? Ecco una domanda che non può essere elusa e che il decoloniale ha il merito di mettere sul tavolo. Al tempo stesso, la risposta non può stare in una politica del posizionamento che si serve di parole come autodeterminazione e privilegio per risarcire una storica condizione di subalternità che, oltre a ridurre voci diverse a mera espressione della colonialità del pensiero bianco, conferma paternalisticamente quella subalternità che si avrebbe la pretesa di risarcire.

Il pensiero decoloniale di Salvo TorreAlla colonialità più che alle colonie guarda, d’altra parte, il pensiero decoloniale. Colonialidad del poder è non a caso il titolo del saggio scritto nel 1992 dal sociologo peruviano Anibal Quijano con cui, ci ricorda Torre, prende avvio il decolonial turn. La colonialità, in quest’ottica, fonda la modernità facendo della razionalità europea la ragione universale di fronte alla quale tutte le culture e identità devono piegarsi o sparire. La colonialità/razionalità europea definisce così anche il suo Altro, il soggetto dimezzato su cui grava il marchio della razza, segno della sua inferiorità costitutiva e canone su cui le altre subalternità, a partire dal genere, vengono ricalcate.

Il rischio di un tale approccio è che si produca un ordine gerarchico delle subalternità, che dispensa identità fisse e statiche sulla base di una minore o maggiore alterità dalla razionalità/colonialità occidentale. Poco importa, poi, se questo significa trascurare la subalternità di chi non è sufficientemente Altro, ma è nondimeno sfruttato e oppresso. In questo senso, il decoloniale consolida quelle forme di intersezionalità che privilegiano le identità e in cui la classe tende a scomparire via via che si fa più bianca e occidentale. Il risultato è un’immaginazione politica basata su coalizioni e alleanze tra identità ‘altre’, tenute insieme dalla contrapposizione a un Occidente omogeneo e compatto, speculare all’indivisibilità del mondo coloniale, e unanimemente votato a perseguire la violenza della sua ragione.

Perdi il passato

Fin qui il taglio con l’Europa e l’Occidente. Ma per recuperare che cosa? La ‘posizione perduta’, a cui allude Torre, è una rappresentazione al passato di un’autenticità costruita nel presente e che, ammesso sia mai esistita, non può più essere riportata in vita dopo quella che Fanon chiamava la ‘ferita assoluta’ della violenza coloniale. Come è possibile, si chiedeva Gayatri Spivak, domandare all’‘abitante del Terzo Mondo’ di parlare come ‘rappresentante autentico’ della sua tradizione, quando quella tradizione è ‘perduta’ o, tutt’al più, gonfiata da proiezioni altrui? La ricerca della posizione perduta insita nel decoloniale condiziona il processo politico che punta ad aprire, privilegia la riabilitazione e riesumazione del passato rispetto alla ricerca di ciò che non c’è e non c’è mai stato, rischia di volgere la promessa di liberazione contenuta nelle lotte anticoloniali in una politica del risarcimento.

A rappresentazioni mitiche e proiezioni (europee, troppo europee), Spivak contrappone l’urgenza – che era stata anche l’urgenza di Marx – di una rappresentazione storica per decostruire le mitologie delle origini e delle comunità. Nel farlo, mette in guardia dal nativismo nostalgico, dall’idea cioè che ‘del margine può parlare solo il marginale’, come se il margine fosse un tutto indistinto, immune da gerarchie, divisioni e lotte al suo interno e come se il maschio subalterno non avesse parlato per secoli in nome della donna subalterna, senza che l’uomo bianco dovesse prestargli la sua indubbia expertise. Né d’altra parte sono stati rari i casi nella storia in cui vere e proprie alleanze si sono stipulate tra maschi colonizzatori e maschi colonizzati per stringere il dominio patriarcale sulle donne indigene.

Non si tratta evidentemente di sottovalutare l’impatto che la colonia ha sullo sviluppo del patriarcato (come su quello del capitalismo), ma semmai di riconoscere che proprio la colonia mostra la capacità del patriarcato di attraversare la linea della razza. Non basta allora presupporre con Rita Segato il patriarcato a bassa intensità delle comunità indigene e dei villaggi-mondo, così come non basta la critica di Maria Lugones a Quijano per non aver colto il fondamento coloniale della categoria di genere, se non altro perché il rischio è di fare del patriarcato un sottoprodotto del colonialismo. Lascia allora più di una perplessità la sintesi proposta da Torre quando fa del decoloniale lo stadio avanzato del post-coloniale, senza considerare gli scarti che hanno segnato quel passaggio. Il post-coloniale si è insinuato nelle autonarrazioni dell’Occidente, le ha criticate, irrise, contaminate, ha usato le ‘sue’ parole per scagliargliele contro e, in tal modo, ha dato spazio a storie che altrimenti sarebbero rimaste senza voce. Almeno nelle sue versioni più avvertite non ha fatto però sconti a quelle storie, non ha cioè taciuto l’oppressione dentro le comunità indigene, né ha ceduto a rappresentazioni omogenee dell’Occidente, come spesso il decoloniale tende invece a fare.

Un linguaggio senza diritti di proprietà

L’originalità della proposta decoloniale sta per Torre nel collocarci fuori dal tempo che abbiamo conosciuto, in ‘un tempo altro da quello della modernità capitalista’. Un pensiero incoraggiante, certo, ma che rimane invischiato in dicotomie precostituite, che non contribuiscono a mettere in movimento posizioni che, gravate dall’oppressione o beneficiate dal privilegio, finiscono per non poter parlare tra loro se non di se stesse. Ci sembra più interessante considerare il decoloniale come qualcosa che ci inchioda a guardare quei punti dell’oppressione che dalla nostra posizione europea rischiano di rimanere invisibili. C’è chi nel movimento ritiene che assumere uno sguardo decoloniale comporti costruire ‘ponti e traduzioni’. Niente di più vero. A patto, però, di chiarirci su cosa significa traduzione.

Tradurre non è sovrascrivere discorsi e pratiche altrui: non basta evocare la ‘Palestina globale’ o la ‘Resistenza’ – e perfino il suo asse – per mettere insieme i repressi e gli oppressi nelle piazze italiane, figuriamoci per sciogliere le contraddizioni che esistono nelle lotte a ogni latitudine. Né è la resa letterale della lingua ‘originaria’, la restituzione di parole che non ci appartengono e che quindi dobbiamo solo ascoltare e riprodurre fedelmente. Tradurre è, piuttosto, sfatare il mito secondo cui il linguaggio appartiene a qualcuno e che questi, singolo o collettivo che sia, ne è il titolare esclusivo. Tradurre lotte, parole d’ordine, discorsi tra esperienze separate dalla linea coloniale e postcoloniale è, allora, prendersi il rischio di praticare un linguaggio senza diritti di proprietà: un linguaggio che nasce da un incontro e da un rapporto che non c’era e che, pertanto, può scrivere pagine nuove. Non l’aderenza al punto di origine è l’obiettivo di una politica della traduzione, ma la scrittura collettiva di un punto di arrivo.

Un obiettivo che, però, non ammette scorciatoie. Non si tratta di annullare le distanze tra soggetti situati in spazi e posizioni diverse. Al contrario, si tratta di riconoscerle per mettere quegli stessi soggetti in comunicazione e connessione, con l’avvertenza che incomprensioni, contraddizioni e persino conflitti sono sempre possibili, se non necessari. Al recupero decoloniale – è evidente – preferiamo il taglio. Purché l’incisione non cancelli le differenze, perché è attraverso di esse che la nostra politica potrà ancora prendere la sua poesia dal futuro.

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