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La «via polare» cinese e gli inediti vincoli dello sfruttamento

di GIORGIO GRAPPI

da «Il Manifesto» del 17 febbraio 2018

Piuttosto che infilarsi nel dibattito sulle cause del riscaldamento globale, che considerano un fatto, le autorità cinesi mostrano di riconoscere che lo scioglimento dei ghiacci artici può scompaginare la politica mondiale. Gli scenari futuri prefigurano l’apertura di vie marittime transpolari in grado di accorciare i tempi di percorrenza tra la Cina e l’Europa senza dipendere dai porti russi lungo il passaggio a Nord Est.

Se percorribili, queste rotte ridurrebbero la centralità del canale di Suez e del Mediterraneo sulla tratta tra Cina ed Europa. Il libro bianco Politica cinese sull’Artico, pubblicato lo scorso 26 gennaio, ricalca i toni giù usati per diffondere l’iniziativa «una cintura, una via» (nome ufficiale della nuova via della seta), enfatizzando l’importanza della cooperazione internazionale e della connettività infrastrutturale. I due testi sono anzi complementari, tanto che si dice che «una cintura, una via» offrirà a chi voglia condividere la visione cinese delle opportunità per costruire una «via della seta polare».

Sebbene si preveda che entro il 2045 l’Artico sarà libero da ghiacci per almeno una parte dell’anno, si tratta di scenari non immediati e non scontati. Il libro bianco mette però in guardia sul fatto che la nuova «situazione» riguarda l’intera comunità internazionale che, si legge, «si trova di fronte alle stesse minacce e condivide lo stesso futuro rispetto alle questioni globali che riguardano l’Artico». Mentre si dichiara «un grande paese responsabile», la Cina si aspetta lo stesso dagli Stati della regione e afferma il proprio diritto a fare la propria parte nell’Artico, compresa la possibilità di operare nei suoi mari profondi secondo i trattati internazionali vigenti e regole condivise. Un messaggio assertivamente amichevole rivolto a tutti, ma in particolar modo alla Russia, per la quale la regione ha un primario interesse strategico.

Il commercio non è tutto e, al momento, non appare l’aspetto prioritario. Vi sono infatti altri elementi su cui vale la pena soffermarsi. Il primo riguarda l’attenzione verso lo studio scientifico dei cambiamenti climatici, che si accompagna alla scelta già compiuta di investire in produzioni cosiddette «verdi». È evidente come politici e capitali cinesi vedano in questo l’opportunità di spostare il baricentro produttivo verso prodotti a maggior valore aggiunto non soltanto made in China, ma designed in China.

L’Artico rappresenta da questo punto di vista un laboratorio privilegiato per la ricerca e la sperimentazione di nuove tecnologie. Senza dimenticare l’aspetto militare, dove la Cina sconta il fatto di non avere avamposti nella regione. Il punto in cui oggi questi elementi si incontrano in modo più esplicito è lo sviluppo e la realizzazione di rompighiaccio multifunzione, vera misura della potenza artica, un settore dominato dalla Russia e in cui la Cina ha iniziato a investire decisamente dal 2016.

Il secondo elemento da considerare riguarda il fatto che nella regione artica si trovano alcuni dei maggiori giacimenti al mondo di idrocarburi e terre rare. Tra questi si segnalano due siti groenlandesi che vedono già impegnate insieme società australiane e cinesi. A Kvanefjeld, nel sud, Greenland Minerals and Energy (GME) ha ottenuto una licenza per avviare quella che diventerebbe la miniera di uranio più grande al mondo. Dal 2016 una sussidiaria di Shenghe Resources, il cui maggior azionista è l’istituto di ricerca geologica per l’utilizzo polivalente delle sostanze rare di Chengdu, a sua volta controllato dal governo cinese, è entrata nel capitale di GME con la possibilità di acquisire la maggioranza nella fase esecutiva del progetto.

Nel fiordo di Citronen, all’estremo nord, Ironbark Zinc ha ottenuto una licenza per sfruttare un enorme giacimento di zinco e piombo e firmato un memorandum per la sua realizzazione con China Nonferrous, compagnia statale specializzata in estrazione di materiali non ferrosi. Si tratterebbe della miniera e dell’insediamento umano più settentrionali del pianeta, un fatto che pone sfide inedite dal punto di vista tecnologico, ambientale e di organizzazione del lavoro.

L’ampiezza degli interessi sull’Artico rivela caratteri propri del capitalismo contemporaneo che si legano alla cosiddetta globalizzazione con caratteristiche cinesi. Tali sono l’accento sulle infrastrutture, gli intrecci proprietari e finanziari, le diverse forme della pianificazione e del protagonismo statale, l’utilizzo di concessioni estrattive e la creazione di zone per scopi scientifici, commerciali e produttivi, compreso il turismo. La stessa attenzione verso le terre rare risponde tanto a esigenze industriali e interessi strategici cinesi, quanto a una produzione mondiale in cui la connettività logistica, l’informatizzazione e lo sviluppo di fonti alternative di produzione e immagazzinamento di energia hanno riacceso l’interesse verso gli elementi della tavola periodica. Lo scioglimento dei ghiacci rappresenta da questo punto di vista l’apertura di una nuova frontiera non soltanto per la navigazione e il commercio.

Occorre poi comprendere cosa significhi a questo punto «via della seta». È infatti un significato politico, e non una mera evocazione storica, quello che viene sempre più insistentemente attribuito al vecchio nome. Lo stesso reiterato riferimento alla cooperazione win-win non può essere ricondotto esclusivamente allo scopo di stabilizzare posizioni conquistate negli anni a suon di investimenti. C’è infatti, da parte delle autorità cinesi, il dispiegamento di una visione logistica che è ormai entrata in una nuova fase rispetto alla semplice diplomazia delle infrastrutture. In qualche modo la Cina fa i conti con la trasformazione materiale prodotta dalla mutazione logistica, stabilendo nuovi paradigmi per il governo delle relazioni internazionali sulla base della gestione integrata dei processi e di una politica dei corridoi che modifica le coordinate globali.

Il nome «via della seta» assume sempre di più il significato di una trasposizione in termini geopolitici di quanto il capitalismo delle supply chain fa in termini industriali. È a ridosso di questi processi che va registrata la formazione di una classe operaia multinazionale e sottoposta a vincoli inediti per lo sfruttamento globale del suo lavoro.

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