lunedì , 18 Marzo 2024

Rifugiati, migranti e mercato del lavoro nell’Unione Europea. Alcune note

di DEVI SACCHETTO

Queste note analizzano alcuni aspetti della relazione tra il mercato del lavoro, i migranti e i rifugiati nell’Unione Europea, tenendo conto dei recenti flussi migratori provenienti non solo dall’Asia e dall’Africa, ma anche dall’Ucraina, dove continua un conflitto a bassa intensità. La gestione dei recenti flussi di rifugiati e migranti ha esacerbato la segmentazione del mercato del lavoro dell’UE, rafforzando il processo di degradazione. La politica migratoria e del lavoro dell’UE si basa sulla segmentazione del mercato del lavoro, che genera forti differenze salariali e processi di stigmatizzazione e razzismo. Tuttavia, i migranti e i rifugiati, sostenuti anche da una parte dell’associazionismo di base e da alcuni sindacati, si muovono per contrastare questa tendenza.

Negli ultimi anni i flussi di migranti e rifugiati provenienti dall’Asia e dall’Africa attraverso il Mediterraneo hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica europea. Le immagini degli sbarchi, dei campi e delle persone che camminano attraversando i confini sono diventate familiari, così come la presenza dei rifugiati. Nelle ricostruzioni mediatiche e politiche della «crisi dei rifugiati», scarso spazio è stato riservato a quanto accadeva ai confini orientali dell’Unione europea dove i migranti e i rifugiati ucraini hanno iniziato a emigrare in gran numero e in modo silenzioso verso l’UE e la Russia.

Nella cosiddetta «crisi dei rifugiati» gli Stati dell’Unione sembrano aver perso la gestione condivisa e ciascun paese ha iniziato a sviluppare un approccio diverso. La propaganda politica e mediatica contro i migranti privi di documenti prolifera in tutta l’UE, ma in alcuni paesi questa campagna è sostenuta direttamente dalle istituzioni che, in nome dell’emergenza e dell’eccezionalità, hanno approvato in fretta legislazioni ristrettive. Tuttavia, i maggiori controlli non evitano l’arrivo delle persone, incrementandone piuttosto i costi e i pericoli. Inoltre, una volta che i migranti e i rifugiati si trovano nel paese, tenderanno a rimanere più a lungo perché non sono in grado di entrare e uscire facilmente dal paese medesimo[1].

La costruzione di campi e anche il rimpatrio sono andati di pari passo con forme di stigmatizzazione e anche con violenti attacchi razzisti contro l’arrivo di rifugiati e migranti. Tuttavia, l’associazionismo e alcuni sindacati hanno sviluppato forme importanti di solidarietà dal basso. In Germania nel 2015 ben «otto milioni di persone sono state impegnate in un modo o nell’altro per aiutare i rifugiati»[2]. D’altra parte, rifugiati e migranti sono stati i primi ad attivarsi, sviluppando forme di protesta che hanno incrinato non solo la politica dell’UE, ma anche quella retorica dei diritti umani che ha costituito un emblema nella costruzione dell’UE. I conflitti sono estesi a diversi Paesi europei dove le manifestazioni e i sit-in mirano a contrastare i rimpatri, a superare la ghettizzazione dei campi e a sveltire le pratiche per il permesso. Le proteste e le richieste di quanti erano privi di documenti hanno reso più chiaro che la divisione tra migranti economici e rifugiati risponda solo a una logica politica di differenziazione e di filtraggio, poiché ogni persona è politicamente ed economicamente situata in un contesto specifico.

Del processo di degradazione

Fin dalla fine della guerra fredda, le forme di degradazione sociale hanno colpito intere popolazioni, o parti di esse, come nel caso degli ex-iugoslavi e degli afghani. Questa degradazione è stata politicamente «giustificata» con il loro coinvolgimento passivo o attivo in eventi bellici. In particolare, la migrazione forzata è stata accompagnata da forme di degradazione sociale attraverso l’etichettamento e la stigmatizzazione, sostenute dai mass media che hanno spesso rappresentato le popolazioni destabilizzate dai conflitti bellici come vittime. Mentre i benestanti possono viaggiare nelle business class e acquistarsi facilmente una cittadinanza con moneta sonante, i rifugiati sono considerati spesso persone che mancano di conoscenze strategiche e viaggiano leggeri[3]. I rifugiati sono così costruiti socialmente e politicamente attraverso le istituzioni pubbliche e private (chiese, Stati, associazioni, sindacati), che possono agire in quanto «esperti di soggettività». Il loro compito è quello di mediare le relazioni, «ma anche di tradurre i discorsi dominanti in micropratiche che assegnano, classificano e formalizzano le categorie dell’umano… per cercare poi di modellare i loro soggetti e farne esempi di categorie desiderabili»[4].

La stigmatizzazione dei migranti e dei rifugiati contemporanei costituisce la base del processo di degradazione della forza lavoro[5]: quanto più si sviluppano speciali normative per migranti e rifugiati, tanto più diventa irrisorio non solo il loro lavoro, ma anche la loro stessa esistenza. Di solito si manifestano due forme di degrado: l’inflazione «immaginativa» del potenziale criminale delle popolazioni destabilizzate e la rotazione di migranti e rifugiati nei posti di lavoro a bassi salari e a pessime condizioni di lavoro, sulla base della loro presunta mancanza di competenze.

Le forme di tale degradazione sembrano rallentare il riconoscimento delle abilità professionali dei rifugiati, non solo nel settore dei servizi, ma anche nell’industria e perfino nell’agricoltura. Una volta che i loro diplomi superiori o universitari e le loro competenze professionali sono svalutate, i rifugiati e i migranti vengono collocati in mansioni stereotipate. La svalutazione dei loro diplomi può essere un processo analogo a quello di cui fanno esperienza lavoratori e lavoratrici europei, ma questi ultimi hanno il vantaggio delle reti di sostegno familiari e personali. Sono questi processi di emarginazione dalle sfere sociali, politiche ed economiche nei paesi di destinazione che acuiscono le tensioni della crisi politica dell’UE, poiché migranti e rifugiati sono restii a farsi incasellare.

Le persone che si spostano dal loro paese d’origine possono essere disaggregate in categorie diverse e ovviamente c’è una certa sovrapposizione tra categorie quali migranti economici e rifugiati. Indipendentemente dalle ragioni per cui una persona si sposta, la maggior parte dei rifugiati ha buoni motivi per cercare un posto di lavoro nel paese di destinazione. In alcuni paesi sono stati creati specifici incentivi per i datori di lavoro che assumano rifugiati e richiedenti asilo quali ad esempio, la possibilità di pagarli sotto il minimo salariale (Danimarca, Germania), di ridurre i costi del lavoro (Svezia, Finlandia) e di sovvenzioni salariali offerte ai datori di lavoro. In Germania dal 2015 un programma per l’integrazione dei rifugiati nel mercato del lavoro consente di retribuirli al di sotto del salario minimo fino a un massimo di dodici mesi. Tuttavia, nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea, i richiedenti asilo non sono autorizzati al lavoro né sotto l’occhio del padrone né nel mercato del lavoro autonomo[6]. Non sorprende quindi che, come sottolinea uno studio della Commissione europea e dell’Oecd, i profughi impieghino «fino a 20 anni per arrivare a un tasso di occupazione [formale] analogo a quello dei nativi»[7].

Flussi di rifugiati e flussi di lavoro

Il flusso di richiedenti asilo nel periodo 2015-2016 costituisce circa il 20% di tutte le domande di asilo ricevute dall’Europa a partire dalla metà degli anni ’80, ed è quindi uno dei flussi più importanti degli ultimi anni. Nel 2015-2016 circa 2,2 milioni di persone che hanno chiesto protezione sono arrivate in un Paese dell’UE; tuttavia, il 1 gennaio 2017 poco più della metà (1,2 milioni) non sapeva ancora se sarebbe stata autorizzata a rimanere. Per contro circa il 40% dei richiedenti è stato riconosciuto, il 3% è tornato nel paese di origine e il 5% è irreperibile. L’attesa per l’analisi delle pratiche varia notevolmente da paese a paese; la burocrazia tedesca è solitamente più spedita (3 mesi) quella norvegese e italiana più lente (oltre 12 mesi). I cinque gruppi più consistenti di richiedenti asilo sono i siriani, che rappresentano largamente il nucleo più numeroso, gli afgani, gli iracheni, gli eritrei e i nigeriani. Le prime tre nazionalità contano per circa il 52% di tutti i richiedenti asilo[8].

Mentre tutti gli sguardi sono stati rivolti al Mediterraneo e ai flussi di migranti e rifugiati provenienti dall’Africa e dall’Asia, nel 2014 i moldavi hanno cominciato a muoversi liberamente nell’UE. Dal canto suo il potenziale lavoro vivo proveniente dalla Serbia e dalla Bosnia può entrare per qualche mese nell’Unione al seguito di un’azienda o più sovente di un’agenzia di reclutamento. Nel 2017, altre nazionalità si sono aggiunte: ucraini e georgiani possono infatti entrare nell’UE, fino a 90 giorni, senza la necessità di un visto, a patto che non lavorino. Anche a Bruxelles non deve essere sfuggito che una volta entrati, uomini e donne provenienti dall’Ucraina, svestiti in fretta i panni del turista, si inseriscono nei segmenti irregolari del lavoro. Le loro mete migratorie sono al momento divise, prevalentemente, tra Europa e Russia: poco più di 2 milioni di ucraini vivono e lavorano nell’UE e altrettanti in Russia. La Polonia, Paese che ne ospita circa un milione, fin dal confine tratta ruvidamente le lavoratrici ucraine, dove sono oggetto di scherno e di taglieggiamenti da parte dei poliziotti. Il proselitismo patriottico polacco prosegue poi negli uffici dove i permessi di soggiorno vengono rilasciati solo dopo un colloquio in cui uomini e donne ucraini devono dar prova di pentimento rispetto alla storia politica del proprio paese[9].

D’altra parte, gli ucraini emigravano in modo massiccio verso l’Unione europea anche negli anni precedenti. Nel solo 2016, gli Stati membri dell’UE hanno rilasciato circa 3,4 milioni nuovi permessi di «prima residenza» a cittadini di paesi terzi, segnando un aumento del 28% rispetto all’anno precedente. Gli ucraini contano per il 17,3%, ovvero circa 590.000 (erano 500 mila nel 2015), del numero totale dei permessi di soggiorno rilasciati nell’UE[10].

Questo numero potrebbe presto aumentare perché, come ha osservato il ricercatore russo Vladimir Shapovalov, «se il governo ucraino crea un regime che vieta ai cittadini di emigrare in Russia, gli ucraini non avranno altro da fare che spostarsi da est verso ovest, cioè cercare lavoro in Polonia, Germania, Francia e Regno Unito. Questo è il risultato della politica perseguita da Kiev e, indirettamente, dall’UE»[11].

La centralità del legame tra mobilità e occupazione è data dalla gestione delle politiche migratorie. L’internazionalizzazione della produzione e la gestione dei flussi migratori e dei rifugiati in Europa sembrano indicare una chiara volontà politica di costruire sistemi di occupazione almeno a livello sub-continentale[12]. L’Unione europea è allo stesso tempo una serie di Stati nazionali che pretendono la loro sovranità sulle forme di residenza dei suoi abitanti e uno spazio in cui la libertà di movimento costituisce uno dei principali diritti sui quali si fonda la cittadinanza dell’Unione europea. Ma lo spazio europeo è stato gradualmente stratificato, limitando il diritto alla mobilità attraverso la legislazione nazionale e comunitaria.

La popolazione dell’UE-28 allargata è di 511,8 milioni di persone. Nell’agosto del 2017 è stato registrato il livello più alto di occupati nell’UE con circa 235 milioni di lavoratori[13], mentre il tasso di disoccupazione continua a restringersi arrivando al 7,6%. In alcuni Paesi, la mancanza di forza lavoro ha spinto le imprese a rifornirsi perfino nelle prigioni, come succede nella catena di fornitura della DHL nella Repubblica ceca.[14] Si tratta certo di un’occupazione che non sempre garantisce di superare la soglia di povertà, visto che il numero di lavoratori poveri continua a crescere. Cautamente qualche commentatore inizia a mettere in relazione i livelli di precarizzazione con la crescita dei lavoratori poveri, che ha raggiunto ormai il 10% di tutti gli occupati nell’UE[15]. Da questo punto di vista, l’affermazione di un ex-Presidente del Consiglio italiano secondo, cui bisogna aiutare i migranti a casa loro potrebbe essere un buon suggerimento per le politiche interne all’UE.

L’Unione europea è un mercato del lavoro enorme e la mobilità è uno dei suoi punti cruciali. Alcuni ricercatori, particolarmente ascoltati a Bruxelles, sottolineano che la mobilità è ancora eccessivamente contenuta, limitando quindi la ‘necessaria’ flessibilità nel mercato del lavoro e l’efficiente allocazione del capitale umano[16]. Anche se nel 2016 la mobilità in Europa risultava inferiore a quella negli Stati Uniti, tuttavia circa 37 milioni di cittadini stranieri erano registrati come residenti nei paesi dell’UE. Di questi il 44%, pari a 16 milioni, erano cittadini di un altro Stato membro, mentre tra i cittadini di paesi terzi, i maggiori gruppi di migranti provengono rispettivamente dalla Turchia, dal Marocco, dall’Albania e dalla Cina.

I lavoratori europei che vivono in un altro Stato membro costituiscono un mero 3,3% degli occupati ai quali tuttavia va aggiunto un altro 4,3% di lavoratori non comunitari.[17] Nel mercato del lavoro europeo è sicuramente presente anche una parte consistente dei migranti senza documenti, che una decina di anni fa erano stimati tra i 4,5 e gli 8 milioni di persone, con un certo aumento anche negli Stati dell’Europa orientale. Vero è che diversi paesi dell’UE hanno ingranato la marcia dei rimpatri: quasi 230 mila nel 2016, con Germania e Regno Unito tra i paesi più severi.

La maggiore crescita negli ultimi anni del lavoro mobile è quella che si sviluppa attraverso il cosiddetto distacco. Nell’UE ci sono circa 2 milioni di lavoratori in distacco[18] (+41% tra il 2010 e il 2015) che sono solitamente reclutati in un paese dell’Unione per lavorare in un altro Stato membro, sebbene sempre più spesso imprese europee reclutino lavoratori di Paesi non-UE per poi inviarli in qualche altro Paese europeo. È il caso, ad esempio, di molti ucraini dipendenti di imprese polacche inseriti nel mercato del lavoro ceco, o di turchi, brasiliani e marocchini che lavorano in Belgio alle dipendenze di imprese con la sede in un altro paese dell’UE. Il lavoratore in distacco ha diritto almeno ai livelli salariali minimi del paese in cui opera, ma questo diritto è facilmente aggirato e il distaccato deve sovente accontentarsi di salari lievemente più elevati rispetto alle condizioni del paese d’origine. Inoltre, essendo occupati da un’impresa che fornisce un servizio, questi migranti temporanei non hanno accesso alla previdenza sociale nel paese di destinazione dove svolgono la loro prestazione lavorativa. Accanto ai lavoratori in distacco cresce l’importanza delle agenzie di reclutamento internazionale che ingaggiano manodopera in un paese dell’UE, o talvolta anche fuori dai suoi confini, facendola poi confluire in un paese dell’UE.

Nel complesso si può stimare che la presenza di forza lavoro migrante in Europa sia pari ad almeno un decimo degli occupati, circa 20-25 milioni di persone, una stima che non considera quanti hanno conseguito la cittadinanza europea. Si tratta di flussi migratori eterogenei e intervallati, che si sono stratificati nel corso del tempo. L’inserimento progressivo dei migranti, così come dei giovani locali, contribuisce a modificare il mercato del lavoro europeo, anche perché la socializzazione al lavoro avviene in una lunga fase di crisi del sindacato estesa a molti dei paesi europei.

La mobilità in Europa si colloca in strati separati e normati che si impongono poi nei processi produttivi. Ad esempio, il lavoro in distacco, così come il lavoro per conto di un’agenzia internazionale, costituiscono per le imprese una buona alternativa al rinnovamento delle relazioni industriali che vengono aggirate attraverso la legislazione commerciale, approfondendo le sperequazioni nei processi produttivi. Il movimento dei lavoratori all’interno dell’UE è pertanto caratterizzato sia da flussi che godono di una certa autonomia, anche se la loro mobilità è stratificata, sia da flussi irreggimentati che si basano sovente sulle normative commerciali.

Segmentazione e razzismo

L’UE è un’area in cui le forme di discriminazione e razzismo si confrontano con un esteso sistema giuridico formalmente democratico. Si tratta di un sistema a vari livelli che moltiplica le forme della messa al lavoro e garantisce una pluralità di condizioni. Questi dispositivi di differenziazione che attraversano lo spazio europeo alimentano i processi di valorizzazione, ma non paiono rallentare la mobilità autonoma della forza lavoro. Mentre le frontiere nazionali contrastano e filtrano la migrazione internazionale, gli Stati membri dell’UE istituiscono al loro interno forme di controllo e disciplinamento che rendono incerte le forme di sistemazione dei migranti. Si tratta di un’incertezza che deriva anche dalla discrezionalità concessa a ciascun paese membro nel regolare la presenza di migranti e rifugiati. Le restrizioni imposte alla libertà di residenza e di accesso al welfare state adottate da alcuni Stati membri nei confronti dei lavoratori europei plasmano, ad esempio, una nuova stratificazione della cittadinanza europea[19]. Al contempo, mentre i lavoratori comunitari e i migranti con permessi di lungo periodo dispongono di un ampio mercato del lavoro, i lavoratori non comunitari che siano dotati di un permesso di soggiorno di breve periodo possono sì cercare un padrone, nel mercato legale, ma solo all’interno di un unico Stato nazionale.

La maggior parte dei rifugiati e dei ‘nuovi’ migranti si inserisce nel mercato del lavoro, causando solitamente uno scarso impatto sul salario e sull’occupazione dei nativi, mentre più spesso influenzano le condizioni nei posti di lavoro a basso salario e più in generale nel settore informale in cui vengono impiegati migranti dotati di diverso statuto[20]. I vari gruppi di lavoratori stranieri (rifugiati, migranti appena giunti o presenti da un più lungo periodo) ricevono un trattamento differenziato che ha strutturato non solo delle divisioni, ma ha anche modellato e scatenato le paure inducendo i migranti più discriminati ad accettare pessime condizioni di lavoro. La presenza di un’ampia forza lavoro nei segmenti più bassi del mercato del lavoro può produrre per i lavoratori locali, contemporaneamente, sia la loro esclusione dai posti di lavoro marginali, sia la possibilità di risalire nelle gerarchie occupazionali.[21] Inoltre, come evidenzia il caso italiano, la conseguenza della presenza dei rifugiati e di migranti senza documenti può avere anche un’altra implicazione: uno stimolo ai settori economici scarsamente produttivi o in crisi grazie a nuovi programmi di spartana accoglienza, per ben che vada, e di guardinga gestione in abitazioni, alberghi e campi.

Questo processo di segmentazione sta assumendo le caratteristiche di inferiorizzazione e di ghettizzazione, cioè di un processo che incasella lavoratori e lavoratrici in specifiche mansioni sulla base di alcune caratteristiche sociali. L’inferiorizzazione implica contemporaneamente degradazione per alcuni e promozione per altri. Nel processo di inferiorizzazione un ruolo cruciale viene svolto dai singoli Stati (e dall’UE) attraverso specifiche normative, dai mass media che costruiscono figure stereotipate, dalle imprese che costruiscono i loro bacini di reclutamento e, talvolta, dagli stessi lavoratori nel tentativo di difendersi dai processi di degradazione. Si tratta evidentemente di un processo che ha caratteristiche peculiari in ogni paese. Tuttavia, per quanto variabile sia la geometria dell’inferiorizzazione, il colore della pelle, la nazionalità, il genere e la classe risultano stigmi resistenti. Sono questi elementi che costruiscono socialmente e istituzionalmente la presenza di migranti e rifugiati, definendo altresì le relazioni sociali e gli spazi di azione degli individui. All’interno dell’UE neppure il privilegio della pelle bianca, garantisce l’immunità dai processi di degradazione, come ben sanno i cittadini dei Paesi dell’Europa orientale.

Conclusioni

La politica europea del lavoro continua a gestire la forza lavoro ben oltre i suoi confini. Gli accordi economici vanno di parsi passo con la cooperazione politico-militare, buon ultima quella con il Niger, al fine di assicurarsi ampie quantità di fresche energie umane ‒ manuali e intellettuali – da inserire nei processi produttivi. La cooperazione con alcuni Stati può offrire buone soluzioni, come nel caso della Turchia per gestire i rifugiati o il Marocco per riprendere i migranti deportati dall’UE. L’organizzazione della produzione basata su catene globali o reti globali è gestibile solo se può incanalare queste energie verso i luoghi ed entro i tempi adeguati alla loro valorizzazione.

La gestione apparentemente caotica dei flussi di migranti e rifugiati sta modificando in profondità la composizione della forza lavoro, cercando di pacificare i conflitti lavorativi e imponendo estesi processi di inferiorizzazione basati sul genere, il colore della pelle, la nazionalità e la classe. La parte del lavoro più semplificato e serializzato, precario, spesso stagionale e quasi ovunque non sindacalizzato è riservata ai migranti e ai rifugiati. Si tratta di settori in cui l’esternalizzazione è impossibile o estremamente difficile: costruzione, agricoltura, logistica, lavoro domestico e sessuale. Sui migranti, nuovi e vecchi, e sui rifugiati si sperimentano così modalità di inclusione inferiorizzante nei processi lavorativi e, più in generale, nella società. Tuttavia, per quanto i migranti e i rifugiati siano vulnerabili, essi non paiono disponibili ad adattarsi silenziosamente a questo incasellamento. Se la politica europea continua a gestire la forza lavoro oltre i suoi confini, anche i movimenti dei migranti continuano a far saltare i confini territoriali e permettono di produrre rotture e attraversamenti nei processi di segmentazione del lavoro. Con gli scioperi nei posti di lavoro, con le lotte al confine per la libertà di muoversi, con il rifiuto del lavoro gratuito nei centri d’accoglienza, con le rivolte per ottenere i documenti i migranti mettono in crisi le politiche europee di ristrutturazione del mercato del lavoro. Con le loro lotte, esprimendo un rifiuto della gerarchizzazione della forza lavoro, i migranti rompono le divisioni, rifiutando di farsi categorizzare: in questo senso il protagonismo del lavoro migrante è l’opportunità politica per precari e operai.

 

[1] K. F. Zimmermann, «Refugee and Migrant Labor Market Integration: Europe in Need of a New Policy Agenda», presented at the EUI Conference on the Integration of Migrants and Refugees, 29-30 September 2016.

[2] Migration, refugees and labour, «wildcat no. 99» ‒ winter 2015/16.

[3] F. Gambino, Sulla cittadinanza proprietaria. Dai bagagli appresso all’investimento anticipato, in A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico, Costa & Nolan, Milano, 1988, pp. 187-209.

[4] A. Ong, Da rifugiati a cittadini, Cortina, Miano, 2005, pp. 42.

[5] Y. Moulier-Boutang, Économie politique des migrations clandestines de main d’œuvre, Publisud, Paris, 1986.

[6] Eurofound, Approaches to the labour market integration of refugees and asylum seekers, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2016.

[7] European Commission, Oecd, How are refugees faring on the labour market in Europe? A first evaluation based on the 2014 EU Labour Force Survey ad hoc module, 2016, p. 6.

[8] P. Connor, Still in Limbo: About a Million Asylum Seekers Await Word on Whether They Can Call Europe Home, 20 September 2017. Si veda inoltre: Asylum statistics.

[9] K. Puto, Second-hand Europe: Ukrainian immigrants in Poland, Open Democracy, 31 May 2017.

[10] Eurostat, New high in first residence permits issued in the EU Member States in 2016, 16 November 2017, http://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/8456381/3-16112017-BP-EN.pdf/e690a572-02d2-4530-a416-ab84a7fcbf22.

[11] Migrant Crisis Part II: EU Braces for Flood of Illegal Ukrainian Migrant Workers, 30 maggio 2017.

[12] S. Mezzadra, I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee, Derive&Approdi, Roma, 2004; F. Raimondi e M. Ricciardi, Lavoro migrante, Derive & Approdi, Roma, 2004.

[13] Eurostat, «Second quarter of 2017 compared with the first quarter of 2017. Employment up by 0.4% in both the euro area and in the EU28», 13 September 2017; Eurostat, «Euro area unemployment at 9.1%. EU28 at 7.6%», 2 ottobre 2017.

[14] https://www.denik.cz/ekonomika/vezni-tridi-a-bali-zbozi-pro-dhl-jejich-zamestnavani-se-osvedcilo-20170531.html. Ringrazio Marek Canek per queste informazioni.

[15] Eurofound (2017), In-work poverty in the EU, Publications Office of the European Union, Luxembourg.

[16] Klaus F. Zimmermann, Refugee and Migrant Labor Market Integration: Europe in Need of a New Policy Agenda, presented at the EUI Conference on the Integration of Migrants and Refugees, 29-30 September 2016.

[17] N. Mussche, V. Corluy, I. Marx, How posting workers shapes a hybrid single European labour market, in «European Journal of Industrial Relations», 2017.

[18] European Commission, Posted Workers in the EU.

[19] Enrica Rigo, Citizenship at Europe’s borders: some reflections on the postcolonial condition of Europe in the context of EU enlargement, «Citizenship Studies» 9, n. 1, 2005, pp. 3-22.

[20] E. Ceitoglu, H.B. Gurcihan Yunculer, H. Torun and S. Tumen, The impact of Syrian refugees on natives’ labor market outcomes in Turkey: Evidence from a quasi-experimental design, Ankara, Central Bank of the Republic of Turkey, 2015.

[21] M. Foged and G. Peri, Immigrants’ effect on native workers: New analysis on longitudinal data, «American Economic Journal: Applied Economics», n. 8, 2016, pp. 1-34.

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